lunedì

Longino




Cassio Longino (latino: Longinus) è, secondo una tradizione cristiana, il nome del soldato romano che trafisse con la propria lancia il costato di Gesù crocifisso, per accertare che fosse morto, come riporta il vangelo di Giovanni:

« ... ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. » (Giovanni 19,34)

Nei vangeli canonici non è presente il nome del soldato, il nome "Longinus" deriva da una versione degli Atti di Pilato, apocrifi.

Longino è venerato come martire dalla Chiesa ortodossa e come santo dalla Chiesa cattolica.

Nato in Italia centrale presso la città di Anxanum (oggi Lanciano) e lì tornò in vecchiaia, militò nella Legione Fretense, di stanza in Siria e nella Palestina attorno all’anno 30. Secondo la tradizione fu il centurione romano che al momento della morte di Gesù gridò: ”Costui era veramente il figlio di Dio”, e che successivamente, quando il corpo di Gesù doveva essere deposto dalla croce perché stava per iniziare il sabato, giorno di festa per gli ebrei, in cui non si potevano lasciare i cadaveri dei condannati a morte esposti per evitare di spezzargli le ossa delle gambe, come prescriveva la legge, per un atto di pietà, preferì colpirgli il costato con la lancia. Una tradizione medievale racconta che Longino era malato agli occhi, ma il sangue di Gesù, schizzato su di essi, lo guarì. Potrebbe essere una leggenda popolare nata per dire che la vista del sangue di Cristo, mentre era ai piedi della croce, gli aprì gli occhi alla fede cristiana. Secondo una leggenda Longino è nato nel villaggio di Sardial in Cappadocia.

Comandò poi i soldati messi di guardia al sepolcro di Gesù, e dopo la sua Resurrezione, andò assieme alle altre guardie dai sommi sacerdoti a riferire l’accaduto. Questi tentarono di corromperli con doni e promesse affinché testimoniassero falsamente che i soldati di guardia al sepolcro si erano addormentati, permettendo che i seguaci di Gesù ne trafugassero il corpo, per poi dire che era risorto. Mentre gli altri soldati si lasciarono corrompere, Longino rifiutò di dire il falso, anzi contribuì a diffondere a Gerusalemme il resoconto della Resurrezione di Cristo. Per questo motivo cadde in disgrazia agli occhi dei maggiorenti della città, che decisero di farlo uccidere, il centurione però avendo scoperto questo disegno, lasciò l’esercito romano assieme a due commilitoni e si rifugiò in Cappadocia.

Anche lì diffuse la notizia della Resurrezione, convertendo al cristianesimo molte persone. La cosa fu notata dalle comunità israelitiche presenti nella regione, che la riferirono subito ai sacerdoti di Gerusalemme, che intervennero presso Pilato chiedendo la condanna a morte di Longino per tradimento. Pilato acconsentì e inviò in Cappadocia due fidati soldati della sua guardia, con l’ordine di catturare lui e i suoi due compagni, decapitarli e riportargli indietro le loro teste. Appena giunti, questi incontrarono Longino, ma non lo riconobbero, anzi gli chiesero dove potessero rintracciarlo. Il centurione si offrì di aiutarli e li ospitò in casa sua per tre giorni. Quando giunse il momento di accomiatarsi, i due soldati gli chiesero come potevano sdebitarsi dell’ospitalità, egli allora si rivelò dicendo: Sono Longino, che state cercando, sono pronto a morire e il più grande regalo che possiate farmi è di eseguire gli ordini di chi vi ha mandato. I due non volevano credere alle sue parole, ma poi dietro le sue insistenze e per paura della punizione di Pilato, si decisero a eseguire la sentenza su di lui e sui suoi due compagni. Longino raccomandò loro dove dovevano seppellire il suo corpo, si fece portare da un servo una veste bianca, la indossò e si lasciò decapitare.

Le due guardie riportarono a Gerusalemme le teste dei tre condannati, che Pilato fece esporre alle porte della città e poi fece gettare in una discarica. Dopo qualche tempo, una povera donna cieca della Cappadocia, rimasta vedova, si mise in viaggio per Gerusalemme guidata dal figlioletto, per chiedere la grazia di essere guarita, appena giunse nella città il figlio morì lasciandola sola e senza guida. Le apparve in sogno Longino, incoraggiandola e promettendole che avrebbe pregato per la sua guarigione, le chiese poi di aiutarlo a dare degna sepoltura alla sua testa e le indicò il luogo dove doveva andare a cercarla. La cieca allora, facendosi accompagnare, ritrovò la testa di Longino nella discarica, sotto un mucchio di pietre, appena la toccò riacquistò la vista. Dopo le riapparve in sogno il santo che la rassicurò, facendole vedere che il figlio era già in paradiso. La pregò poi di riporre la sua testa nella stessa bara del figlio e di seppellirla a Sardial nel suo villaggio natale.

