martedì

Renato Vallanzasca


Renato Vallanzasca Costantini, comunemente noto come Renato Vallanzasca, è un criminale italiano. Autore negli anni settanta e seguenti di numerosi sequestri è stato condannato, complessivamente, a quattro ergastoli e 295 anni di reclusione.

La giovinezza

Renato Vallanzasca Costantini nasce in via Nicola Antonio Porpora 172, nell'appartamento al quarto piano, zona Lambrate di Milano, dove la madre aveva un negozio d'abbigliamento lungo la via, poco prima di piazza Gobetti. A Renato viene dato il cognome materno Vallanzasca Costantini, poiché il padre, Osvaldo Pistoia, era già sposato con un'altra donna dalla quale aveva avuto tre figli.
A soli otto anni, con un compagno cerca di far uscire da una gabbia la tigre di un circo che aveva piantato il tendone proprio nelle vicinanze di casa sua. Il giorno successivo a quell'atto, Renato viene prelevato direttamente dalla polizia mentre sta giocando a pallone con i propri amici e portato al carcere minorile Beccaria. La vicenda gli costa il successivo trasferimento e affidamento forzato a casa della signora Rosa, la prima moglie del padre, che il Vallanzasca chiamava "zia", in via degli Apuli, nel quartiere del Giambellino, periferia sud-ovest di Milano; praticamente nella parte opposta della città rispetto alla casa dei genitori. Poi nel 1965 frequenterà la scuola della professoressa Enrica Tosi in via Ponchielli (nei pressi della Stazione Centrale) iscrivendosi al biennio di Ragioneria e ritornando a vivere dalla madre.
È però fin dai tempi del Giambellino che forma la sua prima combriccola di piccoli delinquenti, ragazzini dediti a furti e taccheggi. Nonostante la giovanissima età, Vallanzasca rivela già il carisma di un capo criminale; comincia a farsi un nome anche negli ambienti della ligèra, la vecchia mala milanese, con la quale inizia precocemente ad intrattenere rapporti. In breve tempo però, sentendosi andare strette le regole della malavita vecchio stampo, decide di delinquere autonomamente e di formare una propria banda. La cosiddetta Banda della Comasina diviene probabilmente il più potente e feroce gruppo criminale presente a Milano in quegli anni, contrapponendosi ad una gang altrettanto famosa nel medesimo periodo, la banda di Francis Turatello.

Gli anni '70

In poco tempo, grazie ai furti e alle rapine, Vallanzasca accumula ingenti ricchezze e inizia a condurre e ad ostentare un tenore di vita molto sfarzoso: vestiti firmati, orologi d'oro, auto di lusso, bella vita e belle donne. È anche un ragazzo dotato di un aspetto particolarmente avvenente e affascinante, con un bel viso dagli occhi cerulei, viene per questo soprannominato "Il bel René" (nomignolo da lui detestato). La prima interruzione nell'ascesa della carriera criminale de "Il bel René" avviene nel 1972 quando, una decina di giorni dopo una rapina ad un supermercato, viene arrestato dagli uomini della squadra mobile di Milano, all'epoca diretta da Achille Serra.
Lo stesso Serra racconta che, durante la perquisizione in casa del bandito, Vallanzasca si sfila il Rolex d'oro che porta al polso e appoggiandolo sul tavolo della sala gli dice con tono di sfida: "Se riesci a incastrarmi questo è tuo!". Pochi momenti dopo il maresciallo Oscuri trova nel cestino della spazzatura la prova che lo incastrerà, ovvero i pezzettini di un foglietto che, una volta riordinati, mostreranno la lista degli stipendi dei dipendenti del supermercato rapinato.
Vallanzasca viene incarcerato inizialmente a San Vittore, trascorrendo i successivi quattro anni e mezzo di prigionia con un unico intento: trovare un modo per evadere. Durante questo periodo non mantiene però un comportamento da detenuto modello. Oltre a rendersi responsabile di vari tentativi d'evasione falliti, di risse e di pestaggi, partecipa attivamente anche a diverse sommosse di detenuti, che, durante questi anni, spesso agitano l'ambiente carcerario italiano. A seguito di ogni pestaggio, rivolta, o tentativo di evasione, viene deciso il suo trasferimento dall'istituto di pena in cui si trova: tutto ciò lo vede cambiare 36 penitenziari. Fino a che non escogita il modo per contrarre volontariamente l'epatite, iniettandosi urine per via endovenosa, ingerendo uova marce e inalando gas propano, con l'intento di essere conseguentemente ricoverato in ospedale. È da lì, grazie ad una vigilanza meno stretta e con l'aiuto di un poliziotto compiacente, che riesce nel suo intento di evadere.

Dopo la fuga, durante la sua latitanza, Vallanzasca riesce a ricostituire la sua banda. Con essa mette a segno una settantina di rapine a mano armata che lasciano dietro di sé anche una lunga scia di omicidi, tra cui si contano quelli di quattro poliziotti, un medico e un impiegato di banca. Nel medesimo periodo avviene inoltre un'ulteriore evoluzione nell'attività criminale del gruppo, con il passaggio dall'esecuzione delle sole rapine, a quello dei sequestri di persona (saranno quattro, di cui due mai denunciati). Una delle sue vittime è Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore milanese, che viene tenuta segregata per circa un mese e mezzo, dal dicembre 1976 al gennaio 1977, e quindi liberata dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. A questo episodio criminoso, il 6 febbraio 1977, fa subito seguito l'uccisione di due uomini della polizia stradale che, in un posto di blocco ad un casello autostradale nei pressi di Dalmine, fermano per un controllo la macchina su cui Vallanzasca viaggia; ne segue uno scontro a fuoco in cui gli agenti Luigi D'Andrea e Renato Barborini perdono la vita e in cui il bandito stesso viene colpito. Ferito e braccato, Vallanzasca cerca rifugio a Roma, ma dopo pochi giorni, 15 febbraio 1977, viene rintracciato e catturato. Tutto ciò quando ancora non ha compiuto 27 anni.
Una volta tornato in carcere, decide di sposarsi il 14 luglio del 1979 con Giuliana Brusa, una delle tante ammiratrici che gli scrivono. Come suo testimone di nozze, durante il matrimonio, decide di avere il criminale del clan dei Marsigliesi Albert Bergamelli e come "compare di anelli" proprio l'ex nemico Francis Turatello, a suggello di un'alleanza con quest'ultimo. Due anni più tardi, quando ancora si trova in carcere, Turatello verrà però ucciso da Pasquale Barra (Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, sostiene, nella sua biografia curata da Giuseppe Marrazzo, di essere il mandante dell'omicidio di Turatello); sarà un'esecuzione dalle modalità estremamente efferate e cruente, di cui ancora sono oscure le ragioni.
Nel frattempo, il 28 aprile 1980, Vallanzasca si rende protagonista di un nuovo tentativo di evasione dal carcere milanese di San Vittore. Durante l'ora d'aria compaiono in mano ai detenuti tre pistole, introdotte misteriosamente. Un gruppo di carcerati, tra i quali anche Vallanzasca, riesce a farsi strada tenendo in ostaggio il brigadiere Romano Saccoccio. Ne segue una sparatoria per le vie di Milano che prosegue persino all'interno del tunnel della metropolitana. Vallanzasca, nuovamente ferito, viene ricatturato assieme ad altri nove compagni di fuga.

Gli anni '80

Nella prigione di Novara, nel 1981, Vallanzasca contribuisce a fomentare un'ennesima rivolta carceraria durante la quale vengono uccisi alcuni collaboratori di giustizia. Fra questi vi è anche un giovane membro della sua banda, Massimo Loi. La vittima, poco più che ventenne, aveva deciso di abbandonare definitivamente la vita criminale, come ricorda anche Achille Serra, per iniziarne una nuova. Il Loi un tempo legato da un rapporto fraterno a Vallanzasca, si era distaccato. Vallanzasca aiutato da alcuni suoi compagni di prigionia, armatosi di coltello, avrebbe approfittato della rivolta in atto per andarsi a vendicare e non dare più modo al ragazzo (che si trovava recluso nel medesimo carcere) di lasciare il penitenziario vivo: dopo averlo raggiunto all'interno di una cella, Vallanzasca lo avrebbe colpito ripetutamente al petto con il coltello, infierendo poi con ulteriori atrocità sul corpo del giovane ormai esanime, arrivando a decapitarlo ed infine a giocare a pallone con la sua testa. Della morte di Loi, Vallanzasca negò per decenni la responsabilità diretta e lo sfregio del corpo. Anche in un'intervista concessa a L'Europeo il 2 aprile 2006, ribadì la propria estraneità e il legame d'affetto che aveva con il ragazzo, adducendo come testimonianza diretta e a favore, quello che il noto criminale Vincenzo Andraous avrebbe riportato nel proprio libro di memorie, nelle quali quest'ultimo, tra le molte atrocità di cui si dichiara colpevole, si assunse un ruolo nell'efferata vicenda (Andraous verrà infatti condannato in quanto partecipe come uno degli assassini del Loi); queste dichiarazioni contraddicono però anche la stessa autobiografia, "Il fiore del male. Bandito a Milano", che Vallanzasca scrive attraverso la testimonianza raccolta da Carlo Bonini, giornalista del quotidiano La Repubblica. Nel 2010, infine, all'interno di un nuovo libro biografico scritto insieme a Leonardo Coen, lo stesso Vallanzasca ammise il proprio atroce delitto, descrivendo nei particolari anche i motivi (tra i quali una violenta rapina ai danni dei suoi genitori) e il modo in cui si sarebbe compiuto, negando però di aver infierito sul cadavere.
Dopo la vicenda di tale rivolta, viene condannato al regime di carcere duro. Riesce però ad evadere nuovamente, il 18 luglio 1987, scappando rocambolescamente attraverso un oblò del traghetto che da Genova avrebbe dovuto portarlo al carcere dell'Asinara, in Sardegna. I 5 carabinieri di scorta, tutti con meno di 25 anni vengono successivamente condannati da un tribunale militare. Ricercato e senza fonti di reddito, l'8 agosto 1987 viene comunque fermato ad un posto di blocco a Grado, dopo aver soggiornato alcuni giorni nella rinomata località turistica, mentre cerca di raggiungere Trieste.

L'ultimo tentativo di evasione e gli anni successivi

Nel settembre 1990 divorzia da Giuliana Brusa.
Tornato in galera tenta un'altra volta la fuga, nel 1995, questa volta dal carcere di Nuoro. Per questo tentativo di evasione viene sospettata e accusata di averlo aiutato la sua stessa legale, con la quale si dice che Vallanzasca avesse stretto un forte legame che sarebbe andato oltre il semplice rapporto di assistito. Dal 1999 è rinchiuso nel carcere speciale di Voghera.
All'inizio del mese di maggio 2005, dopo aver usufruito di un permesso speciale di tre ore per incontrare l'anziana madre, ha formalizzato la richiesta di grazia, inviando una lettera al ministro di Grazia e Giustizia e al magistrato di sorveglianza di Pavia. Nel luglio del 2006 la madre Maria ha scritto al presidente Napolitano e al Ministro di Giustizia Mastella chiedendo la grazia per il figlio. Il 15 settembre 2007 gli viene notificata la mancata concessione della grazia da parte del Capo dello Stato: Vallanzasca continuerà quindi a scontare la sua pena nel Carcere di Opera a Milano.
L'8 maggio 2008 viene data la notizia del matrimonio con la sua amica d'infanzia Antonella D'Agostino. Il matrimonio è stato formalizzato con rito civile il 5 maggio 2008.

Ultimi anni

A partire dall'8 marzo 2010 Renato Vallanzasca può usufruire del beneficio del lavoro esterno. Gli viene concesso di uscire dal carcere alle 7.30 per lavorare, e rientrarvi alle 19.00. Ha prestato servizio in una pelletteria, che è anche una cooperativa sociale nel milanese, e ha lavorato in un negozio di abbigliamento a Sarnico in provincia di Bergamo. Il 30 maggio 2011 il Tribunale di Milano ha sospeso Vallanzasca dal beneficio del lavoro esterno perché l'ex bandito violava le regole di utilizzo del beneficio, in particolare per incontrarsi segretamente con una donna; inoltre, sempre nel mese di maggio 2011, la Corte di Cassazione ha condannato Vallanzasca a rimborsare allo Stato le spese di mantenimento in carcere. Nel febbraio 2012 ha riottenuto il beneficio di poter lavorare all'esterno del carcere, come magazziniere. Perde dopo poco il lavoro per una protesta popolare che non voleva il bandito così vicino alla famiglia dell'agente Barborini ucciso nello scontro a fuoco di Dalmine. Nel dicembre 2012 ha riottenuto il permesso di lavoro esterno presso una ricevitoria.
Con il gruppo camorristico dei Perfetto, nato dal disciolto clan La Torre di Mondragone, Renato Vallanzasca stava per mettere in piedi un commercio di mozzarelle a Milano: il progetto però non si concretizzò anche a causa della revoca del permesso di lavoro giunto il 22 agosto del 2012 dopo le note polemiche legate alla notizia della sua assunzione in un negozio di abbigliamento di Sarnico, nella provincia di Bergamo.

fonte: Wikipedia

venerdì

messaggi di Rino




Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano.

Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti

Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico.
Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio.

Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra.

In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno.
Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico.
A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte.

Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.

Le canzoni.

C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale.
In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perché sei in trappola.

Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,
Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.


Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.

La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.
Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.

Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perché in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario.
Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:

cogli la mia rosa d’amore,
regala il suo profumo alla gente;
cogli la mia rosa di niente.

Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico", perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita.
Nella canzone “Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:

"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".

Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.

La spiaggia di Capocotta.

OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici.
Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito.
A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali.
Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni.
Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana.
Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto.
La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953.
Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?)
Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi".
Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni.
L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa.
Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana.
Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia.
Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni.
Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni.
Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati.
Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli.
La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato.
Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più opportuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.

Il film

Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano.
Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai.

"Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi.
L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo".


In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata.
Vediamo perché.
Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone.

Altre scene salienti del film sono queste:

1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito.

2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola ne salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcool e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.

3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.

Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no?
Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti.
Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta.

Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perché è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction.

In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso.
Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perché beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso.

Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti.

D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR).
Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui questo con Morandi:http://it.youtube.com/watch?v=F3CnwSnhW3E
Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia".

Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire.
E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.

La ballata di Renzo

Quel giorno Renzo uscì,
andò lungo quella strada
quando un’auto veloce lo investì
quell'uomo lo aiutò
e Renzo allora partì
verso un ospedale che lo curasse per guarìr.
Quando Renzo morì io ero al bar
La strada era buia
si andò al San Camillo
e lì non l'accettarono
forse per l'orario
si pregò tutti i Santi
ma s'andò al San Giovanni
e lì non lo vollero per lo sciopero
Quando Renzo morì
io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico
ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo
c'era in alto il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al Verano c'era posto
Quando Renzo morì
io ero al bar,

al bar con gli amici bevevo un caffè.

fonte: paolofranceschetti.blogspot.it

domenica

Buck Angel


pseudonimo di William Leigh Freckles, è un attore pornografico statunitense, "primo e unico" pornodivo trans man. Lavora come avvocato, educatore e docente.

Angel nasce donna nel 1972, vivendo l'infanzia e l'adolescenza come un maschiaccio nello Yucatan (Messico), ignorando l'esistenza di trattamenti per la disforia di genere come la terapia ormonale sostitutiva. Vive per anni come una femmina, soffocando la propria disforia di genere con droga e alcool.
Alla vista di un film con un interprete FtM, comincia a studiare il cambiamento di sesso chirurgico e a sottoporsi a trattamenti di testosterone. Due anni dopo si sottopone all'asportazione chirurgica dei seni e comincia a vivere pienamente come un uomo. Nel tempo, però, non si sottoporrà ad alcun intervento di falloplastica.