Un’altra tradizione racconta che divenne cristiano, e portò con sé in Italia il sangue raccolto dalla ferita di Gesù in un’ampolla, osservandolo il sangue si liquefaceva, (questo particolare sarebbe simile al miracolo del sangue di San Gennaro). Longino sarebbe poi stato martirizzato nei pressi di Mantova.

Culto

Secondo la tradizione di Mantova, dopo il martirio avvenuto nei pressi della città, fu seppellito nel sito dove poi sorse la basilica di Sant'Andrea. Nella cripta della stessa basilica, si conservano tuttora la reliquia della fiala del "preziosissimo sangue di Cristo", che sarebbe il sangue raccolto da Longino, e la reliquia della spugna usata per dare da bere l'aceto a Gesù.
La tradizione vuole che per tutelare le preziose reliquie, Longino seppellì la cassettina contenente il sacro sangue in un luogo segreto nei pressi dell'Ospedale dei Pellegrini. Martirizzato il 2 dicembre dell'anno 37 venne sepolto nella contrada mantovana chiamata Cappadocia. Per secoli si persero le tracce della reliquia del Preziosissimo Sangue, fino all'anno 804, quando Sant'Andrea, apparso ad un fedele, indicò con precisione il luogo dove si trovava interrata la cassetta portata da Longino. Nello stesso sito si trovarono le ossa del martire conservate ora nella basilica di Sant'Andrea.
La santificazione del vecchio soldato avvenne il giorno 2 dicembre 1340 sotto il papato di Innocenzo VI.

Nelle raffigurazioni artistiche Longino viene rappresentato:

Ai piedi della croce, in armatura da legionario romano, con l’elmo e il gladio al fianco, mentre con la sinistra si ripara gli occhi e con la destra colpisce con la lancia il costato di Gesù.
Inginocchiato, con la testa su di un ceppo, pronto per essere decapitato e con gli occhi cavati (perché prima della decollazione avrebbe avuto gli occhi cavati).
Con l’armatura mentre uccide con la lancia un drago.
Vestito da legionario, con in mano un’ampolla contenente il sangue di Cristo.
Una statua di san Longino è presente nella basilica di San Pietro in Vaticano, scolpita da Gian Lorenzo Bernini.

La lancia di Longino

Nel medioevo, ebbe anche grande diffusione un'altra reliquia del santo, la sua lancia. In verità, numerose furono le reliquie identificate con la lancia di Longino.

Gli imperatori del Sacro Romano Impero, ad esempio, da Ottone I in poi, avevano fra le proprie insegne la cosiddetta Sacra Lancia (o Lancia del Destino), e presto arrivarono ad identificarla con quella. Nella punta di questa Lancia sacra fu incorporato un chiodo di ferro che sarebbe uno di quelli usati per crocifiggere Gesù. Ancora oggi essa è custodita a Vienna.

Un’altra reliquia della punta della lancia di Longino raccolta dal re di Francia san Luigi fu conservata con altre reliquie attribuite a Gesù, come la corona di spine ed un frammento della Vera Croce, nella Sainte-Chapelle di Parigi fino alla Rivoluzione francese, quando furono disperse dai rivoluzionari.

fonte: Wikipedia



domenica

processo per stupro



Processo per stupro (A Trial for Rape) è un film del 1979 diretto da Loredana Rotondi. Fu il primo documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla RAI. Ebbe una vastissima eco nell'opinione pubblica relativamente al dibattito sulla legge contro la violenza sessuale.

L'idea di documentare un processo per stupro nacque in seguito ad un Convegno Internazionale sulla «Violenza contro le donne», organizzato dal movimento femminista nell'aprile del 1978 nella Casa delle donne in via del Governo vecchio, a Roma. In quel convegno emerse che ovunque nel mondo, quando aveva luogo un processo per stupro, la vittima si trasformava in imputata. Loredana Rotondo, programmista alla RAI, propose a Massimo Fichera, allora direttore di Raidue, di filmare un processo per stupro in Italia. Fichera accettò. Dietro preventiva autorizzazione del Presidente della corte, il documentario fu registrato al Tribunale di Latina da Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio, Loredana Rotondo sotto la regia di Loredana Rotondi.

Il documentario Processo per stupro fu mandato in onda per la prima volta alle 22:00 il 26 aprile 1979 e fu seguito da circa tre milioni di telespettatori; a seguito di richieste di replica, fu ritrasmesso in prima serata nell'ottobre dello stesso anno e fu seguito da nove milioni di telespettatori. Fu quindi insignito del Prix Italia e presentato a svariati festival del cinema, fra cui il Festival di Berlino, la settimana del cinema europeo a Nuova Dehli, ottiene una nomination nella terna finale dell'International Emmy Award; se ne conserva oggi una copia negli archivi del MOMA di New York.

In un'intervista del 2007, l'avvocata Tina Lagostena Bassi, che nel processo era difensore di parte civile, sottolineò come la trasmissione in tv del documentario fu sconvolgente per gli spettatori perché si rendeva visibile come gli avvocati che difendevano gli accusati di stupro potevano essere altrettanto violenti nei confronti delle donne: inquisendo sui dettagli della violenza e sulla vita privata della parte lesa, puntavano a screditarne la credibilità e finivano per trasformarla in imputato. L'atteggiamento mentale che emergeva in aula era che una donna «di buoni costumi» non poteva essere violentata; che se c'era stata una violenza, questa doveva evidentemente essere stata provocata da un atteggiamento sconveniente da parte della donna; che se non c'era una dimostrazione di avvenuta violenza fisica o di ribellione, la vittima doveva essere consenziente.

Nel dibattimento, il «disonore» si sposta gradualmente dal presunto aggressore alla presunta vittima, tanto che nella sua arringa, l'avvocata Lagostena Bassi sente la necessità di ricordare che lei non è il difensore della parte lesa, ma l'accusatore degli imputati.

fonte: Wikipedia








martedì

Giovanna di Castiglia



Giovanna di Trastamara, o Giovanna di Aragona e Castiglia detta la Pazza, in catalano Joana d'Aragó i de Castella o Joana la Boja, in castigliano Juana I de Trastámara, o Juana la Loca, fu duchessa consorte di Borgogna, delle Fiandre e altri titoli dal 1496 al 1506, principessa delle Asturie dal 1498 al 1504 e principessa di Girona dal 1498 al 1516, regina di Castiglia e León dal 1504 al 1555, poi regina dell'Alta Navarra dal 1515 al 1555 e, infine, regina di Aragona, Valencia, Sardegna, Maiorca, Sicilia e Napoli e contessa di Barcellona e delle contee catalane dal 1516 al 1555.

Discendente dal casato di Trastamara, era la figlia terzogenita del re di Sicilia e re della corona d'Aragona e futuro re dell'Alta Navarra, Ferdinando II (unico figlio maschio nato dal duca di Peñafiel, re di Navarra e re della corona d'Aragona, Giovanni II e dalla sua seconda moglie Giovanna Enriquez, figlia dell'ammiraglio di Castiglia, signore di Medina de Rioseco e Conte di Melgar, Federico Enriquez) e della regina di Castiglia e León, Isabella di Castiglia, figlia del re di Castiglia e León, Giovanni II e di Isabella del Portogallo, figlia di don Giovanni d'Aviz (figlio del re del Portogallo, Giovanni I del Portogallo e di sua moglie, Filippa di Lancaster), e di Isabella di Braganza, figlia del duca di Braganza, Alfonso, e di Beatriz Pereira de Alvim, l'unica figlia di Nuno Álvares Pereira, conestabile del regno e conte di Arraiolos, Barcelos e Ourém.
Fu la madre di Carlo di Gand, futuro imperatore del Sacro Romano Impero col nome di Carlo V. Sua sorella fu Caterina di Aragona, sventurata prima moglie del sovrano inglese Enrico VIII.

Politica matrimoniale e successione al trono spagnolo

La politica matrimoniale tipica per l'epoca, di Ferdinando e Isabella, Reyes Católicos come li aveva titolati nel 1494 papa Alessandro VI Borgia, sempre attenta a intrecciare unioni utili agli interessi della casata sul piano internazionale, portò matrimoni molto prestigiosi ai cinque figli:

Isabella (1470-1498) venne data in sposa ad Alfonso d'Aviz, erede al trono della corona portoghese ma che morì pochi mesi dopo le nozze; (in seconde nozze sposò poi Manuele I re del Portogallo);
Giovanni (1478-1497) erede al trono, sposò la figlia dell'Imperatore Massimiliano I, Margherita d'Asburgo duchessa di Borgogna;
Maria (1482-1517), sposò il vedovo della sorella di Manuele I del Portogallo;
Caterina (1485-1536) fu sposa di Arturo d'Inghilterra e alla morte di questo fu sposa poi ripudiata di suo cognato, Enrico VIII Tudor;
Per quanto riguarda Giovanna fu deciso che sarebbe diventata moglie di Filippo d'Asburgo detto Filippo il Bello, secondo figlio dell'imperatore Massimiliano I.

Questa unione è considerata una delle scelte di politica matrimoniale meglio riuscite nella storia europea: l'erede di Giovanna e di Filippo sarebbe divenuto possessore di un territorio vastissimo oltre che pretendente alla Corona imperiale.

Il tema della pazzia

Le ricerche di Gustav Adolf Bergenroth e gli studi di Karl Hillebrand gettano nuova luce su un fatto storico archiviato frettolosamente; secondo questi studiosi, sotto la voce pazzia. Fatto che ha visto vittima non solo una Regina ma anzitutto una donna sacrificata, secondo questi studiosi, non alla ragion di stato bensì all'egoismo personale e politico di un padre prima, di un figlio poi, con un breve intermezzo coniugale in cui un marito colpiva negli affetti e nella femminilità una donna, la cui vera colpa era di essere Regina e di avere espresso, fin dalla fanciullezza, un anticonformismo religioso inconsueto per i tempi.