Carriera

Inizia la carriera da pornodivo apparendo su vari siti web e producendo e interpretando una serie di film pornografici (Buck Angel Entertainment). Possendendo ancora i genitali femminili, Angel si ritaglia un posto nel settore dell'industria dell'intrattenimento per adulti, facendosi chiamare con orgoglio "The Man with a Pussy" (L'uomo con una fica).
Nel 2005 è il primo transessuale a partecipare a una produzione pornografica interamente al maschile, lavorando con una società specializzata nella pornografia gay. Con la Titan Media prende parte al film Cirque Noir.
Nel gennaio del 2007 vince un AVN Awards nella categoria Transsexual Performer of the Year, venendo nominato nella stessa categoria anche nei tre anni successivi. È il solo transessuale FtM ad essere stato nominato per il premio.
Nel 2008 si trova a Londra, dove lo scultore Marc Quinn realizza una sua statua a grandezza naturale. Sempre nel 2008 appare in NAKED, libro di Ed Powers incentrato sull'industria cinematografica per adulti. Gira inoltre una scena con il pornodivo Wolf Hudson, per un documentario allegato a NAKED, prodotto dal fotografo Justin Lubin.
Come il pioniere di un genere pornografico completamente nuovo, Angel riceve riconoscimenti internazionali e l'attenzione dei mass media. Le sue innovative esibizioni dal vivo lo hanno portato a girare il mondo, esibendosi in Scozia, Londra, Madrid, New York, Toronto, Amsterdam e Los Angeles.

fonte: Wikipedia

Pietro Koch


è stato un militare e ufficiale di polizia politica italiano. Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, fu a capo di un reparto speciale di polizia della Repubblica sociale italiana, noto anche come Banda Koch, che operò principalmente a Roma e in seguito, brevemente, anche a Milano, macchiandosi di numerosi crimini contro nemici catturati e oppositori politici, come torture e omicidi.

« L’ex granatiere Pietro Koch di padre tedesco è probabilmente, tra tutti i leader emersi durante la Repubblica sociale italiana, il più famoso, per non dire il più famigerato. »

(Massimiliano Griner - La "banda Koch". Il reparto speciale di polizia 1943-44)

Pietro Koch era figlio di Otto Rinaldo Koch, un commerciante di vini ex ufficiale della marina tedesca, sposatosi con Olga Politi. La famiglia negli anni trenta si trasferì da Benevento a Roma, dove Pietro si diplomò al liceo Gioberti per poi iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza. Il richiamo alle armi lo costrinse ad abbandonare gli studi intrapresi. Nel 1938 diventò ufficiale di complemento dei Granatieri di Sardegna. Nei primi mesi del 1940 fu posto in congedo e non venne chiamato alle armi fino alla primavera del 1943.
In questi tre anni visse tra Roma e Perugia come mediatore di compravendite immobiliari e agricole. La Prefettura di Perugia lo segnalò, nell'ottobre 1942, per «una non indifferente attività truffaldina» (1- pg.155). Nel 1940 si era sposato con Enza Gregori, ma il matrimonio naufragò in pochi mesi a causa della relazione con Tamara Cerri, una ragazza sedicenne conosciuta a Firenze.
Nella primavera del 1943 fu richiamato alle armi nel 2º Reggimento "Granatieri di Sardegna" e l'8 settembre 1943 era a Livorno con il suo reparto in attesa di imbarcarsi per la Sardegna. Dopo l'8 settembre si spostò a Firenze e si iscrisse al Partito Fascista Repubblicano ed entrò nel "Reparto Speciale di Sicurezza" di Mario Carità. Le incertezze del periodo sono riportate in tre lettere di Pietro Koch alla sorella, pervenute, dopo la Liberazione, ad un giovane funzionario del Partito Comunista Italiano, Luca Canali, che le pubblicò parafrasate nella sua autobiografia. In esse, si manifesta lo sbandamento di un giovane ragazzo che poi decide di aderire con convinzione fanatica alla repressione nazi-fascista.
Si mise subito in evidenza con la cattura, presso un albergo cittadino, del colonnello Marino, già aiutante del generale di corpo d'armata Mario Caracciolo di Feroleto, l'ex comandante della 5ª Armata che aveva tentato la difesa di Firenze. Attraverso questa azione fu notato da Mussolini. Mario Caracciolo di Feroleto, uno dei pochi generali che si erano opposti ai tedeschi, si era rifugiato a Roma presso il convento vaticano di San Sebastiano, sotto tutela di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il capitano delle SS di via Tasso, Kurt Schutze, del gruppo di Herbert Kappler, autorizzò Koch a violare il territorio Vaticano, così la sua banda, attraverso uno stratagemma e l'appoggio esterno delle SS, riuscì ad arrestare il generale. Le SS, dopo averlo schedato lo lasciarono a Koch che lo trasferì a Firenze presso la sede della cosiddetta Banda Carità. Il risultato di questa azione gli permise di avere le autorizzazioni dal capo della Polizia della RSI di Salò, Tullio Tamburini, per costituirsi un suo reparto speciale.

La cosiddetta "Banda Koch"

Attività a Roma

« Tutti quei che a Roma stanno / per la patria con gran danno / a tramare contro il Duce / che il fascismo ogn'or conduce / han da far con una banda / Pietro Koch la comanda. »

(Inno della Banda Koch)

Nel dicembre 1943 Koch si trovava a Roma e si presentò al capo della Polizia Repubblicana, affermando di avere incarico dal generale Luna di riferire che il generale ricercato, Caracciolo, era nascosto presso il convento di San Sebastiano.

« Tamburini volle affidare a me l'incarico di arrestarlo. Lo feci. Allora mi fu offerto di prendere il comando di un reparto di polizia: Accettai. »

(dalla deposizione dello stesso Pietro Koch rilasciata dopo il suo arresto definitivo)

Una volta costituita la squadra speciale, che prese la denominazione ufficiale di "Reparto Speciale di Polizia Repubblicana", si aggregarono anche diversi elementi della Banda Carità fino ad arrivare a circa una settantina di unità tra i quali anche dei sacerdoti. La composizione era la più varia. La bibliografia ricorda: i preti Ildefonso Troya dell'ordine dei Benedettini Vallombrosiani (dopo la sospensione a divinis) e Pasquino Perfetti, l'avvocato Augusto Trinca Armati del foro di Perugia (a capo dell'Ufficio Legale del reparto), il giornalista Vito Videtta, l'esperto dei servizi segreti Francesco Argentino detto "Dottor Franco", Armando Tela (con il ruolo di vice-comandante). Tra gli agenti del reparto ci furono anche degli ex arrestati che collaborarono, come il gappista Guglielmo Blasi. C'erano anche diverse donne: Alba Cimini, Marcella Stopponi e Daisy Marchi, una soubrette che fu per un periodo anche l'amante di Koch.
La formazione ottenne alcuni rapidi e clamorosi successi con irruzioni e perquisizioni nelle sedi della Chiesa. Gli arresti eccellenti nei conventi, la cattura di Giovanni Roveda e poi la cattura, su segnalazione del collaboratore di Koch Francesco Argentino, del professor Pilo Albertelli che fu torturato e poi fucilato alle Fosse Ardeatine, produssero impressione nel comando SS.

« La prima operazione del reparto che, senza timore di essere tacciati di immodestia, ha compiuto in brevissimo tempo, forse la più brillante operazione politica e militare del momento, è stata quella di aver potuto dare al nostro Governo e al Comando Alleato, un quadro reale delle mene politiche militari che portarono alla disorganizzazione dell'Esercito Italiano. Ciò con l'arresto di un altro generale responsabile anch'egli in gran parte dell'accaduto e che, nel dicembre del 1943, seguitava ancora a vivere a Roma sotto le mentite spoglie di frate francescano: il generale d'Armata Mario Caracciolo da Feroleto, già comandante della V armata [...] A breve distanza di tempo seguiva l'azione svolta in profondità presso un gruppo di conventi: Russicum, Istituto Lombardo, Istituto Orientale e come risultato si ebbe la cattura del presidente del Comitato Centrale del Partito comunista Italiano: Giovanni Roveda. »

(Dal rapporto informativo di Pietro Koch al generale tedesco Kurt Maeltzer a seguito delle operazioni nelle sedi della Chiesa)

La prima sede provvisoria del reparto si attestò brevemente a via Tasso 115, dove era acquartierato il Comando SS della Città aperta. Ma già in gennaio si trasferì nella palazzina di via Principe Amedeo 2, presso la pensione Oltremare, dove occupò tre appartamenti uniti. Il vero e proprio alloggio di Koch era nella stanza matrimoniale n°1, nella stanza n°15 invece si trovava il suo ufficio dove avvenivano gli interrogatori, nella stanza n°16 attigua si trovavano le due segretarie Anita e Marcella.
Tra gennaio e maggio 1944 la banda decimò le file degli antifascisti di Roma, tra i quali ben 23 esponenti del Partito d'Azione, che subì la pressione maggiore, di cui 21 furono fucilati alle Fosse Ardeatine.
Koch, la notte tra il 3 e il 4 febbraio, coordinò l'assalto dei suoi uomini al convento annesso alla Basilica di S. Paolo, che portò all'arresto di 67 persone fra ebrei, renitenti alla leva, ex-funzionari di polizia e militari di rango del ex-Regio Esercito (generali Monti e Fortunato) che vi avevano trovato rifugio.
Il 17 marzo 1944 viene fermato il tenente aus. di P.S. Maurizio Giglio, che manteneva contatti radio con il "Regno del Sud" e secondo le accuse di Koch con l'Armata del generale Clark. Fu sottoposto per giorni a brutale tortura in sei interrogatori consecutivi insieme all'agente di P.S. Giovanni Scottu che lo accompagnava; a questi eventi assisté anche il questore capitolino Caruso. Giglio ridotto in fin di vita, fu accompagnato a braccia a Regina Coeli, la sera del 23 marzo. Consegnato quindi ai tedeschi per l’esecuzione della rappresaglia conseguente all’azione partigiana di Via Rasella, dove un intero reparto tedesco era stato annientato, fu condotto in una cava di pozzolana alla periferia di Roma, presso le fosse ardeatine e, il giorno 24 marzo 1944, fu ucciso con un colpo alla nuca. Scottu riuscirà a sopravvivere e al termine della guerra formulerà un implacabile atto di accusa contro la banda.
Nonostante non avesse conseguito la laurea in legge, Koch cominciò ad essere chiamato dai suoi sottoposti semplicemente come "dottore", tipico appellativo rivolto ai funzionari di questura.

Dopo l'attentato a via Rasella, la sede del comando non fu più ritenuta adeguata, e il reparto, armi alla mano, prese possesso alla mezzanotte del 21 aprile della pensione Jaccarino, un palazzetto signorile sito in via Romagna 38. Da qui Koch, attraverso numerosi arresti e interrogatori brutali, ottenne in breve tempo il nome di Franco Calamandrei e degli altri coinvolti e ricostruì l'esatta dinamica dell'attentato gappista, di cui diede notizia al generale tedesco Kurt Maeltzer, comandante della Wehrmacht nella capitale, con un dettagliato rapporto. Nella lettera Koch testimonia anche l'avversione riscontrata da parte di molte SS e l'ostruzione di certi fascisti, lamenta una irruzione nella vecchia sede del suo reparto e il tentativo di individuare la nuova, la minaccia di un arresto nei suoi confronti, annunciando che è stato disposto un servizio di sorveglianza in modo da prevenire eventuali atti ostili.

« una prima volta diffidato di non rimanere a Roma ed una seconda di non tornare da Firenze a Roma. Una terza venne addirittura predisposto per il suo arresto. Tuttociò ad opera delle SS germaniche. »

(Dal rapporto di Pietro Koch al generale tedesco Kurt Maeltzer a seguito dell'indagine per l'attentato di via Rasella)

In aprile del 1944 la banda arrestò anche Luchino Visconti. Il regista milanese, scarcerato dopo pochi giorni grazie all'intercessione dell'attrice Maria Denis, fu uno dei principali testimoni nella requisitoria del processo che portò alla fucilazione di Koch, raccontando i particolari sui metodi d'interrogatorio della banda.

« Quando venni arrestato il Koch diede ordine che venissi fucilato nella notte. Per otto giorni, rinchiuso nel cosiddetto "buco" della pensione Jaccarino, attesi che la sentenza, continuamente confermata dall'aguzzino, fosse eseguita. Una sera Caruso [il questore di Roma, ndr.] venne in visita alla pensione e Koch, per divertirsi un poco, gli mostrò due patrioti che avevano appena finito di subire la tortura. Successivamente venni trasferito a quello che nel gergo della Jaccarino veniva definito "l'ammasso": uno stanzone fetido, con un po' di paglia in terra. »

(Dalla deposizione testimoniale di Luchino Visconti agli atti del processo Koch)

Il 28 aprile dello stesso anno la banda, durante un tentativo di catturare un gruppo di comunisti, uccise due ignari passanti (un ragazzo, Luigi Mortelliti e una donna, Maria Di Salvo). Nel mese di maggio la banda intercettò per caso l'intellettuale socialista Eugenio Colorni. La banda gli intimò di rivelargli dove si stava recando (una riunione coi suo compagni della prima brigata Matteotti), ma Colorni si rifiutò di rispondere; fu quindi spinto verso un portone e lì colpito con sei colpi di pistola. Morì la mattina successiva all'ospedale San Giovanni.
I metodi di Koch erano caldeggiati dalle SS di Kappler, e la banda collaborò, fra appoggio cooperante e attriti intestini, col comando SS di via Tasso, diventando anche lo strumento di azioni e irruzioni nelle sedi della Chiesa, come l'assalto al convento annesso alla Basilica di S. Paolo, progettato e coordinato da Koch, avvenuto la notte tra il 3 e il 4 febbraio, che portò all'arresto di 67 persone fra ebrei, renitenti alla leva, ex-funzionari di polizia e militari di rango. Queste iniziative riducevano per i tedeschi le complicazioni diplomatiche di extraterritorialità tra la Santa Sede e il Terzo Reich. Koch inoltre procurò a Kappler alcuni nominativi da inserire nella lista dei condannati a morte per rappresaglia, in risposta all'attentato di via Rasella operato dai GAP.

« I sistemi di Kappler trovarono un repellente imitatore nel tenente Pietro Koch, un criminale congenito, [...] il quale raccolse attorno a se un'accozzaglia di degenerati, tra cui alcune donne [...] i tedeschi riconobbero a questa cricca perversa la qualità di squadra speciale di polizia, dotata di larga autonomia anche se formalmente sottoposta alla questura di Roma (altra centrale di delitti, condotta dal questore Caruso, il quale, manifestamente dominato da una sorta di psicosi professionale che ottundeva in lui ogni pur modesta facoltà intellettuale ed ogni sentimento umano, non esitava ad assecondare con ebete zelo la ferocia tedesca). »

(Pietro Secchia e Filippo Frassati Storia della Resistenza, la guerra di Liberazione in Italia 1943-45, Vol. 1)

Attività a Milano

Quando, nel giugno del 1944, Roma fu liberata dagli Alleati Koch si unì al convoglio di Eugen Dollmann diretto a nord mentre la sua banda fuggì a Milano. Il Reparto Speciale, inquadrato nelle SS italiane, si insediò presso Villa Fossati (tra le vie Paolo Uccello e Masaccio), che in città sarà nominata come "Villa Triste", attrezzandola con filo spinato, riflettori e sirene. Alcuni locali furono adibiti a stanze di tortura. Quasi tutti i componenti di Roma raggiunsero Milano, solamente alcuni furono arrestati e condannati a morte durante la loro fuga, come il questore Pietro Caruso. A Milano si inserirono anche nuovi elementi, come l'attore Osvaldo Valenti (l'uomo di collegamento fra Koch e il principe Borghese della Xª MAS), il conte-industriale Guido Stampa e altre donne (Lina Zini e Camilla Giorgiatti).
I metodi di tortura e le tecniche d'interrogatorio della banda divennero tristemente famosi e, vista la generalità di testimonianze concordi, quasi codificati:

l’interrogatorio avveniva nella stanza di rappresentanza di Koch alla presenza di numerosi poliziotti;
se un arrestato non parlava, cioè non rivelava chi fosse e quale fosse la propria attività politica, le percosse erano immediate con: lo schiaffo scientifico, la capriola (lancio della vittima contro il muro), la corsa (un percorso da denudato dalla doccia alle celle tra due file di poliziotti che colpivano). Perché la violenza mantenesse vigore e forza gli agenti si davano il cambio.
le percosse avvenivano con fruste di cuoio, con nervi di bue, con i caricatori (carichi delle cartucce);
l'isolamento avveniva nel cosiddetto buco, cioè in locali angusti e soffocanti;
la sospensione dei torturati: venivano legati con corde e issati in modo che il corpo non toccasse terra e lasciati così per ore;
la doccia bollente: le vittime venivano denudate e spinte con manici di scopa sotto un getto d’acqua bollente;
qualche testimonianza ha riferito anche dell’uso del manico di scopa come variante per violenze e abusi sessuali;
la messinscena dell’esecuzione per terrorizzare le vittime: una vera esecuzione fermata all'ultimo momento.
scariche elettriche, usata più raramente.
Via via l’ambito delle attività del Reparto di Koch si ampliarono e oltre all’azione contro gli antifascisti gli furono assegnati anche compiti di indagini interne all'apparato di regime della Repubblica di Salò. Gli sbandamenti della neonata repubblica fascista facevano emergere istanze politiche diverse. C’erano idee moderate e altre invece che arrivavano ad accusare lo stesso Mussolini di essere debole e inerte. Queste indagini, indirizzate ed autorizzate direttamente o indirettamente dal Duce, esaltarono da un lato il potere della banda, ma dall'altro crearono anche le condizioni della sua fine.
Tra gli indagati fascisti del Reparto speciale ci furono sia fascisti intransigenti come Roberto Farinacci, che fascisti moderati come il direttore de La Stampa Concetto Pettinato. Furono svolte dagli uomini di Koch anche indagini interne nei confronti dei membri della "Muti" che esercitavano una certa rivalità nei confronti della squadra speciale. Il gruppo dirigente fascista si sentì minacciato dall'autonomia di Koch e riuscì così ad avere l’avallo di Mussolini per smantellare la banda con un'azione di forza, condotta il 25 settembre 1944 proprio da parte della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, con la partecipazione di poliziotti della Milizia. Secondo alcune fonti il reparto era implicato anche in un traffico di cocaina. Villa Fossati fu circondata, circa cinquanta componenti della banda vennero arrestati e fu sequestrato tutto il bottino accumulato nei mesi di attività. Il 17 dicembre 1944 Koch fu arrestato e rinchiuso al carcere di San Vittore a Milano. Successivamente, nonostante le proteste di Kappler, il Reparto fu smantellato.
Il colonnello Walter Rauff, capo della Polizia del Terzo Reich per la Lombardia, il Piemonte e la Liguria, affermò: "Koch non è stato capace di vedere con esattezza la situazione di Milano, si è rivelato troppo giovane e troppo importantizzato e indipendente, ha speso troppi denari e ha suscitato le gelosie di tutti i concorrenti".

Gli ultimi giorni

Con l’aiuto dei tedeschi, Koch riuscì ad evadere il 25 aprile 1945 e da Milano si spostò a Firenze, allo scopo di ricongiungersi con Tamara Cerri, che, dopo l'arresto a Villa Fossati, era stata liberata e aveva raggiunto la sua famiglia a Firenze, per essere nuovamente catturata dagli alleati. Avuta notizia dell'arresto, il 1º giugno si presentò alla questura del capoluogo toscano dichiarando: "Se avete arrestato Tamara Cerri perché vi dica dov'è Koch, potete liberarla. Koch sono io, arrestatemi". Subito tradotto a Roma, fu processato dopo una rapida istruttoria di due giorni, con procedura d'urgenza. Il processo si aprì il 4 giugno nell'aula magna della Sapienza, l'interrogatorio dell'imputato e le deposizioni dei testimoni dell'accusa (l'ex-questore Morazzini e il commissario di polizia Marittoli) e a discarico (Luchino Visconti) che si produsse in un'ulteriore accusa occuparono due ore, la requisitoria del PM e l'arringa difensiva di Federico Comandini, nominato avvocato d'ufficio in quanto Presidente dell'Ordine degli avvocati di Roma, presero circa mezz'ora. Alle 11,55 l'imputato fu condotto in camera di sicurezza e alle 12,17 rientrò in aula la corte dando lettura del dispositivo della sentenza. Condannato alla pena capitale fu giustiziato presso il Forte Bravetta, alle ore 14.21 del 5 giugno 1945.

« In nome di S.A.R. Umberto di Savoia principe di Piemonte, luogotenente generale del Regno, l'Alta Corte di Giustizia nel procedimento a carico di Pietro Koch di Rinaldo, dichiara Pietro Koch colpevole del reato di cui all'art.5 del D.L. 27 luglio 1944 n°159, in relazione all'art. 51 del Codice Penale militare di guerra. In conseguenza, visti gli articoli suddetti, condanna Pietro Koch alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena. »

(Dalla sentenza del collegio giudicante agli atti del processo Koch)

Vista la fama del personaggio, le autorità ritennero opportuno documentare l'esecuzione con una ripresa filmata che venne realizzata da Luchino Visconti.
Alcuni componenti della banda furono giustiziati nei giorni successivi al 25 aprile: (Armando Tela il 22 maggio, Augusto Trinca Armati il 18 maggio, Vito Videtta il 29 aprile). Gli altri furono in maggioranza condannati a pene detentive e ritornarono in libertà nei primi anni cinquanta, come il sacerdote Epaminonda Troya[8]. La Cerri venne scagionata dalle accuse e scarcerata da Regina Coeli il 16 marzo 1946, dopo aver diviso la cella con la collaborazionista ebrea Celeste Di Porto.

fonte. Wikipedia

mercoledì

Ratko Mladic


« Le frontiere sono sempre state tracciate col sangue e le nazioni sono sempre state delimitate dalle tombe. »

(Ratko Mladić)

in serbo Ратко Младић; è un militare serbo.
È stato generale nell'Armata Popolare di Jugoslavia durante le guerre che portarono alla disgregazione della Jugoslavia, comandante delle forze armate in Croazia e, durante la guerra in Bosnia, capo di stato maggiore dell'Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina.
Durante le Guerre nella ex-Jugoslavia è stato il braccio esecutivo dei dirigenti politici serbi: accusato di genocidio, crimini contro l'umanità, violazione delle leggi di guerra durante l'assedio di Sarajevo e per il massacro di Srebrenica dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia, è stato arrestato il 26 maggio 2011 dopo 16 anni di latitanza.

Primi anni

Ratko Mladić è nato il 12 marzo 1943 a Božinovići, villaggio del comune di Kalinovik a sud di Sarajevo, in piena guerra civile. In quegli anni il Regno di Jugoslavia era stato conquistato dai nazisti e trasformato nello Stato Indipendente di Croazia, governato dagli Ustascia che combattevano contro i Cetnici e i partigiani comunisti. Nel 1945 il padre di Mladić venne ucciso dagli Ustascia: la tragica scomparsa porterà Mladić a odiare croati e musulmani.

Prima carriera militare

Nel 1961, aiutato dal fatto di essere orfano, entrò alla Scuola militare di Zemun, successivamente nell'Accademia Militare KOV e alla Scuola ufficiali, diplomandosi con il massimo dei voti. Nel 1965 ottenne a Skopje il primo incarico, trovandosi a comandare un'unità composta da militari tutti più grandi di lui. Cominciando la sua scalata militare come sottotenente, si dimostrò un militare capace, arrivando a guidare prima un plotone, poi un battaglione e infine una brigata. Nel 1989 venne promosso alla testa del Dipartimento Educazione del Terzo Distretto Militare di Skopje.

Durante le guerre jugoslave

Nel 1991 si trovava in Kosovo a comando del "Corpo Pristina", che aveva il compito di controllare la frontiera con l'Albania. Dopo lo scoppio della Guerra in Croazia ottenne il grado di colonnello e gli venne conferito il comando del IX Corpo dell'Armata Popolare di Jugoslavia: successivamente fu inviato a Tenin, in Dalmazia, per guidare le forze contro i secessionisti croati. Il 4 novembre 1991 fu promosso a maggior generale. In questo periodo le forze sotto il suo comando partecipano alla guerra in Croazia e sostennero le formazioni paramilitari serbo-bosniache, tra cui la Polizia di Milan Martic.
Il 24 aprile 1992 Mladić fu promosso a tenente colonnello generale. Il 2 maggio dello stesso anno, un mese dopo la dichiarazione di indipendenza della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, Mladić e i suoi ufficiali bloccarono la città di Sarajevo, sparando sul traffico che entrava e usciva dalla capitale bosniaca e tagliando le forniture di acqua e di elettricità. Iniziava così l'Assedio di Sarajevo, considerato il più grande assedio della storia moderna.
Nei quattro anni che seguirono, la città fu sottoposta a brutali bombardamenti e la popolazione dovette subire i numerosi attacchi dei cecchini. Il 9 maggio 1992 Mladić divenne vice-comandante del Distretto Militare dell'JNA con sede a Sarajevo e, appena il giorno dopo, assunse il titolo di comandante del Distretto.
Il 12 maggio 1992 il Parlamento serbo-bosniaco, per rispondere alla secessione proclamata della Bosnia, istituì l'Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina; Mladić fu promosso Capo di Stato Maggiore dell'esercito, posizione che mantenne fino al 1996. Il 24 giugno 1994 fu promosso al rango di Colonnello generale con 80.000 uomini sotto il suo comando.
Nei tre anni di guerra che seguirono, le truppe di Mladić commisero diversi massacri contro i civili, stuprando migliaia di donne musulmane (stupro etnico) e istituendo campi di concentramento. La stagione di violenze culminò col Massacro di Srebrenica, compiuto insieme alle forze paramilitari comandate da Arkan (le "Tigri di Arkan"), e riconosciuto come genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia.
Il 4 agosto 1995, in seguito ad un massiccio attacco dei croati contro la Repubblica Serba di Krajina, Radovan Karadžić decise di destituire Mladić dal comando dell'esercito e di assumerne lui stesso il comando. Karadžić motivò la decisione con la perdita di due zone chiave nell'ovest della Bosnia, accusando il soldato per queste perdite. Mladić si rifiutò di lasciare il comando e il grande sostegno popolare di cui godeva costrinse Karadžić a ritornare sulla sua decisione l'11 agosto.
Mladić lasciò il comando dell'esercito a guerra finita, l'8 novembre 1996 su decisione del presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina Biljana Plavšić.

Famiglia

Ratko Mladić è sposato con Bosa Mladić, dalla quale ha avuto due figli: Darko e Ana.
Ana venne ritrovata morta il 24 marzo 1994 a Belgrado, forse per suicidio. Alcuni dicono che si è suicidata per ciò che il padre stava commettendo in Bosnia, altri perché il fidanzato era morto in guerra per indiretta responsabilità di Mladić che lo aveva spedito al fronte. Il fatto fu un duro shock per Mladic.
Darko ha una figlia nata nel 2001 e un figlio nato nel 2006.

Accusa, latitanza e arresto

Il 24 luglio 1995 Ratko Mladić è stato accusato dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia, insieme a Radovan Karadžić, di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Il 16 novembre dello stesso anno a queste accuse si aggiunse quella di aver attaccato la zona di sicurezza vicino a Srebrenica.
Il primo atto d'accusa ufficiale Ufficio del Procuratore ICTY contro Ratko Mladić e Radovan Karadžić, confermato il 25 luglio 1995, accusava formalmente i due imputati di essere presumibilmente colpevoli di genocidio e crimini contro la popolazione civile sul territorio della Bosnia Erzegovina (caso numero IT-95-5). Un secondo atto accusatorio fu confermato il 16 novembre 1995 per gli eventi accaduti a Srebrenica nel luglio dello stesso anno (caso numero IT-95-18). I due atti d'accusa vennero riuniti nel luglio 1996 in un unico atto d'accusa (caso numero IT-95-5/18). Il 15 ottobre 2009, i casi Mladić e Karadžić furono scissi (Mladić caso numero IT-09-92). L'articolo 21 dello Statuto del Tribunale Internazionale decretava l'impossibilità dello svolgimento del processo in absentia, ovvero in assenza dell'imputato, ma ammetteva la possibilità per l'ICTY di confermare le accuse e l'impianto accusatorio nel caso di una ragionevole certezza della fondatezza delle accuse e delle responsabilità effettive.
Il governo statunitense ha anche offerto una taglia di 5 milioni di dollari per la cattura di Mladić, mentre la Serbia ha offerto la cifra di 1 milione di dollari.

Luogo della latitanza

Per molto tempo il luogo dove si era rifugiato Mladić, protetto da pochi fedelissimi e dalla sua famiglia, è rimasto sconosciuto.
Nel 1997 venne segnalato sulle spiagge del Montenegro; nel 2000 assistette ad una partita di calcio tra Cina e Jugoslavia a Belgrado. Altri lo segnalarono a Mosca, a Salonicco e ad Atene. Qualcuno afferma che abbia utilizzato il suo bunker di guerra situato a Han Pijesak vicino a Sarajevo.
Il 14 aprile 2010 il giornale serbo Kurir riprese la notizia di un giornale bosniaco secondo cui Mladić viveva in un'azienda agricola in compagnia di Zoran Obrenovic Maljic, capo della sua sicurezza in Voivodina, a circa ottanta chilometri a nord di Belgrado, per cercare di curare una forma depressiva tramite il lavoro.

2005

Nel 2005 la cattura di Mladić sembrava imminente; un sottufficiale disertore dell'esercito serbo-montenegrino affermò che una caserma militare nella periferia di Belgrado aveva ospitato l'ex generale e che alcuni di quelli che si riteneva fossero suicidi erano in realtà una copertura per eliminare testimoni scomodi. Voci affermavano che il governo serbo stesse trattando con Mladić in persona la sua consegna al Tribunale Internazionale, ma la questione si risolse in un nulla di fatto.

2006

Nel 2006 vi fu uno scontro diplomatico molto intenso fra l'Unione europea e la Serbia, a causa della mancata cattura del generale serbo bosniaco: l'UE infatti aveva posto come termine la data del 10 maggio, ma la sua cattura non si realizzò.
Secondo fonti serbe di quel periodo Mladić si nascondeva in Serbia: questa informazione è stata pubblicata più volte senza che si arrivasse però ad un'effettiva cattura che, secondo le medesime fonti, doveva essere ormai molto vicina.

2008

Il 10 novembre 2008 le forze di sicurezza serbe accerchiarono un centro di imbottigliamento di acqua minerale a Valjevo, nella speranza di catturare l'ex-comandante delle forze serbo-bosniache: l'operazione però risultò infruttuosa.
Il 2 dicembre 2008 le forze antiterrorismo serbe perlustrarono perfino la casa della moglie di Radovan Karadžić e la casa del figlio di Ratko Mladić, nella speranza di trovare materiale che conducesse alla cattura del boia di Srebrenica, ma senza alcun risultato.

2009

Il 25 agosto 2009 il procuratore serbo Vukčević affermò che la ricerca nei confronti di Goran Hadžić e di Mladić proseguiva, e che questi doveva essere arrestato entro la fine del 2009, altrimenti il ministro del Lavoro serbo di religione musulmana e cooperatore principale con il tribunale dell'Aja Rasim Ljajić si sarebbe dimesso; difatti pochi mesi dopo Ljajić, in linea con quanto affermato, si dimise il 30 dicembre 2009.
Il 3 novembre 2009 il presidente serbo Boris Tadić dichiarò che l'arresto di Mladić per la Serbia era un dovere: anche lo stato serbo riconosceva che il generale serbo-bosniaco aveva commesso numerosi crimini in tempo di guerra. Questa dichiarazione fu rilasciata un giorno prima dell'incontro con Serge Brammertz, previsto per mercoledì 4 novembre. Secondo un rapporto della CIA, sempre del novembre 2009, la cattura di Mladić era "al di là della portata delle autorità serbe" perché presumibilmente il ricercato si era rifugiato fuori del suo stato natio e, probabilmente, era protetto dai servizi segreti russi. Inoltre da fonti serbe (disponibili sul sito Radio Serbia) era stato comunicato che Ratko Mladić si sarebbe nascosto sulle montagne e che le autorità serbe erano pronte a chiedere aiuto ai paesi stranieri per conseguire la cattura del superlatitante.

2010

Il 23 febbraio 2010 i servizi segreti serbi perquisirono la casa di Mladić, sequestrando diverso materiale. Il 20 agosto 2010 il procuratore serbo per i crimini di guerra, Vladimir Vukčević, dichiarò che avrebbe tirato fuori Ratko Mladić dalla tana in cui si nascondeva e che, grazie al lavoro continuo delle autorità competenti, era stato possibile trovare alcune registrazioni delle chiamate telefoniche di Mladić, sequestrate nella sua casa a febbraio. Nell'intervista al quotidiano belgradese PRES, Vukčević riferì che aveva ascoltato le telefonate registrate segretamente dall'ex comandante dell'esercito della Repubblica Srpska, e che questo materiale audio era già stato inviato al tribunale. Il 7 ottobre 2010 Vukcević sottolineò che le reti di protezione di Mladić e Hadzić erano molto forti e che era estremamente difficile arrestarlo. Il 22 ottobre 2010, il presidente del Consiglio nazionale per la collaborazione con il tribunale dell'Aja, Rasim Ljajić, dichiarò al quotidiano belgradese Večernje novosti che, rispetto ad alcuni mesi prima, le autorità serbe adesso sapevano molto di più della latitanza di Ratko Mladić. Il 26 ottobre del 2010, secondo le informazioni Ansa, è stato riferito che a Belgrado erano impiegate non meno di 10.000 persone per giungere alla cattura di Ratko Mladić. Il 28 ottobre 2010, la Serbia decise di elevare l'ammontare della taglia per la cattura di Mladic da 5 a 10 milioni di euro.