Questo atteggiamento le aveva scatenato contro la madre Isabella Regina di Castiglia, la parte più retriva della gerarchia cattolica e di Ferdinando II d'Aragona, che ne facevano strumento di costruzione di una recente unità nazionale e di consenso alla propria politica. Lo studioso tedesco Bergenroth, nella seconda metà dell'Ottocento, con un lavoro da certosino e con spirito investigativo minuzioso ha scavato negli archivi di Simancas riuscendo ad aprire quegli armadi segreti che per più di quattro secoli avevano celato documenti che avrebbero dato un corso diverso alla storia di Giovanna di Castiglia. Quei documenti furono messi a disposizione della comunità storica con la loro pubblicazione nel Calendar of letters, despaches and State papers relating to negotiations between England and Spain, 1868.

Si dischiuse, così, un nuovo scenario storico che ha portato Hillebrand al riesame del caso e a conclusioni che divergono dalla versione più conosciuta ricostruendo, sulla base dei nuovi ritrovamenti documentali, la vicenda storica e umana di Giovanna di Castiglia.
Il tema della follia di Giovanna di Castiglia ha suscitato, anche di recente, l'interesse di storici e scrittori. Alcuni autori non lo hanno approfondito ritenendolo trascurabile nel gioco della "grande storia", mentre altri hanno messo in dubbio la versione ufficiale della pazzia di Giovanna, pur riconoscendole un certo anticonformismo.
È tuttavia impossibile, dati il tempo trascorso, la documentazione frammentaria, la marginalità storica della questione, eliminare dubbi in un senso o nell'altro e sciogliere così definitivamente l'enigma della presunta pazzia di Giovanna.

Lo scenario politico spagnolo

Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia, genitori di Giovanna, l'Aragona e la Castiglia non si erano fuse in uno stato unitario (nel senso moderno del termine), ma erano rimaste due Corone autonome, sottoposte alle proprie leggi. Isabella rimaneva la sovrana (Reina proprietaria) di quest'ultima, atteso che vigeva il sistema politico del cosiddetto stato patrimoniale. La conseguenza fu che gli affari relativi alle due Corone venivano trattati «come se fossero l'uno un problema esclusivamente castigliano e l'altro un problema aragonese, e cioè li si affrontò come se l'unione fra le due corone non fosse mai avvenuta».

Ferdinando aveva acquisito con il matrimonio la Corona di Castiglia, ma con poteri più limitati di quelli della moglie Isabella, che rimaneva la Reina proprietaria. Nel 1504 Isabella confermò questo principio stabilendo, nel testamento, che alla propria morte Ferdinando avrebbe dovuto restituire la Corona di Castiglia alla figlia Giovanna, propria erede diretta. In una situazione normale Giovanna sarebbe diventata di diritto Reina proprietaria di Castiglia, vanificando così le ambizioni del padre e del suo disegno politico. In questo contesto si svolse la tragedia di Giovanna.

L'anticonformismo di Giovanna

Giovanna fin dalla fanciullezza dimostrò un carattere non convenzionale e anticonformista, in un ambiente tetro, retrivo e storicamente difficile per la Reconquista e in cui la religione era un elemento importante dell'identità nazionale.
Se, una volta ultimata la Reconquista con la sconfitta definitiva di Boabdil, ultimo re musulmano di Granada, 2 gennaio 1492, e con l'ingresso ufficiale dei Re cattolici in Granada, 6 gennaio 1492 la nazione era sotto controllo dal punto di vista militare, vi erano tensioni politiche e socio-religiose. Sotto l'aspetto politico si era nella fase di consolidamento del potere reale, teso alla costruzione di una nascente unità nazionale; sotto l'aspetto socio-religioso incombeva il problema dei musulmani (moros), degli ebrei e delle eresie, problema risolto drasticamente con l'espulsione delle comunità giudaiche e dei moros.
Giovanna era forse giovanilmente e caratterialmente ribelle e suscitava scandalo nella corte reale della madre, che la sottoponeva ad una disciplina sempre più rigida. La sua freddezza nei confronti del Cattolicesimo e dei suoi metodi si rivelarono una miscela esplosiva.

Giovanna e Filippo d'Asburgo

All'età di 17 anni Giovanna viene data in sposa all'arciduca Filippo d'Asburgo per ragioni di alleanze politiche.
Il viaggio per giungere alla nuova corte fu lungo e travagliato. Giovanna si separò dalla sua terra nell'agosto del 1496, quando il mare che bagna la costa cantabrica lo permise: il viaggio via terra attraversando la nemica Francia era impensabile. Il 21 ottobre 1496 furono celebrate le nozze a Lier in veste ufficiale, in quanto Filippo era rimasto talmente affascinato dalla bellezza e dalla forza di Giovanna da volerla sposare (e consumare il matrimonio) nel giorno stesso dell'arrivo di Lei nelle Fiandre. I cortigiani vedevano Filippo e Giovanna come una coppia perfetta. Nonostante fossero solo degli adolescenti, insieme si dilettavano. Iniziarono ben presto a conoscersi e ad amarsi come se non appartenessero alla famiglia reale.