2011: l'arresto

Il 26 maggio 2011 Ratko Mladić è stato arrestato grazie a una segnalazione anonima. Le iniziali incertezze (a causa anche dell'aspetto notevolmente invecchiato) circa l'identità del fermato, che si faceva chiamare Milorad Komadić, sono state definitivamente fugate dagli esiti del test del DNA. La televisione di Stato RTS, citando fonti serbe, ha comunicato che l'uomo fermato era Mladić; secondo la televisione privata B92, l'ex-combattente era stato catturato nel villaggio di Lazarevo, 80 chilometri a nord-est di Belgrado. Il 1º giugno 2011, Ratko Mladić è stato estradato a L'Aia per essere processato presso il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia. Al 6 gennaio 2013 il processo è ancora in corso.

Il processo

Il Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia ha acquisito 18 quaderni contenenti gli appunti di Mladić, riguardanti gli anni della guerra. Da tali documenti emerge l'odio che egli provava nei confronti della comunità musulmana, oltre che nei confronti dell'Occidente, colpevole, a suo dire, di appoggiare i musulmani bosniaci per ottenere in cambio vantaggi dalle nazioni del Vicino Oriente. Tali documenti sono stati ritenuti dai giudici della corte una prova molto importante a carico dell'imputato, alla luce dell'autografia degli stessi.

fonte: Wikipedia

Radovan Karadzic



in lingua serba Радован Караџић, è un politico bosniaco, di origini serbe, ex presidente della Repubblica Serba. Tra i protagonisti politici delle Guerre nella ex-Jugoslavia, incriminato per crimini di guerra e genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia dell'Aja, a suo carico era stato emesso un mandato di cattura internazionale eccezionale in base all'articolo 61 del Tribunale. Il governo degli Stati Uniti aveva inoltre offerto un premio di 5 milioni di dollari per la sua cattura e per quella del generale serbo-bosniaco Ratko Mladić. Latitante per molti anni, è stato arrestato il 21 luglio 2008 dalle forze di sicurezza serbe.

Karadžić è nato a Petnjica, nel nord del Montenegro. Il padre Vuko aveva fatto parte dei Cetnici, il gruppo armato monarchico jugoslavo guidato da Draža Mihajlović, che combatteva contro la resistenza partigiana comunista di Tito e soprattutto contro i nazisti; il padre venne incarcerato per un lungo periodo durante l'infanzia del figlio. Nel 1960 Karadžić si trasferì a Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina, per intraprendere i suoi studi di psichiatria, iniziando anche a lavorare all'ospedale Koševo. Egli inoltre si dedicò alla poesia, avvicinandosi allo scrittore serbo Dobrica Ćosić, che lo incoraggiò a intraprendere la carriera politica.

Carriera politica

Nel 1989 Karadžić fu tra i protagonisti della fondazione in Bosnia Erzegovina del Partito Democratico Serbo (Srpska Demokratska Stranka) che si proponeva di proteggere e rafforzare gli interessi dei Serbi di Bosnia Erzegovina.
Il 3 marzo 1992 un referendum, a cui avevano partecipato solo i Croato-Bosniaci e i Bosniaci Musulmani (mentre era stato boicottato dai Serbi di Bosnia), sancì l'indipendenza della Repubblica dalla Jugoslavia, ormai formata solo da Serbia e Montenegro. Il 6 aprile 1992, la Bosnia ed Erzegovina venne riconosciuta dall'ONU come uno stato indipendente e sovrano. La stessa costituzione titoista prevedeva del resto per ciascuna delle sei repubbliche jugoslave il diritto alla secessione. I Serbi di Bosnia non riconobbero il nuovo stato e proclamarono la nascita nei territori a prevalenza serba della Repubblica Serba (Republika Srpska), di cui Karadžić divenne il presidente (13 maggio 1992). Assumendo la presidenza della Repubblica, egli divenne il comandante in capo dell'Esercito Serbo-bosniaco con il potere di nomina e revoca degli ufficiali.

Ricercato e arrestato dopo 13 anni di latitanza

Dal 1996 Karadžić era ricercato per crimini di guerra dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia. L'Interpol aveva emesso contro di lui un mandato per crimini contro l'umanità, la vita e la salute pubblica, genocidio, gravi violazioni delle convenzioni di Ginevra del 1949, omicidio e violazioni delle norme e delle convenzioni di guerra. L'incriminazione, secondo l'articolo 7 dello Statuto del Tribunale internazionale dell'Aja, per responsabilità individuale criminale di Karadžić comprende:

due capi di accusa per genocidio (articolo 4 dello Statuto - genocidio, complicità in genocidio);
cinque capi di accusa per crimini contro l'umanità (articolo 5 dello Statuto - sterminio, omicidio, persecuzioni di carattere politico, etnico e religioso, comportamenti inumani come il trasferimento forzato della popolazione);
tre capi di accusa per violazione delle norme e delle convenzioni di guerra (articolo 3 dello Statuto - omicidio, creazione di un clima illegale di terrore tra i civili, presa di ostaggi);
un capo di accusa per violazione delle convenzioni di Ginevra (articolo 2 dello Statuto - omicidio intenzionale)

In sua difesa, i suoi sostenitori affermano che egli non ha maggiori colpe rispetto ad altri leader di Paesi in stato di guerra. La sua apparente capacità di evadere la cattura per otto anni ha fatto di lui un eroe popolare in alcuni ambienti nazionalisti serbi. Nel 2001 centinaia di suoi sostenitori hanno manifestato in sua difesa nella sua città natale.
Nel marzo del 2003 la madre, Jovanka, ha invitato pubblicamente Karadžić a non arrendersi.
Nel novembre del 2004 corpi militari britannici fallirono un'operazione militare organizzata per la cattura sua e di altri sospettati.
Nel 2005 i leader serbo-bosniaci hanno invitato Karadžić ad arrendersi definitivamente, osservando cha la sua mancata cattura (unita a quella di Mladić) possono impedire il percorso politico ed economico di Bosnia e Serbia. Dopo un'incursione fallita il 7 maggio 2005, le truppe della NATO hanno arrestato il figlio di Karadžić, Aleksandar (Saša), ma lo hanno rilasciato dopo una decina di giorni.
Il 28 giugno 2008 la moglie di Karadžić, Liljana Zelen Karadžić, lo ha invitato con forza ad arrendersi, dopo aver sentito su se stessa, secondo le sue parole, un'enorme pressione esterna. Inoltre prima della sua cattura si pensava che si nascondesse in Russia.
Il 21 luglio 2008 è stato arrestato dalle locali forze di sicurezza, dopo quasi tredici anni di latitanza, mentre si trovava a bordo di un autobus a Belgrado, in Serbia, sotto la falsa identità di un militare bosniaco che in realtà era caduto in guerra, Dragan Dabić (Tuzla, 1954 – Sarajevo, 1993).
Subito dopo l'arresto viene creato il sito dragandabic.com, col quale si lascia intendere che Karadžić avrebbe trascorso l'intera latitanza libero e indisturbato, travestito da santone. Benché la burla sia evidente (basta verificare la data di creazione del sito), numerosi giornali riprendono la notizia, per poi smentirla.
Il 29 luglio 2008 è stato estradato all'Aja per essere giudicato dal Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia (Tpi) su 11 capi d'accusa. Il processo potrebbe durare più di un anno. Karadžić ha annunciato che intende difendersi da solo, come già in passato fece l'ex presidente serbo Slobodan Milošević, avvalendosi comunque di una squadra di consulenti.
La sua dichiarazione nel primo giorno di udienza ha dato probabilmente un chiaro indizio della sua strategia difensiva, affermando che gli Stati Uniti gli hanno offerto l'immunità in cambio del suo ritiro dalla vita politica attiva.
Recentemente, in un'intervista al Corriere della Sera, il nipote Dragan rilevò che, durante la latitanza, suo zio Radovan veniva spesso in Italia a visitare Venezia e a seguire le partite del Campionato italiano di calcio di Lazio ed Inter, essendo un fan dei calciatori serbi Sinisa Mihajlović e Dejan Stanković, fino a diventare tifoso interista.
Durante un'udienza del processo che lo vede imputato, il 23 luglio 2009, a un anno dalla cattura, Karadžić ha definito "un'esagerazione" il numero di vittime del massacro di Srebrenica. Sempre durante la medesima sessione, l'imputato ha chiesto l'accesso ai test del Dna delle vittime "per poter stabilire la verità".
Il suo processo era previsto per il 26 ottobre 2009 ma è stato rinviato ulteriormente a causa della volontà dell'imputato di non presentarsi di fronte ad una Corte che non riconosce e di ritardare la presentazione della sua difesa.
Il 1 marzo del 2010 è cominciato il processo contro Karadžić, il quale ha negato tutte le accuse rivoltegli dal tribunale internazionale; in particolar modo ha definito un mito il Massacro di Srebrenica e l'Assedio di Sarajevo,accusando direttamente i musulmani di aver orchestrato tutto per dare la colpa ai serbi di Bosnia. Anche la strage di Markale del 1994, secondo Karadžić, fu provocata dai bosgnacchi stessi.

fonte: Wikipedia

martedì

eccidio di Porzus




L'eccidio di Porzûs consistette nell'uccisione, fra il 7 e il 18 febbraio 1945, di diciassette partigiani (tra cui una donna, loro ex prigioniera) della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti – appartenenti al Partito Comunista Italiano. L'evento – spesso definito uno dei più tragici e controversi della Resistenza italiana – fu ed è tuttora fonte di numerose polemiche in ordine ai mandanti dell'eccidio e alle sue motivazioni. Le vicende legate a Porzûs hanno travalicato il loro contesto locale fin dagli anni in cui si svolsero, entrando a far parte di una più ampia discussione storiografica, giornalistica e politica sulla natura e gli obiettivi immediati e prospettici del PCI in quegli anni, nonché sui suoi rapporti con i comunisti jugoslavi e con l'Unione Sovietica.

Contesto storico

I partigiani jugoslavi nella Slavia friulana

Nella storia della guerra di liberazione, la situazione nelle estreme propaggini nord-orientali dell'allora territorio italiano presenta delle caratteristiche del tutto peculiari. Abitata in parte da popolazioni slovene – ampiamente maggioritarie in varie zone – l'area comprende al proprio interno anche una regione denominata all'epoca "Slavia veneta" (oggi chiamata prevalentemente Slavia friulana, in sloveno Benečija) appartenuta per secoli alla Repubblica di Venezia e incorporata al Regno d'Italia fin dal 1866. Durante la seconda guerra mondiale, il 10 settembre 1943 – due giorni dopo l'annuncio dell'armistizio italiano – fu inclusa formalmente dai tedeschi nella Zona d'operazioni del Litorale adriatico (in tedesco Operationszone Adriatisches Küstenland – OZAK), territorio sul quale la sovranità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) era puramente nominale, divenendo teatro di un'intensa repressione antipartigiana coordinata dal locale capo delle SS Odilo Globocnik.
In tale contesto geografico operarono contemporaneamente tre tipologie di formazioni partigiane: gli sloveni del IX Korpus, fortemente organizzati e inseriti all'interno dell'Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia (in sloveno: Narodnoosvobodilna vojska in partizanski odredi Jugoslavije – NOV in POJ, o NOVJ), alcune Brigate Garibaldi, fra le quali in particolare quelle inserite nella Divisione Garibaldi Natisone, costituita prevalentemente da militanti comunisti, e le Brigate Osoppo Friuli, con componenti di ispirazione monarchica, azionista, socialista, laica e cattolica.
Tutte le terre a est del fiume Isonzo – e comunque ovunque vivesse una componente etnica slovena, compresa quindi la Slavia veneta – furono rivendicate fin dalla fine del 1941 dalla nascente Jugoslavia di Tito, che le dichiarò ufficialmente annesse nel settembre del 1943. All'interno di questi territori gli jugoslavi pretesero di avere il comando di tutte le operazioni militari sottoponendo al controllo del NOVJ le altre formazioni combattenti, in accordo con quanto aveva stabilito, a seguito di precisa richiesta di Tito, il segretario del Comintern Georgi Dimitrov in una lettera del 3 agosto 1942: questi aveva disposto per tutta la Venezia Giulia la dipendenza delle strutture del PCI al Partito Comunista Sloveno (PCS) e di tutte le formazioni combattenti nell'area al Fronte di Liberazione Sloveno. L'obiettivo dei partigiani jugoslavi era triplice: liberare le zone occupate dagli eserciti dell'Asse, creare una serie di fatti compiuti per sostanziare le proprie rivendicazioni territoriali eliminando ancora nel corso delle operazioni belliche ogni opposizione – reale o potenziale – a tale disegno e procedere nel contempo a una rivoluzione sociale di tipo marxista.

La posizione del PCI

Premesse

La prima presa di posizione del Partito Comunista d'Italia sulla questione dei confini orientali italiani si manifestò nel 1926, durante il terzo congresso di Lione. In quell'occasione il PCd'I riprese le direttive del quinto congresso del Comintern (Mosca 1924), che aveva elaborato la politica denominata di «rottura della Jugoslavia»: PCd'I e Partito Comunista Jugoslavo dovevano cooperare per il distacco dei popoli dalla monarchia dei Karađorđević. L'approccio alla questione ruotò intorno alla parola d'ordine di Lenin sul diritto di autodecisione, eventualmente fino alla separazione dallo Stato maggioritario. Al quarto congresso del PCd'I, tenuto a Colonia nel 1931, si ribadì espressamente «il diritto delle minoranze nazionali a disporre di sé stesse fino alla separazione dallo Stato italiano».
A dicembre del 1933 fu elaborata da delegazioni riunitesi a Mosca una «Dichiarazione comune dei Partiti comunisti della Jugoslavia, dell'Italia e dell'Austria sul problema sloveno», con la quale i tre partiti dichiararono di essere «per l'autodecisione del popolo sloveno, senza alcuna riserva, e sino alla separazione degli Sloveni dagli Stati imperialistici che oggi li opprimono, e che sono l'Italia, la Jugoslavia e l'Austria», nel contempo affermando che «chi non lavora e non lotta per realizzare questa linea politica (...) non è un comunista, ma un opportunista contro il quale si deve combattere».
Nel 1935 il PCd'I si fece promotore di un'intesa con tutte le forze slovene, comuniste e non, in un «fronte popolare» antifascista. Ricevuta da alcuni «allarmati» comunisti triestini una richiesta di spiegazioni, l'anno successivo l'Unità clandestina pubblicò un articolo chiarificatore, nel quale confermò «l'invito ai nazionalisti sloveni e croati della Venezia Giulia (...), a lavorare assieme ai comunisti ed ai nazionalisti della ex-TIGR per la costituzione di un fronte popolare (...), come via per raggiungere la libertà politica e nazionale nella Venezia Giulia», ribadendo «il diritto delle minoranze oppresse all'autodecisione fino al distacco dallo Stato italiano», ritenendo questa presa di posizione «questione di principio per noi comunisti italiani».

Gli sviluppi nella fase finale della guerra

Lo sloveno Edvard Kardelj, uno dei più importanti collaboratori di Tito, in una lettera del 9 settembre 1944 inviata alla direzione del PCI Alta Italia per il tramite di Vincenzo Bianco – prescelto personalmente da Togliatti come delegato del partito presso il Fronte di Liberazione Sloveno – scrisse che all'interno delle formazioni partigiane italiane occorreva «fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti». Con riferimento alle zone di operazioni del IX Korpus, così proseguì: «Non possiamo lasciare su questi territori nemmeno un'unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici», auspicando il passaggio dell'intera regione alla nuova Jugoslavia: «Gli italiani saranno incomparabilmente più favoriti nei loro diritti e nelle condizioni di progresso di quel che sarebbero in un'Italia rappresentata da Sforza». Rispetto alla Osoppo, rilevò che fosse «sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d'Azione».
A seguito della lettera, Bianco intraprese, a nome del PCI, una serie di colloqui coi rappresentanti del comitato centrale del PCS Miha Marinko, Lidija Šentjurc e Anton Vratuša "Urban". Il 17 settembre inviò una lettera a Togliatti nella quale rivelò d'aver acconsentito alla cessione delle zone reclamate dagli sloveni: «Non potevo oppormi alle giuste rivendicazioni nazionali di un popolo, che da tre anni combatte eroicamente contro il nostro comune nemico e non potevo dividere  – e non si può  – la città di Trieste e altri centri dal loro naturale retroterra.». Il 24 settembre egli spedì alle federazioni del PCI di Gorizia, Trieste e Udine, al commissario politico delle formazioni Garibaldi Friuli Mario Lizzero "Andrea" e al comitato centrale del PCS una lunga missiva – divenuta in seguito nota col nome di «riservatissima» – firmata «a nome del Comitato Centrale del PCI» che riproponeva fedelmente i postulati della lettera di Kardelj. Non solo i destini della Slavia veneta, ma quelli dell'intera Venezia Giulia e di Trieste erano chiaramente delineati: «Trieste, come tutti gli italiani veramente democratici antifascisti, avranno un migliore avvenire in un paese dove il popolo è padrone dei propri destini, che non in un'Italia occupata dai nostri alleati anglo-americani. (…) La vostra lingua e la vostra cultura italiana vi è garantita tanto dal NOVJ che dalle vostre forze armate incorporate in quelle di Tito, con appoggio della Unione Sovietica. Domani, quando la situazione dell'Italia sarà cambiata, quando il popolo nostro sarà anch'esso libero e padrone dei propri destini, il problema di Trieste e di voi tutti sarà risolto, nei modi e sull'esempio della Unione Sovietica».
Il 13 ottobre 1944, sulle pagine dell'organo ufficiale del PCI Alta Italia La nostra lotta, fu pubblicato un lungo articolo anonimo dal titolo «Saluto ai nostri amici e alleati jugoslavi», nel quale si annunciava che «le forze popolari del Maresciallo Tito, appoggiate dal vittorioso Esercito Sovietico» avrebbero iniziato delle «operazioni di grande respiro» anche nella «Venezia Giulia (…) e [nei] territori dell'Italia Nord-Orientale». Salutando «quest'eventualità come una grande fortuna per il nostro paese», il giornale comunista invitava ad «accogliere i soldati di Tito non solo come liberatori allo stesso modo in cui sono accolti nell'Italia liberata i soldati Anglo-Americani, ma come dei fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta (…) e che ci apportano (…) la libertà». I soldati di Tito erano quindi da considerare «come i creatori di nuovi rapporti di convivenza e di fratellanza, non solo fra i popoli jugoslavi ma fra tutti i popoli»: «non solo i territori slavi da essi liberati, ma anche quelli italiani non saranno sottoposti al regime di armistizio, ma considerati come territori liberi, con un proprio governo rappresentato dagli organismi del movimento di liberazione, nei quali (…) ogni popolo (…) troverà immediata e sicura espressione democratica». Grazie quindi all'opera congiunta dei partigiani italiani e jugoslavi «sarà tutto il popolo italiano che si sentirà legato a tutti i popoli jugoslavi e balcanici (…) [e] che si collegherà, attraverso i popoli balcanici, alla grande Unione Sovietica che è stata, e sempre sarà, faro di civiltà e di progresso per tutti i popoli (…)». «Il Partito Comunista Italiano» – concludeva quindi l'articolo – «impegna (…) tutti i comunisti (…) a combattere come i peggiori nemici della liberazione nazionale del nostro Paese e, quindi, come alleati dei tedeschi e dei fascisti quanti, con i soliti pretesti del "pericolo slavo" e del "pericolo comunista" lavorano a sabotare gli sforzi militari e politici dei nostri fratelli slavi (…)».
Il 17 ottobre 1944 Palmiro Togliatti ebbe un incontro personale a Roma con Kardelj e con altri dirigenti comunisti jugoslavi: secondo la minuta dell'incontro di mano dello stesso Kardelj, il leader comunista italiano «non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia, tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale che soddisfi gli italiani». Due giorni dopo, Togliatti inviò un'ampia lettera a Bianco, suddivisa in sei punti e «concordata con gli jugoslavi», esprimente «l'opinione non soltanto mia ma anche della direzione del Partito, da me consultata». Considerando «un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito», al fine non solo di battere tedeschi e fascisti, ma anche di creare nell'area «un regime democratico e progressivo», Togliatti ordinò a tutte le divisioni garibaldine operanti nei territori reclamati dagli jugoslavi di entrare nel NOVJ, e scrisse di proprio pugno il testo dell'ordine del giorno che i garibaldini avrebbero dovuto adottare:

« I partigiani italiani riuniti il 7 novembre in occasione dell'anniversario della Grande Rivoluzione accettano entusiasticamente di dipendere operativamente dal IX Corpus sloveno, consapevoli che ciò potrà rafforzare la lotta contro i nazifascisti, accelerare la liberazione del Paese e instaurare anche in Italia, come già in Jugoslavia, il potere del popolo. »
Togliatti non fece riferimento esplicitamente alle Brigate Osoppo Friuli, ma dispose che «(…) i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che si mantengono sul terreno e agiscono in nome dell'imperialismo e nazionalismo italiano e contro tutti coloro che contribuiscono in qualsiasi modo a creare discordia tra i due popoli».

In conseguenza di ciò, fin dagli ultimi mesi del 1944 la Divisione Garibaldi Natisone passò sotto il comando del IX Korpus, venendo inquadrata all'interno del NOVJ su tre Brigate: 156ª Brigata "Bruno Buozzi", 157ª Brigata "Guido Picelli" e 158ª Brigata "Antonio Gramsci". Il 15 gennaio 1945 i comandanti della Divisione si recarono per la prima volta al comando del IX Korpus: qui trovarono Vincenzo Bianco, che si presentò come portavoce del Comitato Centrale del PCI e comunicò che la Natisone sarebbe stata integrata completamente nell'esercito di Tito, rompendo ogni contatto con le organizzazioni italiane. Invece di rimanere a combattere nel territorio nazionale, la Divisione fu quindi trasferita all'interno della Slovenia, ritornando in Italia solo alla fine del maggio 1945. I comandi della Osoppo invece rifiutarono, sostenendo di voler fare riferimento unicamente alle strutture direttive del Comitato di Liberazione Nazionale italiano. Questa situazione acuì una preesistente spaccatura all'interno delle forze partigiane italiane nella regione, che assunse sempre più le forme di un'aspra conflittualità ideologico-politica sui fini ultimi della lotta resistenziale e sulla sistemazione confinaria postbellica.
Tale acceso contrasto aveva conosciuto uno dei suoi momenti più importanti nell'agosto del 1944. A seguito del rastrellamento di Pielungo (frazione di Vito d'Asio dove aveva sede il comando della Osoppo) del 19 luglio con la conseguente liberazione di un gruppo di prigionieri tedeschi, il CLN udinese e il Comitato Regionale Veneto avevano deciso la destituzione dei comandanti osovani Candido Grassi "Verdi" e don Ascanio De Luca "Aurelio", accusati di comportamento imprudente e sostituiti col seguente organigramma: al comando l'azionista Lucio Manzin "Abba", suo vice il comunista Lino Zocchi "Ninci", già comandante della brigata Garibaldi Friuli; commissario politico il già citato comunista Mario Lizzero "Andrea"; vicecommissario l'azionista Carlo Commessatti "Spartaco". Le formazioni della Osoppo avevano reagito con molta decisione, destituendo a loro volta i comandanti designati e rimettendo al loro posto i precedenti.

Le pressioni slovene e garibaldine sugli osovani

Nella seconda metà del 1944 si moltiplicarono le pressioni slovene sui comandi osovani, contestualmente a una serie di accuse – sia da parte slovena che garibaldina – di intese della Osoppo con nazisti e fascisti con i quali sarebbero stati presi accordi in funzione anticomunista, di inserimento nelle proprie fila di ex fascisti, di protezione di spie, furti di materiale e addirittura di collaborazione nell'omicidio di partigiani garibaldini.
A tali accuse il comando della Osoppo aveva replicato con una lunga serie di relazioni scritte, nelle quali si illustrava il violento contrasto che contrapponeva i propri reparti ai garibaldini e agli sloveni del IX Korpus, e si denunciava una serie di incidenti a scapito degli osovani oltre alle forti pressioni che continuavano ad esser esercitate per il passaggio della Osoppo alle dipendenze dei comandi sloveni, sia da parte di questi ultimi che da parte del comando della Garibaldi Natisone, accompagnate da varie minacce. Nello stesso periodo diversi esponenti comunisti triestini di sentimenti filoitaliani, che avevano espresso dubbi sulla futura appartenenza della città alla Jugoslavia, furono arrestati dai tedeschi, si suppone in seguito a delazioni.
Un membro della missione britannica del SOE (Special Operations Executive), Michael Trent (al secolo Issack Michael Gyori, nativo ungherese e residente in Cecoslovacchia), che nello stesso periodo aveva tentato una mediazione fra la Osoppo e i comandi del IX Korpus, fu ucciso in circostanze non chiare.
Il 22 novembre 1944, quindici giorni dopo l'inserimento dei garibaldini nel IX Korpus sloveno, ebbe luogo l'ultimo incontro (della durata di cinque ore) fra i comandi della 1ª Divisione Garibaldi Natisone e della 1ª Brigata Osoppo – presente il comandante osovano Francesco De Gregori "Bolla" – nel corso della quale i garibaldini esercitarono la massima pressione possibile per convincere gli osovani a seguirli nella loro scelta. In particolare, Giovanni Padoan "Vanni" (commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone) dichiarò che tutti i partigiani operanti nell'Italia nord-orientale dovevano porsi alle dipendenze degli jugoslavi e che, secondo una dichiarazione ufficiale del PCI, chi non avesse appoggiato gli jugoslavi sarebbe stato da considerare nemico del popolo italiano. Aggiunse poi che chi avesse preferito «appoggiare la politica democratica borghese dell'Inghilterra, anziché quella democratica popolare progressista della Jugoslavia di Tito», sarebbe stato considerato conservatore e reazionario e ritenuto di conseguenza responsabile di fronte al popolo: i garibaldini non avrebbero mai permesso l'instaurazione di un «regime democratico che facesse comodo all'Inghilterra» in Italia. Inoltre "Vanni" parlò delle vicende confinarie, affermando che l'intera Venezia Giulia era da considerarsi legittimamente appartenente alla Jugoslavia, le cui forze partigiane avrebbero proceduto in quel territorio alla mobilitazione generale: nel contempo, intimò agli osovani di non procedere ad alcun tipo di mobilitazione o di reclutamento, mettendo in dubbio la legittimità del CLN. Il colloquio ebbe un andamento burrascoso e si concluse con una rottura completa.
Il comando della Divisione Garibaldi Natisone assieme ad alcuni ufficiali sovietici a Zakriž (Slovenia) nel gennaio 1945. Il primo a sinistra è il commissario politico Giovanni Padoan "Vanni", al centro con la barba il comandante Mario Fantini "Sasso", il primo a destra è il capo di stato maggiore Albino Marvin "Virgilio". I primi due saranno imputati nel processo per l'eccidio
A dicembre gli sloveni esercitarono pressioni sulla Garibaldi Natisone perché agisse contro il comando osovano di Porzûs: lo si ricava da due lettere di risposta al superiore comando del IX Korpus inviate il 6 e 12 dicembre 1944 da Mario Fantini "Sasso" e Giovanni Padoan "Vanni", come comando della Divisione Garibaldi Natisone. Nella prima scrissero che:

« (…) Infine, a proposito dell'Osoppo. Non appena avremo regolato la questione dell'Intendenza, cioè riceveremo sufficienti viveri dall'Intendenza per poter nutrire la 156ª Brigata, questa Brigata la faremo passare da queste parti e così potremo liquidare questa perniciosa questione (…) »

("Sasso" e "Vanni", 6 dicembre 1944)

Nella lettera successiva tornarono sul tema:

« (…) In quanto all'Osoppo che a noi interessa e la Missione Inglese, la sua liquidazione dipende dalla nuova situazione creatasi (…) abbiamo documenti raccolti ieri e cioè una dichiarazione di un osovano che li accusa in pieno. Non appena la situazione si chiarirà la questione sarà risolta dalla 157ª Brigata (…) »

("Sasso" e "Vanni", 12 dicembre 1944)
Il 1º gennaio 1945 si tenne un incontro in frazione Uccea di Resia fra Romano Zoffo "Barba Livio" – già comandante della 2ª Brigata Osoppo, in quell'epoca impegnato nell'organizzazione della 6ª Brigata Osoppo e in particolare del Battaglione Resia – e il commissario politico sloveno del Battaglione Rezianska, accompagnato da due ufficiali. In tale occasione gli sloveni affermarono che:

« la nostra presenza in Val Resia è dovuta puramente a ragioni politiche. Indubbiamente il destino di questa striscia di territorio sarà deciso da un plebiscito che sarà tenuto in presenza delle nostre forze armate, per cui il risultato può essere considerato certo. (…) Non possiamo permettere la presenza di partigiani italiani in Val Resia finché il nostro Alto Comando non ci dà il permesso. La presenza di partigiani italiani danneggerebbe la nostra propaganda. Possiamo risolvere i nostri problemi di confine con un accordo reciproco. D'altro canto, non è impossibile che un giorno ci giunga l'ordine di disarmare le formazioni Osoppo nei dintorni della Val Resia. Per evitare una crisi tra noi, le formazioni Osoppo dovrebbero seguire l'esempio dei garibaldini e venire sotto di noi. L'Inghilterra, nella quale riponete tanta fiducia, non vi aiuterà certamente in futuro. (…) L'Inghilterra sarà il nemico del domani e il suo sistema capitalista deve sparire. Sull'esempio della Grecia, le formazioni garibaldine che hanno accettato di dipendere dagli sloveni rappresenteranno la Elas dell'Italia. »

Poco più di un mese dopo avvenne l'eccidio.

L'eccidio

L'attacco alle malghe

Il 7 febbraio 1945 un gruppo di circa cento partigiani comunisti appartenenti ai battaglioni GAP "Ardito" (al comando di Urbino Sfiligoi "Bino"), "Giotto" (al comando di Lorenzo Deotto "Lilly"), "Amor" (al comando di Gustavo Bet "Gastone") e "Tremenda" (al comando di Giorgio Iulita – o Julita – "Jolly") e capeggiati da Mario Toffanin "Giacca" raggiunse il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, situato nel Friuli orientale presso alcune malghe in località Topli Uork, nel comune di Faedis (in seguito la zona divenne più nota con il toponimo di Porzûs, dal nome di una vicina frazione del comune di Attimis). L'ordine ai gappisti  – secondo la ricostruzione processuale  – era stato messo per iscritto dal vicesegretario della federazione del PCI di Udine – Alfio Tambosso "Ultra" – nei seguenti termini:

« Cari compagni, vi trasmetto, per l'esecuzione, l'ordine pervenuto dal Superiore Comando Generale. Preparate 100-150 uomini, completamente armati ed equipaggiati, con viveri a secco per 3-4 giorni, da porre alle dipendenze della divisione Garibaldi Natisone operante agli ordini del Maresciallo Tito. Vi raccomando la precisa esecuzione del presente ordine, che ha carattere di estrema importanza per il prossimo avvenire. Non appena gli uomini saranno pronti, mi avvertirete immediatamente. Provvedete ad eseguire rapidamente e cospirativamente. Gli uomini dovranno sapere solo quando saranno in viaggio. Quando verrò da voi, e cioè fra qualche giorno, spiegherò meglio ogni cosa. Ricordate che ne va del buon nome GAP e che è cosa di massima importanza. L'armata Rossa gloriosa avanza e ormai i tempi stringono. Fraternamente. Ultra 24.1.1945 »

Sempre secondo quanto emerso durante il processo, tale ordine fu in seguito impartito a "Giacca" nel corso di una riunione tenutasi nella località di Orsaria (Premariacco) il 28 gennaio 1945, in cui erano presenti, a parte lo stesso "Giacca", anche i citati "Ultra" e "Jolly", Ostelio Modesti "Franco", Valerio Stella "Ferruccio" e Aldo Plaino "Valerio", a casa di Armando Basso "Gobbo". Il senso generale della riunione di Orsaria venne ricordato in un memoriale stilato da Aldo Plaino "Valerio" il 12 dicembre 1946, secondo il quale:

« Ero presente anch'io il giorno che venne dato a Giacca l'ordine di agire contro la "Osoppo". Franco ordinò in questo modo: "Vai, fa' e fai bene". Erano presenti Franco, Ferruccio (Stella), Marco (Juri), Giacca e io. La riunione in cui vennero dati gli ordini surriferiti venne tenuta circa gli ultimi di gennaio o i primi di febbraio 1945 in Orsaria di Premagnacco, in casa del Gobbo, responsabile del CLN di Orsaria di allora. »

Nel 1975 Toffanin rilasciò la seguente dichiarazione autografa per un libro di Marco Cesselli, ricercatore dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione:

« Il 28.1.1945, a Orsaria, eravamo presenti io, Ultra (Tambosso), Franco (Modesti), Jolly (Iulita), Ferruccio (Stella), Valerio (Plaino), Gobbo (Basso), in casa del Gobbo. Ultra e Modesti danno l'ordine di andare a Porzus per liquidare il Gruppo Bolla. Contemporaneamente Ultra scrive a mano l'ordine di liquidare gli osovani. Ordine che è stato consegnato a Jolly che lo ha conservato. Poi si è parlato per le carceri di Udine, azione da svolgere da Valerio e Mancino. Sotto il mio comando abbiamo fucilato sei osovani. Siamo ritornati alla base e tre giorni dopo venne Franco (Modesti). Abbiamo avuto una riunione e si è parlato degli osovani rimasti. Anche Franco era d'accordo di farli fuori. Presente era il comando GAP: i compagni Giacca, Marco e Valerio. »