Giovanna e Filippo si insediarono a Bruxelles dove nacque la loro prima figlia, Eleonora.
La prematura morte del fratello Giovanni, a distanza di un anno da quella della sorella Isabella, regina del Portogallo, e del suo erede Miguel avvenuta nel 1500 pochi mesi dopo la nascita di Carlo, secondo figlio di Giovanna, fecero sì che Giovanna divenisse l'erede al trono di Castiglia.

Se sotto l'aspetto politico il matrimonio era stato un successo diplomatico lo era stato anche sotto l'aspetto coniugale. Giovanna era solita respingere il marito quando questo degnava d'attenzione altre dame, riuscendo ad allontanarlo per mesi e a farlo cadere in depressione, mentre lui scatenava drammatiche scene di gelosia. Nel novembre del 1504, alla morte della madre, si aprì il problema della successione che per Giovanna ebbe sviluppi drammatici. Con l'inizio del problema della successione, iniziarono anche i problemi fra la coppia. Reso folle dall'ambizione e dalla sete di potere, Filippo voleva a tutti i costi impossessarsi del trono che spettava legittimamente alla consorte. La loro relazione si mantenne appassionata e salda anche nei periodi di odio, grazie al carattere forte di Giovanna e all'affetto cieco ed esagerato che Filippo nutriva per lei. Alla nascita di Fedrinando, Giovanna rimase in Spagna, mentre Filippo tornò nelle Fiandre per motivi politici. Quando si riunirono, la loro relazione si complicò poiché, nell'anno in cui Giovanna era stata assente, Filippo era stato con un'altra donna, per di più francese. L'ira di Giovanna fu presto sostituita da indifferenza. Nonostante i due non rinunciassero alla passione (nacque infatti un'altra figlia), qualcosa era cambiato. Filippo si ammalò e Giovanna si rifiutò di abbandonarlo, nonostante fossero ormai nemici dichiarati per il trono di Spagna. Quando lui morì, iniziarono le patologia di una presunta follia di Giovanna causata dal dolore per la sua scomparsa.

È facile comprendere che Giovanna, fanciulla diciassettenne, vivesse il matrimonio con Filippo il Bello come un atto liberatorio, e, oltretutto, sviluppando un forte sentimento d'amore verso lo sposo, sentimento che si accorgerà ben presto di essere ricambiato con stucchevole devozione. Giovanna manifestò subito anche nella nuova casa il proprio temperamento poco ortodosso verso la religione, e poco dopo sviluppò un forte risentimento e una grande gelosia verso il marito.

Le reazioni di Giovanna aumentarono il disappunto di Isabella, opportunamente informata dal frate Tommaso di Matienzo che aveva inviato alla figlia per recuperarla alla religione. Agli occhi della madre Giovanna appariva quasi eretica e pertanto non poteva essere nel pieno delle sue facoltà mentali. Questa situazione conflittuale faceva il gioco di Ferdinando, che non voleva perdere la Corona di Castiglia a favore della figlia e del genero, ma anche degli ambienti religiosi.
Filippo, d'altra parte, voleva gestire da solo il regno che la moglie avrebbe ereditato e che un'opportuna demenza della stessa gli avrebbe consegnato. Forse è in ragione di ciò che Isabella nominò nel suo testamento il marito Ferdinando reggente incondizionato della Corona di Castiglia.

La successione al trono

Alla morte di Isabella, 26 novembre 1504, Ferdinando assunse immediatamente la reggenza facendola acclamare dalle Cortes a Toro. Fu immediata la protesta del genero Filippo che non voleva perdere la Castiglia ed era pronto allo scontro armato, scontro che venne, tuttavia, evitato dall'arte diplomatica di Ferdinando. Si arrivò così all'accordo di Villafáfila in base al quale Ferdinando cedeva la Castiglia a Filippo, convenendo con un secondo trattato l'esclusione di Giovanna dal governo a causa del suo presunto stato mentale alienato ma, subito dopo, dichiarò di avere subìto un'estorsione da parte del genero, che accusò di tenere prigioniera Giovanna, e smentì il trattato appena firmato, affermando che Giovanna doveva mantenere i propri diritti di Reina proprietaria della Castiglia.
In questa controversia appare evidente la contraddizione tra la prima dichiarazione di incapacità della figlia e la successiva affermazione dei diritti regali della stessa: una volta folle, un'altra savia.
In effetti sia Ferdinando che Filippo

« ambedue hanno interesse ad accreditare l'idea che Giovanna sia incapace di governare. »
(J. Perez, Isabella e Ferdinando, p. 320, op. cit. in bibliografia.)