In seguito alcuni dei gappisti che parteciparono all'azione di Topli Uork testimoniarono di non aver compreso il motivo della missione fino agli istanti precedenti l'eccidio.
La 1ª Brigata Osoppo ospitava Elda Turchetti, una giovane donna che Radio Londra aveva indicato come spia. In seguito a tale denuncia, la stessa Turchetti si era presentata spontaneamente a un partigiano gappista suo conoscente di nome Attilio Tracogna "Paura": questi l'aveva condotta da Adriano Cernotto "Ciclone" (gerarchicamente dipendente proprio da Toffanin), che non sapendo quali decisioni prendere l'aveva riconsegnata a "Paura", il quale la portò quindi all'osovano Agostino Benetti "Gustavo", dipendente dal responsabile dell'Ufficio Informazioni della Osoppo Leonardo Bonitti "Tullio". La Turchetti venne in seguito affidata all'osovano Ivo Feruglio "Marinaio", che il 13 dicembre 1944 la portò a Topli Uork. Lì fu assolta in istruttoria al termine di un processo partigiano conclusosi il 1º febbraio 1945. Dal ruolino della Osoppo tenuto da "Bolla" risulta che la donna era stata arruolata a tutti gli effetti nella 1ª Brigata Osoppo, col nome di "Livia". La protezione data a Elda Turchetti fu in seguito indicata – nelle varie e spesso contraddittorie ricostruzioni di Toffanin – come il motivo scatenante dell'azione dei partigiani garibaldini.
Successivamente all'eccidio, Toffanin accusò inoltre la Osoppo di aver contrastato la politica di collaborazione con i partigiani jugoslavi, di non aver redistribuito agli altri gruppi partigiani parte delle armi fornite alla stessa Osoppo dagli angloamericani e di aver collaborato con elementi della Xª Flottiglia MAS e del Reggimento alpini "Tagliamento", appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana. Secondo le direttive del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà del Nord Italia, emanate nell'ottobre 1944, ogni forma di collaborazione con i soldati della RSI e con le forze germaniche era da considerare come tradimento da punire con la condanna a morte, ma dalle ricostruzioni del dopoguerra risultò che era sempre stata la Xª MAS a cercare degli accordi con la Osoppo per opporsi alle mire jugoslave sui territori orientali italiani, ottenendone però ogni volta un rifiuto.

La ricostruzione dettagliata dello svolgimento dell'operazione gappista fu fornita nel corso dei processi e poi ripresa e approfondita in alcune pubblicazioni[. La colonna raggiunse l'abitato di Porzûs e poi si divise in gruppi, che raggiunsero le malghe di Topli Uork in momenti diversi. Per superare i posti di guardia osovani senza creare scompiglio, i gappisti affermarono d'essere in parte dei partigiani sbandati a seguito di un rastrellamento, in parte civili fuggiti da un treno che li portava in Germania, attaccato dall'aviazione alleata. Un gruppo di gappisti si spacciò per osovano.
Il messaggero del gruppo agli ordini di Toffanin fu Fortunato Pagnutti "Dinamite", un partigiano del quale sia i garibaldini che gli osovani si fidavano, avendo già svolto incarico di staffetta fra i due reparti. Un osovano di guardia fu mandato a Topli Uork a informare Francesco De Gregori "Bolla", comandante del Gruppo delle Brigate Est della Divisione partigiana Osoppo, il quale inviò sul luogo il delegato politico azionista della VI Brigata Osoppo "Friuli" Gastone Valente "Enea", di passaggio alle malghe. Questi ordinò di separare i presunti osovani dai garibaldini, volendo inviare i secondi al vicino reparto garibaldino di Canebola (una frazione di Faedis). Tuttavia, insospettitosi, fece recapitare a "Bolla" un messaggio del seguente tenore:

« Si tratta di una accozzaglia di gente che mi ha fatto una pessima impressione. Alcuni dicono di essere garibaldini, altri sloveni, altri osovani, altri ancora degli evasi dai treni, in fine qualcuno di aver disertato dalle file dell'esercito repubblicano. Hanno bisogno di assistenza e di riposo. Francamente non so che pesci pigliare. Vi prego di venire qui uno di voi. »

Durante l'operazione si palesò "Giacca", che fece arrestare tutti gli osovani presenti e attese l'arrivo di "Bolla", che si trovava alla malga comando a una certa distanza. Al suo arrivo "Bolla" fu immediatamente arrestato e subito dopo "Giacca" fece rastrellare la zona, catturando un altro gruppo di osovani in una malga vicina.
Nel contempo un reparto al comando di Vittorio Juri "Marco" si occupò di raccogliere tutto il materiale presente a Topli Uork: in tale frangente fu ucciso – essendo stato ritenuto un osovano – il giovane partigiano garibaldino Giovanni Comin "Tigre" (ribattezzato in seguito "Gruaro" dagli osovani). Questi era fuggito da un treno che lo stava conducendo in un lager tedesco ed era stato indirizzato a Topli Uork dal parroco di Vergnacco (una frazione di Reana del Rojale), poiché si trattava della base partigiana più vicina. Comin si stava avvicinando alle malghe dalla parte opposta alla strada percorsa dai gappisti, assieme al portavivande e staffetta della Osoppo Giovanni Cussig "Afro", che fu rapinato dell'orologio da polso da un gappista, ma presto rilasciato dietro assicurazione – data dall'osovano Gaetano Valente "Cassino" – che non si trattava di un partigiano.
Oltre a Comin furono subito uccisi De Gregori, Valente "Enea" e la Turchetti.
Aldo Bricco "Centina", futuro comandante designato della formazione a Topli Uork per il passaggio delle consegne con De Gregori e insieme a lui giunto in vista di "Giacca" e i suoi, riuscì rocambolescamente a fuggire: colpito violentemente al volto da un gappista, ritenne che le malghe fossero sotto l'attacco di un gruppo di fascisti camuffati da partigiani e quindi si aprì a forza un varco fra i gappisti, lanciandosi poi di corsa dal costone del monte innevato. Ferito da sei colpi di arma da fuoco fu ritenuto morto, ma riuscì a trascinarsi fino al vicino paese di Robedischis, dove si fece medicare da alcuni partigiani sloveni a cui raccontò d'esser stato ferito in un agguato fascista. Il giorno successivo fu arrestato dagli sloveni, ma venne liberato da un emissario osovano grazie a un salvacondotto. In seguito riuscì di nascosto a raggiungere le file osovane mentre i partigiani del IX Korpus intraprendevano una vana caccia all'uomo per riprenderlo.

Le uccisioni successive

Tredici altri partigiani, a seguito di processi sommari, furono imprigionati e fucilati nei giorni successivi nelle località limitrofe di Bosco Romagno, Ronchi di Spessa, Restocina e Rocca Bernarda (Prepotto): tra questi Guido Pasolini "Ermes", fratello di Pier Paolo, giunto a Topli Uork il 6 febbraio assieme a un gruppetto di osovani capitanato da "Centina". Condotto assieme a "Cariddi", "Guidone" e "Toni" presso il luogo della sua esecuzione, Pasolini riuscì inizialmente a fuggire mentre scavava la sua propria fossa. Ferito da una fucilata, raggiunse il paese di Sant'Andrat del Judro e quindi la località di Quattroventi dove si fece medicare dal locale farmacista, poi proseguì a piedi per Dolegnano (San Giovanni al Natisone), rifugiandosi in una casa ove viveva Libera Piani, un'anziana donna che gli offrì del caffelatte e una grappa. La donna chiese assistenza medica all'ostetrica locale, figlia del locale responsabile del CLN nonché intendente del battaglione gappista "Ardito". In pochi minuti Pasolini fu quindi nuovamente arrestato dal partigiano Mario Tulissi, che lo riportò ai citati gappisti "Bino" e "Lilly". Trascinato una seconda volta sul luogo dell'esecuzione, Guido Pasolini fu ucciso con un colpo di pistola.
Furono risparmiati due osovani che passarono nei GAP, Leo Patussi "Tin" e Gaetano Valente "Cassino". Questi ultimi, assieme a Bricco, dopo la guerra furono tra i principali accusatori di Toffanin e compagni nei vari processi che si svolsero fra Udine, Venezia, Brescia, Lucca e Firenze. Altri tre osovani – Aroldo Bollina "Gianni", Antonio di Memmo "Pescara" e un terzo del quale si conosce solo il nome di battaglia, "Leo" – giunti alle malghe assieme a "Ermes" con il gruppo di "Centina" il giorno prima dell'attacco, si salvarono fuggendo per tempo avendo percepito il pericolo. Allo stesso modo si salvarono Giulio Emerati, Virgilio Cois, Giuseppe Turco, Giovanni ed Enrico Smerrecar, che per portare armi o viveri stavano risalendo verso le malghe e furono fermati dai gappisti ma rilasciati non essendo ritenuti osovani: con Emerati era il giovane studente in medicina Franco Celledoni "Atteone", che invece fu catturato e in seguito ucciso.

Altri osovani uccisi

Un evento considerato «il prologo dei tragici fatti di Porzûs» ebbe luogo il 16 gennaio 1945, quando altri tre osovani – Antonio Turlon "Make", Annunziato Rizzo "Rinato" e Mario Gaudino "Vandalo" – furono sequestrati a Taipana (UD) da una pattuglia del IX Korpus sloveno di stanza a Platischis: dopo le infruttuose richieste di rilascio da parte di "Bolla", furono fucilati il 12 aprile 1945 nella località di Borij di Rucchin di Drenchia: i nomi di battaglia di tutti e tre compaiono nella lapide in memoria dei trucidati murata a Topli Uork, mentre i nomi dei soli Turlon e Rizzo appaiono nel cippo Ai Martiri della Osoppo di Bosco Romagno (Cividale). Tra i partigiani sfuggiti all'eccidio figura Erasmo Sparacino "Flavio", che però fu catturato in seguito dai tedeschi e fucilato a Cividale il 12 febbraio 1945: il suo nome appare comunque in entrambi i memoriali di cui sopra.

Le vittime

Quello che segue è l'elenco completo degli osovani uccisi dai gappisti, comprendendo fra questi anche Elda Turchetti ed Egidio Vazzaz (erroneamente citato Vazzas negli atti processuali), il cui corpo non fu mai ritrovato[84].
Nome Cognome Nome di guerra Luogo dell'uccisione Data dell'uccisione Note biografiche
Angelo Augelli Massimo Rocca Bernarda 9 febbraio 1945 Nato a Canicattì (AG) il 22 luglio 1923. Effettivo del Gruppo Est Brigate Osoppo Friuli – I Brigata. Il suo corpo è tumulato a Udine.
Antonio Cammarata Toni Bosco Romagno 18 febbraio 1945 Nato a Petraglia (PA) il 23 dicembre 1923. Effettivo del Comando Gruppo Brigate Osoppo Friuli Est – I Brigata Reparto Comando. Tumulato prima a Cividale, poi a Udine.
Franco Celledoni Ateone (Atteone) Rocca Bernarda 12 febbraio 1945 Nato a Faedis il 14 dicembre 1918. Effettivo della II Divisione Osoppo Friuli. Ufficiale medico (studente di medicina), fu catturato dai gappisti mentre si recava a Topli Uork. Tumulato a Faedis.
Giovanni Comin Tigre (o Gruaro) Malghe di Topli Uork 7 febbraio 1945 Nato a Bagnara di Gruaro (VE) nel 1926. Operaio. Garibaldino col nome di Tigre, era fuggito dalla deportazione in Germania ed era stato indirizzato a Topli Uork dal parroco di Vergnacco[62]. Nelle successive ricostruzioni di parte osovana viene arbitrariamente chiamato Gruaro e dichiarato effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – Comando Gruppo Brigata Est – I Brigata – Battaglione Val Torre. Tumulato a Bagnara di Gruaro.
Francesco De Gregori Bolla Malghe di Topli Uork 7 febbraio 1945 Nato a Roma il 10 giugno 1910. Capitano degli alpini. Comandante del Gruppo Brigate Osoppo dell'Est. Tumulato a Udine.
Enzo D'Orlandi Roberto Bosco Musich – Restocina 12 febbraio 1945 Nato a Cividale del Friuli il 3 febbraio 1923. Studente. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – VI Brigata – Battaglione Julio. Tumulato a Cividale del Friuli.
Pasquale Mazzeo Cariddi Bosco Romagno 18 febbraio 1945 Nato a Messina il 9 maggio 1914. Già brigadiere della Guardia di Finanza prima di entrare nella Osoppo. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata Reparto Comando. Tumulato a Udine.
Gualtiero Michielon[85] Porthos Bosco Musich – Restocina 8-18 febbraio 1945 Nato a Portogruaro (VE) il 17 luglio 1920. Studente. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata Reparto Comando. Tumulato a Portogruaro.
Guido Pasolini Ermes Bosco Romagno 12 febbraio 1945 Nato a Bologna il 4 ottobre 1925. Studente. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – VI Brigata – Vice delegato Polizia di Brigata. Tumulato a Casarsa della Delizia (PN).
Antonio Previti Guidone Bosco Romagno 18 febbraio 1945 Nato a Messina il 13 gennaio 1919. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – VI Brigata – Battaglione Zanon. Carabiniere a Zara prima di entrare nella Osoppo. Tumulato a Udine.
Salvatore Saba Cagliari Bosco Romagno o Restocina 9 febbraio 1945 Nato a Serdiana (CA) il 22 luglio 1921. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata – Battaglione Zanon. Tumulato a Udine.
Giuseppe Sfregola Barletta Ronchi di Spessa 7 o 8 febbraio 1945 Nato a Barletta il 31 ottobre 1921. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata – Battaglione Zanon. Ucciso prima che iniziassero gli interrogatori, prima di entrare nella Osoppo era brigadiere dei Carabinieri. Tumulato a Barletta.
Primo Targato Rapido Bosco Romagno 10 febbraio 1945 Nato a Piombino Dese (PD) il 1º luglio 1923, residente a Novate Milanese. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata – Reparto Comando. Tumulato a Udine, il suo corpo in seguito venne traslato a Milano.
Elda Turchetti Livia Malghe di Topli Uork 7 febbraio 1945 Nata a Povoletto (UD) il 21 dicembre 1923. Cotoniera. Ex prigioniera della Osoppo, effettiva della I Brigata Osoppo. Tumulata a Savorgnano al Torre (UD).
Giuseppe Urso Aragona Bosco Musich – Restocina 10 febbraio 1945 Nato ad Aragona (AG) il 1º giugno 1923. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata – Battaglione Zanon. Tumulato a Udine, traslato poi a Canicattì (AG).
Gastone Valente Enea Malghe di Topli Uork 7 febbraio 1945 Nato a Udine il 30 ottobre 1913. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli, azionista, delegato politico della VI Brigata Osoppo. Tumulato a Udine.
Egidio Vazzaz (Vazzas) Ado Località ignota 7 febbraio 1945 ? Nato a Taipana (UD) il 10 settembre 1919. Muratore. Effettivo della III Divisione Osoppo Friuli – I Brigata – Battaglione Zanon. Il suo corpo non venne mai recuperato. Si presume che sia stato ucciso nelle vicinanze delle malghe di Topli Uork.

Le prime notizie dell'eccidio e le reazioni

Nei giorni immediatamente seguenti all'eccidio, scoperto da alcuni abitanti del luogo, le notizie si accavallarono confuse: la direzione della federazione del PCI di Udine fece circolare la voce secondo la quale l'attacco fosse opera di forze tedesche o fasciste. Qualche giorno dopo la Gioventù Antifascista Italiana e Slovena, un'organizzazione politica che propugnava l'annessione della zona alla Jugoslavia, organizzò a Circhina una conferenza cui parteciparono alcuni garibaldini della Natisone, nel corso della quale fu annunciata la soppressione del comando osovano senza peraltro specificare a opera di chi: vi furono applausi e grida di entusiasmo, giacché fra i garibaldini era opinione diffusa che gli osovani fossero dei reazionari in combutta con i fascisti.