Sopravvenne provvidenziale la morte di Filippo, 25 settembre 1506, su cui si sospettò non fosse estranea la mano di Ferdinando, e Giovanna divenne un'ambitissima vedova, erede di una prestigiosa Corona.
Qui cominciò la tragedia di Giovanna di Castiglia: il padre Ferdinando, reggente, scrisse a tutte le Corti lamentando la demenza della figlia causata dall'improvvisa morte dell'amato sposo. Nacque la leggenda, opportunamente esaltata e diffusa, degli strani comportamenti di Giovanna, vedova inconsolabile, verso il feretro del marito, comportamenti di cui non vi è documentazione o testimonianza che non provenga dagli ambienti di corte.
Dalla morte della madre e fino alla sua, Giovanna detenne solo formalmente il titolo di regina di Castiglia, in quanto il vero potere fu esercitato da una serie di quattro diversi reggenti.

Prigionia

Dalla morte del marito, 1506, e fino al 1520 Giovanna venne confinata, per ordine del padre, nel Castello di Tordesillas, completamente isolata dal mondo esterno, e vi rimase anche quando morto il padre Ferdinando, 23 gennaio 1516 a Madrigalejo, la Spagna, ormai unita, passò al figlio Carlo di Gand, poi meglio conosciuto come Carlo V.
Il 4 novembre 1517 Carlo, che non vedeva la madre da dieci anni, essendo stato allevato nelle Fiandre dalla zia Margherita, visitò la madre, di cui non ricordava le sembianze e di cui aveva solo sentito descrivere la follia. L'incontro, peraltro, era dettato dalla necessità di ottenere la legittimazione alla assunzione del potere, ma la situazione per Giovanna non cambiò.

Carlo temeva le idee poco convenzionali della madre specie per quanto riguarda la religione. Un governo della madre avrebbe avuto effetti dirompenti su quegli interessi del clero e della nobiltà che si erano consolidati negli anni della reggenza di Ferdinando. Avrebbe altresì escluso dalla gestione della corona lui e l'entourage fiammingo di cui era circondato e che si stava arricchendo enormemente alle sue spalle.
Un'incapacità mentale di Giovanna faceva comodo a molti e ovviamente gli interessati ne erano consapevoli. Carlo continuò la politica del nonno lasciando la madre nella stessa condizione in cui l'aveva trovata: prigioniera nel palazzo di Tordesillas.

«Egli sacrificò risolutamente la madre alla sua missione, come Filippo aveva sacrificato la moglie alla sua avarizia, come Ferdinando aveva immolato la figlia ai suoi piani politici»

Carlo pose a custodia di Giovanna il marchese di Denia, don Bernardino de Sandoval y Royas che si dimostrò un feroce aguzzino non migliore del suo predecessore Ferrer, che, peraltro, dichiarava di non avere mai sottoposto la Regina alla tortura della cuerda se non per ordine del padre Ferdinando.

La prigionia di Giovanna, regina di Castiglia, a Tordesillas fu estremamente dura, per quanto coerente con i tempi, e resa ancora più dura sia dal rigoroso isolamento a cui fu sottoposta sia dai tentativi di costringerla a pratiche religiose, come la confessione, che ostinatamente rifiutava.
Il marchese di Denia manifestò uno zelo esemplare nella sua funzione di carceriere-aguzzino, come dimostra la corrispondenza intrattenuta con Carlo, nella quale a volte gli ricordava che prima dei sentimenti filiali dovevano venire gli interessi politici: a volte suggeriva di applicare alla Regina la tortura perché questa sarebbe stata utile alla sua salvezza e certamente avrebbe reso un servizio a Dio e spesso gli ricordava che egli agiva nel suo esclusivo interesse. Il marchese allontanava quei frati che, messi vicino alla Regina nel tentativo di convertirla, ne divenivano, invece, amici e difensori, come accadde per frate Juan di Avila. Di tutto veniva sempre informato il figlio Carlo, che temeva una Giovanna libera e attiva, che potesse infiammare il serpeggiante sentimento popolare antifiammingo, mettendo in pericolo il suo potere.

Rivolta dei Comuneros

Da tempo covava in Castiglia un forte risentimento contro Carlo e i fiamminghi del suo seguito per la rapacità con cui esercitavano il potere e per averne monopolizzato quasi tutte le leve. A ciò si aggiungeva il fatto che Carlo si sarebbe dovuto allontanare per cingere la corona imperiale cui era pervenuto dopo la morte del nonno Massimiliano in seguito a una confusa serie di intrighi e immense somme di danaro spese per comprare i voti necessari all'elezione. In effetti Carlo partì il 20 maggio 1520 lasciando come suo reggente l'odiato fiammingo Adriano di Utrecht, futuro papa Adriano VI.

Alla fine del maggio 1520 scoppiò la cosiddetta rivolta dei Comuneros, con carattere prevalentemente antifiammingo, a capo della quale emerse Juan de Padilla. Nell'agosto dello stesso anno i rivoltosi occuparono Tordesillas, allontanarono il Denia liberando Giovanna, convinti del suo buono stato mentale e cercando di farla passare dalla loro parte. Giovanna ricevette diverse volte i rappresentanti degli insorti ma non accettò mai di porsi in contrasto con il figlio mettendosi dalla loro parte anche se l'avevano liberata: rifiutò sempre di firmare qualsiasi documento che legittimasse la loro azione.

È in questa situazione che dimostrò con il suo comportamento di non essere folle preservando gli interessi del figlio. Lo stesso Adriano di Utrecht, che era stato fatto Vescovo di Tolosa, comunicava a Carlo che tutti testimoniavano della sanità mentale di Giovanna precisandogli anche: «…vostra altezza ha usurpato il titolo reale e ha tenuto prigioniera a forza la regina, che è del tutto assennata, sotto il pretesto che è folle…».

La rivolta venne repressa con la battaglia finale di Villalar, il 23 aprile 1521 e i suoi capi furono giustiziati.

L'epilogo

Dopo il fallimento della rivolta dei comuneros vi fu una sorta di restaurazione: prevalse la grande nobiltà, trionfò l'ortodossia religiosa più conformista, Giovanna fu ricacciata in una seconda prigionia, ancora più dura e crudele della precedente, sotto la custodia del Denia, richiamato per l'occasione, ancora più ostile e livido per le vessazioni subite durante la rivolta.
Lentamente, dopo una serie infinita di piccole e grandi angherie, Giovanna fu ridotta ad uno stato bestiale da cui la liberò solo la morte: venerdì 12 aprile 1555 venerdì Santo, dopo avere rifiutato per l'ennesima volta la confessione, morì assistita da Francisco de Borja, che testimoniò la sua lucidità. Giovanna fu sepolta nella Capilla Real (Cappella Reale) della cattedrale di Granada, insieme al marito e ai Re Cattolici.

Giovanna venerava il padre di cui però fu vittima, ma egli ravvisava in lei pensieri non abbastanza ortodossi, e non abbastanza disposti a seguirlo nella prediletta politica di Inquisizione e di roghi.
Giovanna di Castiglia passò alla storia con il soprannome di Pazza, un epiteto dai risvolti ingiuriosi, e forse alla fine lo diventò dopo 46 anni di prigionia durissima, quasi ininterrotta.
Michael Prawdin ha visto in questo il segreto di Tordesillas: la ragion di stato sarebbe stata la causa della prigionia di Giovanna, con il pretesto della sua follia, e ciò l'avrebbe resa veramente tale.
Giovanna dimostrò fino all'ultimo una fermezza e un forza morale che la prigionia dura, spietata e senza alcun privilegio per la sua posizione regale era riuscita a piegare. A distanza di pochi mesi dalla morte di Giovanna, il figlio Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero abdicherà e morirà tre anni dopo nel Monasterio de Yuste, (Cáceres), il 21 settembre 1558.

Secondo G. Belli, Giovanna, Reina proprietaria di Castiglia e di León, di Galizia, di Granada, di Siviglia, di Murcia e Jaén, di Gibilterra, delle Isole Canarie, delle Indie Occidentali, di Aragona, di Navarra, di Napoli e Sicilia, contessa di Barcellona e signora di Vizcaya, «non era pazza bensì vittima delle circostanze politiche dell'epoca»

fonte: Wikipedia

domenica

Andrea Gallo



Andrea Gallo si sentì attratto fin da piccolo dalla spiritualità dei salesiani di San Giovanni Bosco, ed entrò nel 1948 nel loro noviziato di Varazze, proseguendo poi a Roma gli studi liceali e filosofici.

Nel 1953 chiese di partire per le missioni, e venne mandato in Brasile, a San Paolo, dove compì gli studi teologici. La dittatura al potere in Brasile lo costrinse però, in un clima per lui insopportabile, a ritornare in Italia l'anno dopo[fu espulso o chiese di tornare? Inoltre nel 1953 il governo brasiliano non era dittatoriale].

Continuò quindi gli studi a Ivrea e venne ordinato presbitero il 1º luglio 1959.

Un anno dopo venne inviato come cappellano alla nave scuola della Garaventa, noto riformatorio per minori. Lì cercò di introdurre un'impostazione educativa diversa, cercando di sostituire i metodi unicamente repressivi con una pedagogia della fiducia e della libertà. Da parte dei ragazzi c'era interesse per quel prete che permetteva loro di uscire, di andare al cinema e di vivere momenti comuni di piccola autogestione, lontani dall'unico concetto fino allora costruito, cioè quello dell'espiazione della pena.

Dopo tre anni venne spostato ad altro incarico (senza spiegazioni, sostiene don Andrea), e nel 1964 decise di lasciare la congregazione salesiana e chiese di incardinarsi nella diocesi genovese perché «La congregazione salesiana si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale».

Ottenuta l'incardinazione, il cardinale Siri, arcivescovo di Genova in quel momento, lo inviò a Capraia, allora sotto la giurisdizione dell'arcidiocesi del capoluogo ligure, per svolgere l'incarico di cappellano del carcere. Due mesi dopo venne destinato in qualità di vice parroco alla parrocchia del Carmine, dove rimase fino al 1970, anno in cui il cardinale Siri lo trasferì nuovamente a Capraia.