La relazione di Toffanin, Plaino e Juri

Il 10 febbraio Mario Toffanin (che in tale occasione si firmò col suo secondo nome di guerra "Marino") e i suoi sottoposti, Aldo Plaino "Valerio" e il citato Vittorio Juri "Marco", stilarono una relazione indirizzata alla federazione comunista di Udine e al comando del IX Korpus sloveno tramite Giovanni Padoan "Vanni" e Mario Blason "Bruno" (vicecommissario politico della Garibaldi Natisone), in cui sostennero che l'esecuzione aveva avuto «pieno consenso della Federazione del partito», accusando i partigiani della Osoppo di essere dei traditori venduti a fascisti e tedeschi, aggiungendo il particolare secondo il quale "Bolla", in punto di morte, avrebbe inneggiato al «fascismo internazionale». I tre comandanti gappisti scrissero degli osovani che «esaminati attentamente uno a uno, abbiamo notato che essi non erano altro che figli di papà, delicati attendisti che se la passavano comodamente in montagna». Nella parte finale della relazione "Marino", "Valerio" e "Marco" invitarono i «comandi superiori» a «estirpare del tutto queste formazioni reazionarie». I tre allegarono un documento indicante ulteriori obiettivi da tenere in considerazione: fra di essi Candido Grassi "Verdi" (definito «pericolosissimo») e don Aldo Moretti "Lino". Nel corso del successivo processo le difese di alcuni imputati affermarono che tale relazione venne stilata in data successiva, al fine di far apparire un'iniziativa autonoma di "Giacca", "Valerio" e "Marco" quella che invece era stata l'esecuzione di precisi ordini superiori. In anni più recenti, "Vanni" confermò l'autenticità del documento, ma affermò di non averlo mai visto all'epoca. La ricercatrice storica Alessandra Kersevan – considerando che la relazione venne procurata grazie ad un furto ad una sede dell'ANPI da parte di alcuni osovani – insinuò invece che potesse essere stata prodotta da questi ultimi.

Le inchieste partigiane

Lo stesso giorno in cui Toffanin inviò la sua relazione il comando della Osoppo affidò l'incarico di compiere una prima indagine ad Agostino Benetti "Gustavo", che in pochi giorni appuntò i propri sospetti sui comunisti. Informati i superiori, questi interessarono il CLN provinciale, che in una riunione del 21 febbraio – in assenza del rappresentante comunista – incaricò un rappresentante del Partito d'Azione e uno della Democrazia Cristiana di svolgere ulteriori accertamenti. Fu avvisato il Comitato Regionale Veneto (CRV), il quale avocò a sé l'inchiesta: il 5 marzo successivo il CLN provinciale sospese quindi la propria indagine. Il CRV istituì una nuova commissione, formata da un rappresentante del Partito d'Azione (Luciano Commessatti "Gigi"), uno della DC e un terzo del PCI. Il 12 marzo Commessatti s'incontrò con i garibaldini Ostelio Modesti "Franco", segretario della federazione del PCI di Udine, e il citato "Ultra", vicesegretario: quest'ultimo affermò che l'azione delle malghe di Topli Uork era stata «un colpo di testa di "Giacca"». Organizzato un successivo incontro con i capi garibaldini aperto anche ai comandanti osovani, Commessatti si poté incontrare solo con i primi, giacché i dirigenti osovani erano stati tutti arrestati dai tedeschi nel corso di una riunione indetta per organizzare l'incontro con i garibaldini. A seguito di quell'arresto di massa, i partigiani sloveni diffusero un volantino nella bassa friulana, in cui si legge che

« I resti di quella che era la Brigata Osoppo, che si è lasciata annientare dal tiranno nazifascista pur di non cercare aiuto in una quanto mai opportuna fusione con le forze di liberazione comuniste del generale Tito sono ormai senza capi. Essi non sono più combattenti per la libertà, ma falliti politici (…), essi non sono più partigiani! Perché non hanno voluto sottostare agli ordini del Maresciallo Tito Comandante in Capo delle Forze di Liberazione, sono stati abbandonati alla loro sorte e sono stati logicamente sconfitti. I superstiti che ancora vagano per le campagne non sono autorizzati da alcuna autorità competente. Coloro che non dimostrano di essere regolarmente inquadrati nelle Osvobodilne Brigate non devono ricevere nessun aiuto dalla popolazione. La popolazione che lo farà imparerà a conoscere la potenza di Tito (…) »

L'incontro fra la commissione e i capi garibaldini Lino Zocchi "Ninci" (comandante del gruppo Divisioni Garibaldi del Friuli), Mario Lizzero "Andrea" (commissario politico delle brigate Garibaldi in Friuli), Modesti e Valerio Stella "Ferruccio" (comandante della Brigata Garibaldi Friuli) si svolse in un clima molto teso. La tesi nuovamente propugnata dai garibaldini a Commessatti fu quella del colpo di testa di Toffanin, ma i capi comunisti impedirono alla commissione di interrogarlo, rassicurando che avrebbero provveduto loro alla sua «giusta punizione». La commissione si trovò quindi ad un punto morto: mancando la relazione ufficiale della Osoppo a causa dell'arresto dei suoi capi, i garibaldini si rifiutarono di mettere per iscritto le loro informazioni e, a quel punto, l'unico documento in mano ai commissari fu una relazione degli osovani Alfredo Berzanti "Paolo" (in seguito deputato democristiano) ed Eusebio Palumbo "Olmo": il membro comunista della commissione si rifiutò però di accettarla perché «di parte».
Il 31 marzo 1945 il CLN invitò i comandi osovani e garibaldini a nominare un'altra commissione paritetica d'inchiesta, nella speranza non solo di chiarire l'episodio di Topli Uork, ma anche di conoscere la sorte – ancora ignota – degli altri osovani arrestati da "Giacca" e i suoi uomini. Il 3 aprile successivo si ritrovarono "Verdi" e Giovanni Battista Carron "Vico" per la Osoppo insieme a Ostelio Modesti per i garibaldini; quest'ultimo cambiò radicalmente la versione precedentemente sostenuta da Tambosso, affermando che l'attacco alle malghe era stata opera di fascisti camuffati da partigiani, così com'era stato annunciato dalla radio, che tuttavia aveva in quei giorni fatto riferimento a un episodio avvenuto nella zona del Collio, distante da Porzûs. Modesti passò all'attacco, accusando gli osovani di non essersi adoperati con le popolazioni friulane per propagandare la figura di Tito, del quale si aspettava l'entrata da liberatore a Udine. Alla fine della discussione si decise di nominare l'ennesima commissione formata da un osovano, un garibaldino e un rappresentante del CLN come presidente. Per tali incarichi furono designati rispettivamente il citato Berzanti, Valeriano Rossitti "Piero" e il liberale Manlio Gardi "Bruto". Per vari motivi, tuttavia, quest'ultima commissione non s'insediò mai e, mentre gli osovani chiesero a varie riprese di andare a fondo della questione, i garibaldini misero in campo una serie di atteggiamenti dilatori. La successiva insurrezione di aprile/maggio 1945 fece passare in secondo piano l'indagine.
Durante queste vicende all'interno delle forze partigiane comuniste sorse una reazione all'operato del gruppo di Toffanin. Mario Lizzero, venuto a sapere dell'eccidio, propose la condanna a morte per Toffanin e i suoi uomini, ma questi in un primo tempo non ricevettero alcuna sanzione, venendo solamente destituiti dalle loro posizioni di comando nei GAP ad aprile del 1945, oltre due mesi dopo l'attacco. Secondo la ricostruzione di "Vanni", Lizzero sarebbe stato invece il grande artefice della strategia difensiva del partito comunista, tendente a colpevolizzare il solo Toffanin, per impedire che si arrivassero a scoprire i veri mandanti dell'eccidio, cioè il IX Korpus sloveno che aveva ordinato l'operazione alla federazione del PCI di Udine. Fatto arrestare Toffanin il 20 febbraio 1945 e condannatolo alla fucilazione, Lizzero inaspettatamente lo liberò a seguito di un incontro a quattr'occhi, rifiutandosi poi di rivelare il contenuto del loro colloquio. Secondo Padoan, in quell'occasione «"Giacca" confessò ad "Andrea" che l'ordine dello sterminio gli era stato dato dal Comando Sloveno». Contestualmente – riferisce "Vanni" – Lizzero sviò le indagini subito ordinate dal Comitato Regionale Veneto, impedendo a Luciano Commessatti "Gigi" di interrogare Toffanin, tanto che, tornato a Padova, "Gigi" denunciò la non collaborazione di Lizzero e di "Ninci". Nel 2011 il tribunale di Udine, nell'ambito di un procedimento di primo grado per diffamazione contro l'imprenditore e politico locale Diego Volpe Pasini, ha però sancito «che non risponde al vero che la responsabilità, neppure politica, [dell'eccidio di Porzûs] sia da ricondurre all'allora segretario del Pci [Mario Lizzero]». I dirigenti della federazione del PCI di Udine Modesti e Tambosso sostennero, sia all'epoca che in seguito, che la responsabilità dell'azione fosse da imputarsi interamente a Toffanin, il quale non avrebbe interpretato correttamente gli ordini.

I processi

Verso metà giugno i corpi dei trucidati di Bosco Romagno vennero ritrovati dai parenti. Il 21 giugno 1945 si svolsero i funerali delle vittime a Cividale del Friuli. Il 23 giugno, gli osovani Grassi (all'epoca socialista, in seguito deputato socialdemocratico) e Berzanti presentarono una denuncia al Procuratore del Regno di Udine, a nome del Comando del Gruppo Divisioni "Osoppo Friuli".

Il processo di primo grado

Confronto tra i commenti alle sentenze di primo grado dei quotidiani La Stampa e l'Unità: il primo evidenzia le pesanti condanne, il secondo pone in rilevo l'assoluzione dal reato di tradimento, con l'occhiello che recita: «I garibaldini della Natisone escono a testa alta dall'aula»
Confronto tra i commenti alle sentenze di primo grado dei quotidiani La Stampa e l'Unità: il primo evidenzia le pesanti condanne, il secondo pone in rilevo l'assoluzione dal reato di tradimento, con l'occhiello che recita: «I garibaldini della Natisone escono a testa alta dall'aula»
Il 13 dicembre 1948 la procura di Venezia chiuse l'istruttoria penale con rinvio a giudizio di 45 imputati davanti alla corte d'assise di Udine per rispondere dei delitti di omicidio aggravato continuato e saccheggio. Per legittima suspicione la Corte di Cassazione trasferì il procedimento a Brescia, dove il dibattimento ebbe inizio il 9 gennaio 1950. Rinviata la causa a nuovo ruolo per permettere al pubblico ministero di contestare altri reati agli imputati, il processo fu trasferito una seconda volta per legittima suspicione avanti la corte d'assise di Lucca, dove nel settembre 1951 ricominciò la fase dibattimentale.
Gli imputati erano nel frattempo saliti a 51, ma 18 erano da tempo fuggiti in Jugoslavia o in Cecoslovacchia:

fra questi Mario Toffanin "Giacca", Felice Angelini "Fuga", Bruno Grion "Falchetto", Vittorio Iuri (Juri) "Marco", Leonida Mazzaroli "Silvestro", Fortunato Pagnutti "Dinamite", Bruno Pizzo "Cunine", Antonio Mondini "Boris", Adriano Cernotto "Ciclone", Gustavo Bet "Gastone", Italo Zaina "Nullo", Aldo Plaino "Valerio"[108] e Giovanni Padoan "Vanni".

Il 6 aprile 1952 vi fu la prima sentenza: Mario Toffanin, Vittorio Juri e Alfio Tambosso furono condannati all'ergastolo; Aldo Plaino e Ostelio Modesti a trent'anni di reclusione ciascuno. Nel complesso, furono irrogati tre ergastoli e 704 anni, 2 mesi e 10 giorni di reclusione a quarantuno imputati, ridotti a 289 per l'applicazione di una serie di condoni previsti da norme entrate in vigore nel frattempo. Per effetto di ciò Toffanin e Juri si videro ridotta la pena a trent'anni, Tambosso a ventinove, Modesti a nove e Plaino a dieci. Dieci imputati furono assolti, fra di essi Lino Zocchi "Ninci", Mario Fantini "Sasso" (già comandante della Divisione Garibaldi Natisone), Valerio Stella "Ferruccio" (già comandante della Brigata Garibaldi Friuli) e Giovanni Padoan "Vanni". Tutti gli imputati furono assolti dal reato di tradimento per attentato all'integrità dello Stato.

Il processo d'appello

Il processo di secondo grado si svolse presso la corte d'assise d'appello di Firenze, cui si erano appellate le parti per motivi opposti: la pubblica accusa per un inasprimento generale delle pene e per il riconoscimento del reato di tradimento, le difese per chiedere l'assoluzione piena.
La sentenza del 30 aprile 1954 decretò che «la strage (…) fu un atto tendente a porre una parte del territorio italiano sotto la sovranità jugoslava», ma assolse gli imputati per il reato di tradimento in quanto «pur essendo [l'azione degli imputati] subiettivamente ed obiettivamente diretta al fine del tradimento» non determinò «una situazione di pericolo per l'interesse dello Stato al mantenimento della sua integrità territoriale». La corte si pronunciò anche in merito alle accuse di collaborazionismo mosse alla Osoppo da Toffanin, concludendo che non esistesse alcuna prova in tal senso e rimarcando non solo l'inesistenza di accordi con tedeschi e fascisti, ma anche la «profonda avversione verso il nazifascismo» di "Bolla".
Furono confermate le pene precedentemente inflitte dalla corte d'assise di Lucca per i reati principali e inasprite le pene per i reati di sequestro di persona e saccheggio. Giovanni Padoan, in assise assolto per insufficienza di prove, fu condannato a trent'anni di reclusione, ridotti a due per effetto delle varie amnistie e condoni. A causa di tali provvedimenti legislativi, nessuno dei condannati presenti al processo finì detenuto, mentre una parte di essi continuò la latitanza all'estero.
Il procuratore generale di Firenze impugnò la sentenza presso la Cassazione, chiedendo l'annullamento dell'assoluzione per il reato di tradimento per aver attentato all'integrità dello Stato nei confronti di Juri, Modesti, Padoan, Paino, Tambosso, Toffanin, Zocchi e Fantini. Nei confronti degli ultimi due fu chiesto anche l'annullamento della sentenza di assoluzione per insufficienza di prove per il reato di omicidio, sequestro di persona e rapina. Analogamente impugnarono la sentenza gli imputati per chiedere nuovamente l'assoluzione.

Il processo in Cassazione

Il 18 giugno 1957 iniziò la discussione dell'impugnazione della sentenza di secondo grado presso la Corte di Cassazione: il Procuratore Generale, in linea con le richieste della procura di Firenze, chiese il rigetto del ricorso degli imputati e un nuovo processo per il reato di tradimento. Il giorno seguente la Corte accolse in toto le tesi dell'accusa confermando le sentenze, che divennero così definitive, per gli omicidi e i reati minori connessi, ma ordinando al contempo l'istruzione di un nuovo processo presso la corte d'assise d'appello di Perugia per il solo reato di tradimento per attentato contro l'integrità dello Stato per tutti gli imputati più importanti, nonché per il reato di omicidio, rapina e sequestro di persona per Zocchi e Fantini.

Il nuovo processo a Perugia

Fra la sentenza della Cassazione e l'apertura del procedimento a Perugia fu emanato l'11 luglio 1959 un decreto presidenziale di amnistia che coprì anche i reati di natura politica, intendendo con ciò anche ogni delitto comune determinato – in tutto o in parte – da motivi politici. Pervenuti quindi gli atti nel capoluogo umbro, il procuratore generale di Perugia chiuse la fase istruttoria rilevando l'estinzione del reato per sopraggiunta amnistia per tutti gli imputati (sentenza dell'11 marzo 1960). Pur avendone titolo ai sensi dell'art. 14 del citato decreto, nessun imputato esercitò il diritto alla rinuncia al beneficio al fine di farsi giudicare. Questo fu l'ultimo della lunga catena di atti processuali relativi alle vicende legate all'eccidio di Porzûs.

La sorte degli imputati

Nessuno dei condannati scontò pene in carcere salvo il periodo della detenzione in attesa della conclusione del processo, che in alcuni casi si protrasse per qualche anno. Alcuni fra i principali imputati riparati all'estero vi rimasero anche dopo la fine delle loro vicende processuali:
Mario Toffanin "Giacca" (condannato all'ergastolo), contumace, si trasferì in Jugoslavia alla fine della guerra. Spostatosi in Cecoslovacchia a seguito del conflitto fra Tito e Stalin del 1948, ritornerà in Slovenia nel 1967. Condannato ad altri trent'anni di pena per reati non coperti dall'amnistia del 1959 commessi fra il 1940 e il 1946 – furto, rapine, estorsioni e omicidi, anche ai danni di una compagna di lotta – non fece ritorno in Italia neppure nel luglio 1978 nonostante la grazia concessagli dal presidente Sandro Pertini da poco insediatosi al Quirinale. Visse per anni a Scoffie (frazione di Capodistria) continuando a percepire la pensione italiana e morì a Sesana il 22 gennaio 1999. Più volte intervistato dalla stampa italiana negli anni successivi alla fuga, si dichiarò sempre certo del tradimento della Osoppo: ribadì più volte la correttezza delle sue azioni e continuò ad accusare gli osovani, tra le altre cose, di aver inglobato al proprio interno molti uomini appartenenti a gruppi fascisti, di aver collaborato attivamente con reparti della RSI, nonché di aver spesso trattenuto le forniture di armi e attrezzature britanniche che secondo gli accordi spettavano ai garibaldini

Vittorio Juri "Marco" (ergastolo) visse il resto della propria vita a Capodistria, maturando la pensione italiana e gestendo un bar.