Nella parrocchia del Carmine don Andrea fece scelte di campo con gli emarginati. La parrocchia diventò un punto di aggregazione di giovani e adulti di ogni parte della città, in cerca di amicizia e solidarietà con i più poveri e con gli emarginati, che al Carmine trovavano un punto di ascolto.

Secondo la "comunità" di don Andrea, l'episodio che provocò il suo trasferimento fu un incidente verificatosi nell'estate del 1970 per quanto don Gallo disse durante una sua omelia domenicale. Nel quartiere era stata scoperta una fumeria di hashish e l'episodio aveva suscitato indignazione nell'alta borghesia residente. Don Andrea, prendendo spunto dal fatto, ricordò nell'omelia che rimanevano diffuse altre droghe, per esempio quelle del linguaggio, grazie alle quali un ragazzo può diventare «inadatto agli studi"» se figlio di povera gente, oppure un bombardamento di popolazioni inermi può diventare «azione a difesa della libertà». Don Andrea fu "accusato" di essere comunista; le accuse si moltiplicarono in breve tempo e questo sarebbe stato il motivo per cui la curia decise il suo allontanamento.

Il provvedimento dell'arcivescovo provocò nella parrocchia e nella città un movimento di protesta, ma la curia non tornò indietro e ingiunse a don Andrea di obbedire. Tuttavia egli rinunciò all'incarico offertogli all'isola di Capraia, ritenendo che lo avrebbe totalmente e definitivamente isolato.

La Canonica della Parrocchia della SS. Trinità e di San Benedetto, sede della comunità di San Benedetto al PortoQualche tempo dopo venne accolto dal parroco di San Benedetto al Porto, don Federico Rebora, e insieme a un piccolo gruppo diede vita alla sua comunità di base, la Comunità di San Benedetto al Porto. Da allora si è impegnato sempre di più per la pace e nel recupero degli emarginati, chiedendo anche la legalizzazione delle droghe leggere: nel 2006 si è fatto multare, compiendo una disobbedienza civile, fumando uno spinello nel palazzo comunale di Genova per protestare contro la legge sulle droghe. È un grande amico di Vasco Rossi e di Piero Pelù, impegnati anch'essi per la legalizzazione delle droghe leggere.

Don Gallo durante la manifestazione a Verona del 25 aprile 2008Sin dal 2006 ha appoggiato attivamente il movimento No Dal Molin di Vicenza che si oppone alla costruzione di una nuova base militare Usa nella città veneta. Ha partecipato a varie manifestazioni, in particolare a quella del 17 febbraio 2007 che ha visto la presenza di oltre 130.000 persone. Più volte don Andrea si è recato a Vicenza in occasione dell'annuale Festival No Dal Molin. Il 10 maggio 2009 ha acquistato assieme ad oltre 540 persone il terreno dove sorge il Presidio Permanente No Dal Molin per mettere radici sempre più profode nella difesa a oltranza del territorio e dei beni comuni.

Nel marzo del 2007 è uscito il libro Io Cammino con gli Ultimi, scritto insieme allo scrittore genovese Federico Traversa.

Nell'aprile del 2008 ha aderito idealmente al V2-Day organizzato da Beppe Grillo.

Il 27 giugno 2009 ha partecipato al Genova Pride 2009, lamentando le incertezze della Chiesa cattolica nei confronti degli omosessuali. Don Gallo ha presentato anche il primo calendario Trans della storia italiana, con le trans storiche del Ghetto di Genova, quelle trans cantate da Fabrizio De André. Il 15 agosto 2011 è stato premiato come Personaggio Gay dell'Anno da Gay.it, nel corso della manifestazione Mardi Gras, organizzata dal Friendly Versilia e tenutasi a Torre del Lago Puccini.

Don Gallo ha anche tenuto l'orazione funebre al funerale di Fernanda Pivano a Genova il 21 agosto 2009.

Il 4 dicembre 2009 gli è stato assegnato il Premio Fabrizio De André, di cui è stato uno dei più grandi amici, consistente nel Quartaro d'oro, antica moneta della Repubblica genovese. Il premio è stato consegnato presso il salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi di Genova.

Il 17 novembre 2010 è uscito in tutte le librerie il libro Sono venuto per servire, scritto a quattro mani da don Andrea e da Loris Mazzetti, già collaboratore stretto di Enzo Biagi. Sulla quarta di copertina è citata una frase di Mazzetti che si riferisce al centrosinistra: «Peccato che Don sia un prete. Se fosse un politico avremmo trovato il nostro leader».

Don Gallo ha partecipato a La lunga notte, primo album solista di Cisco (ex cantante dei Modena City Ramblers).

Nel 2012 don Gallo ha sostenuto Marco Doria alle primarie del centrosinistra di Genova per la designazione del candidato sindaco, poi vinte dallo stesso Doria

fonte: Wikipedia