Alfio Tambosso "Ultra" (ergastolo) si stabilì a Lubiana (Slovenia) dove acquisì una buona fama come mosaicista, tornando in Italia di tanto in tanto dopo l'amnistia del 1959.

Ostelio Modesti "Franco" (30 anni), scarcerato nel 1954, fu in seguito segretario del PCI per la provincia di Matera, e poi funzionario della federazione del PCI di Belluno.

Giovanni Padoan "Vanni" (30 anni) nel 1950 fu eletto segretario dell'ANPI di Udine, poi fino all'assoluzione di Lucca riparò all'estero. Nel 1954 fu eletto segretario regionale dell'ANPI del Veneto. Dopo la condanna di Firenze fuggì nuovamente, per ritornare in Italia dopo l'amnistia. Gestì un negozio di mercerie a Cormons e fece parte del direttivo dell'Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione.

Aldo Plaino "Valerio" (30 anni) rientrò dal Territorio libero di Trieste in Italia a seguito dell'amnistia: fece l'autista, poi una volta pensionato si ritirò a Buttrio.

Lorenzo Deotto "Lilly" (22 anni e 8 mesi) visse a Zagabria (Croazia), dove fece il vetraio.

Leonida Mazzaroli "Silvestro" (22 anni e 8 mesi) riparò in Francia e non rientrò più in Italia.

Urbino Sfiligoi "Bino" (22 anni e 8 mesi), rientrato dalla Jugoslavia dopo l'amnistia, fece il minatore ad Albana (Prepotto).

Tullio Di Gaspero "Osso" (20 anni e 8 mesi) rimase in carcere dal 1949 al 1959, poi tornò in Friuli a lavorare come artigiano nella lavorazione delle sedie.

Adriano Cernotto "Ciclone" (18 anni) si spostò definitivamente a Umago (Croazia), dove fece l'albergatore e morì.

Giorgio Julita "Jolly" (18 anni) fu arrestato nel 1949, ma in seguito visse fra l'Italia e la Jugoslavia, morendo in giovane età.

Venuto Mauri "Piero" (18 anni) visse in Jugoslavia e non tornò in Italia dopo l'amnistia.

Mario Giovanni Ottaviano "Bibo" (18 anni) dopo l'aministia aprì un negozio di mercerie a Trivignano Udinese.

Fortunato Pagnutti "Dinamite" (18 anni) visse in Italia lavorando come operaio edile e morì all'inizio degli anni settanta.

Giorgio Sfiligoi "Terzo" (18 anni) visse il resto della sua vita in un paesino in Slovenia, ai confini col Collio friulano.

Gustavo Bet "Gastone" (assolto per non aver commesso i fatti per alcuni omicidi, per insufficienza di prove per altri) rimase latitante fino all'amnistia, poi si stabilì a Lignano Sabbiadoro, dove divenne albergatore.

La medaglia d'oro a De Gregori

A Francesco De Gregori fu riconosciuta, nel 1945, la medaglia d'oro al valor militare alla memoria, con una motivazione contenente la seguente frase: «Cadeva vittima della tragica situazione creata dal fascismo ed alimentata dall'oppressore tedesco in quel martoriato lembo d'Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza» che, non facendo alcun riferimento all'eccidio e ai suoi esecutori, fu molti anni dopo considerata «ineffabile», «reticente» o indice di «contorsionismo».

I mandanti e le motivazioni dell'eccidio

Nel corso dei decenni varie ipotesi (talora radicalmente divergenti tra loro e che propongono letture totalmente antitetiche degli eventi) sono state avanzate sui mandanti dell'eccidio e sulle sue motivazioni, spesso in corrispondenza con la scoperta di nuovi documenti o con l'apertura di nuovi filoni giudiziari. Alcuni fra gli stessi protagonisti dei fatti, col passare del tempo, hanno modificato anche in maniera notevole le proprie precedenti dichiarazioni, rendendo il quadro ancor più difficile da interpretare.

Le versioni di Toffanin

Mario Toffanin "Giacca", principale responsabile materiale dell'eccidio di Porzûs, rilasciò una serie di interviste negli anni novanta, nel corso delle quali mantenne alcuni punti fermi: la Osoppo era responsabile di aver intrattenuto rapporti con la Decima Mas e con i tedeschi e stava organizzando l'eliminazione del comando GAP; l'organizzazione della missione alle malghe di Topli Uork era stata solo sua; l'eccidio fu un legittimo atto di guerra, giustificato dal tradimento degli osovani e causato dall'impeto rabbioso derivante dall'aver visto la spia Elda Turchetti presso il comando partigiano: un'azione che Toffanin avrebbe sempre rifatto tale e quale, senza alcun ripensamento; il processo fu una manovra, ordita dai democristiani. Altri aspetti vennero invece raccontati in modo difforme: fra gli altri, in un'intervista a Radio Radicale del 1992 Toffanin raccontò d'esser salito a Topli Uork dopo aver saputo da alcuni comandanti gappisti che gli osovani avevano ucciso cinque partigiani garibaldini; mentre nel 1997 affermò che i partigiani uccisi dagli osovani erano due e l'informatore sarebbe stato «un contadino».
In tali interviste Toffanin cambiò però completamente la propria versione rispetto a quanto aveva dichiarato nella relazione scritta a ridosso del fatto: le strutture del PCI non risultavano più coinvolte in nessuna fase dell'evento e si disconosceva l'esistenza di un qualsiasi ordine superiore relativamente alla missione e ai suoi scopi. Interrogato sulla discrepanza, nel 1992 Toffanin affermò che la relazione del 1945 era in realtà un falso.

La tesi dei mandanti sloveni

L'ipotesi che nella storiografia italiana ha via via preso più vigore, anche sulla scorta delle risultanze processuali, le quali hanno espressamente indicato come il passaggio dei garibaldini della Natisone alle dipendenze del IX Korpus, la propaganda filojugoslava svolta nei confronti di formazioni partigiane e l'eccidio di Porzûs facessero parte di un medesimo disegno avente come scopo ultimo la cessione di parti dello Stato italiano alla Jugoslavia, e infine dell'apertura di una serie di archivi prima inaccessibili, attribuisce la motivazione dell'eccidio a una sorta di "pulizia preventiva" contro gli oppositori, reali o potenziali, del regime comunista jugoslavo che secondo i disegni espansionistici di Tito avrebbe dovuto annettere anche i territori friulani e giuliani prossimi all'attuale confine, comprendenti il Goriziano, la Slavia veneta e la striscia costiera che da Trieste va fino a Monfalcone. La stessa dinamica avrebbe portato anche ai massacri delle foibe, nelle quali furono eliminati – fra l'altro – centinaia di italiani considerati contrari all'annessione jugoslava.

La tesi secondo la quale l'eccidio di Porzûs sia imputabile agli sloveni trovò alcune indirette conferme documentali: esso fu anche preannunciato in un rapporto al Foreign Office pervenuto pochi giorni prima della strage. In tale rapporto un ufficiale di collegamento britannico al seguito dei partigiani sloveni operanti nell'Italia nordorientale aveva reso noto che l'unità cui era aggregato aveva catturato alcuni partigiani della Osoppo e che, alle sue rimostranze, il comandante sloveno aveva risposto di avere agito in base a ordini superiori. L'autore del rapporto aveva espresso quindi l'opinione che gli sloveni avevano l'intenzione di attaccare il comando generale delle brigate Osoppo. Lo stesso "Bolla", nel suo rapporto del 17 gennaio 1945 che denunciò il rapimento di "Make", "Rinato" e "Vandalo" da parte del IX Korpus, affermò che «certamente, nei prossimi giorni tali atti di inqualificabile violenza (…) si ripeterà (sic) a danno dei nostri piccoli distaccamenti di Prossenicco e Canebola, fino a quando si ripeterà, come logica conclusione di una linea di condotta che ormai appare fin troppo chiara, contro questo Comando stesso».
Fra gli autori che hanno in vario modo contribuito a questa ricostruzione dei fatti o l'hanno fatta propria almeno in senso generale, sono da ricordare Elena Aga Rossi, Alberto Buvoli, Marina Cattaruzza, Sergio Gervasutti, Tommaso Piffer, Raoul Pupo e altri.
L'ex commissario politico della Divisione Garibaldi Natisone Giovanni Padoan "Vanni", condannato sia in appello che in Cassazione, fin dagli anni sessanta intraprese un percorso di revisione delle interpretazioni allora in voga nel PCI riconoscendo la sostanziale fondatezza del verdetto di Lucca e rimarcando in modo sempre più deciso la responsabilità nella strage dei vertici del partito in Friuli e del IX Korpus sloveno. Il 23 agosto 2001, durante un tentativo di riconciliazione fra garibaldini e osovani (peraltro non sostenuto in modo convincente dall'ANPI e dall'Associazione Partigiani Osoppo) che vide il suo abbraccio alle malghe di Topli Uork col sacerdote ed ex partigiano osovano don Redento Bello "Candido", "Vanni" lesse una dichiarazione che ebbe il valore di un'assunzione di «responsabilità oggettiva» per sé e la sua parte politica, indicando espressamente mandanti ed esecutori:

« L'eccidio di Porzus e del Bosco Romagno, dove furono trucidati 20 partigiani osovani, è stato un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione. E la corte d'assise di Lucca ha fatto giustizia condannando gli autori di tale misfatto. Benché il mandante di tale eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Korpus, gli esecutori, però, erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla Federazione del PCI di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto e siccome i GAP erano formazioni garibaldine, quale dirigente comunista d'allora e ultimo membro vivente del Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli", assumo la responsabilità oggettiva a nome mio personale e di tutti coloro che concordano con questa posizione. E chiedo formalmente scusa e perdono agli eredi delle vittime del barbaro eccidio. Come affermò a suo tempo lo storico Marco Cesselli, questa dichiarazione l'avrebbe dovuta fare il Comando Raggruppamento divisioni "Garibaldi-Friuli" quando era in corso il processo di Lucca. Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile. »

(Giovanni Padoan, 2001)

La tesi filojugoslava

La storiografia jugoslava non produsse alcuno studio sull'eccidio di Porzûs. Così com'era stata reclamata alla fine della Grande Guerra, la Slavia veneta fu richiesta ufficialmente dagli jugoslavi anche al termine della seconda guerra mondiale: era comune ritenere – come affermò nel 1995, dopo la fine della Federativa, il primo ministro sloveno Janez Janša nel corso della prima celebrazione della Festa del ritorno del Litorale Sloveno alla madrepatria – che se «il regime jugoslavo non avesse trascinato il Paese al di là della cortina di ferro, avremmo potuto contare anche su Trieste, Gorizia e la Slavia veneta».
Sempre dal punto di vista filojugoslavo, in anni più recenti la tematica è stata brevemente ripresa, tra gli altri, dallo storico triestino Jože Pirjevec, nell'ambito di un saggio dedicato ai massacri delle foibe che ha creato una lunga serie di polemiche.
Secondo Pirjevec, nelle speranze dei comunisti sloveni e italiani l'impeto rivoluzionario comune avrebbe dovuto espandersi in tutto il nord Italia, vagheggiando addirittura che tutte le Divisioni Garibaldi «nell'Italia propriamente detta» si assoggettassero al Fronte di liberazione sloveno. La Osoppo, costituendo un movimento resistenziale "bianco", per opporsi a queste mire avrebbe intrattenuto rapporti diplomatici con la Wehrmacht, con i collaborazionisti cosacchi e con la Decima Mas. Pirjevec per primo riportò la notizia secondo la quale cinque partigiani garibaldini sarebbero stati uccisi da membri della Osoppo quando fu diffusa la notizia della loro adesione al IX Korpus sloveno, ma da una verifica successiva risultò che il documento contenuto in uno degli archivi di stato russi citato dallo storico triestino a sostegno della propria affermazione in realtà non parla di «conflitti fra partigiani comunisti e partigiani democratici sul confine orientale italiano nel 1945»[153]. Sempre secondo Pirjevec, in Friuli si sarebbero manifestate delle «tendenze separatistiche (…), dove alcuni circoli pensavano di staccarsi dall'Italia e aderire come entità autonoma alla Jugoslavia». In tale contesto sarebbe avvenuto il «fatto tragico» dell'attacco gappista di Porzûs, del quale il IX Korpus sarebbe stato completamente ignaro, ma visto il successivo asilo prestato in seguito a Toffanin dagli sloveni, sarebbero sorte delle «voci tendenziose (…) che la strage fosse stata voluta da loro», il che avrebbe contribuito a far assumere al fatto, «marginale pur nella sua tragicità», delle «dimensioni sproporzionate».

Altre ricostruzioni

Le ipotesi di Aldo Moretti

Monsignor Aldo Moretti "Lino", medaglia d'oro al valor militare e tra i fondatori delle Divisioni Osoppo, pur ritenendo che l'eccidio di Porzûs fosse stato compiuto «…nell'interesse della causa slovena (…) con l'indispensabile consenso degli uomini del PCI», espresse anche l'opinione secondo la quale gli Alleati – in particolare i servizi segreti britannici – pensando già al dopoguerra e temendo la collaborazione tra i partigiani cattolici e quelli comunisti, avessero cercato di dividere quel fronte fino a sacrificare la Osoppo per mano delle formazioni comuniste oramai al servizio degli jugoslavi (considerati a questo punto futuri nemici più che attuali alleati), al fine di screditarle. Le stesse denunce di Radio Londra contro Elda Turchetti, oltre ad un certo tergiversare da parte dell'ufficiale inglese Thomas Rowort "Nicholson" nel gestire le (poi rifiutate) proposte di alleanza in chiave anti-jugoslava da parte della Xª MAS, sarebbero rientrate in tale strategia.
L'ipotesi di Moretti del coinvolgimento dei servizi segreti britannici nell'eccidio di Porzûs non fu in seguito approfondita dalla storiografia internazionale, se non da alcuni autori – segnatamente Alessandra Kersevan e Goradz Bajc – in termini più ampi, laddove le attività di detti servizi segreti vengono inserite in un quadro di doppi e tripli giochi comprendente svariati altri attori.

Le ipotesi di Alessandra Kersevan e Gorazd Bajc

In un libro apparso nel 1995, la ricercatrice friulana Alessandra Kersevan sottopose ad analisi una parte dei documenti e delle testimonianze all'epoca apparsi, il tutto presentato in maniera discorsiva come se si trattasse di un lungo colloquio fra due ricercatori. Alla luce di una serie di fatti contemporanei e successivi all'eccidio, Kersevan ipotizzò che nella vicenda di Porzûs vi fosse stato un massiccio intervento manipolatorio dei servizi segreti militari angloamericani in combutta con quelli italiani, in un quadro di doppi e tripli giochi che coinvolsero il PCI, l'ignaro Toffanin – che quindi sarebbe stato strumento inconsapevole dell'imperialismo statunitense – nonché la Decima Mas di Junio Valerio Borghese. Nelle estreme terre nordorientali italiane si sarebbe quindi giocato fin dal 1944-1945 un prodromo della guerra fredda postbellica, con fortissime infiltrazioni fasciste repubblicane all'interno del movimento partigiano friulano, al fine ultimo di impedire il saldarsi dei movimenti comunisti sloveni e italiani in un moto rivoluzionario esteso al Nord Italia, gettando il discredito sui partigiani jugoslavi anche con altre contestuali campagne di disinformazione e manipolazione, come quella dei massacri delle foibe. In tal quadro il IX Korpus sloveno sarebbe quindi stato contemporaneamente spettatore e vittima, mentre i comandi della Osoppo sarebbero stati in realtà conniventi con i nazisti e la Decima Mas in funzione anticomunista e antislava, con la collaborazione occulta ma attiva delle potenze occidentali e la benedizione della chiesa cattolica locale, coinvolta fin nelle sue più alte gerarchie.
Tale gigantesca operazione sarebbe poi continuata col processo, considerato dalla Kersevan una montatura basata in gran parte su testimonianze e documenti falsi o manipolati, compresi fra gli altri non solo il rapporto sui fatti stilato da "Giacca" e i suoi, ma anche la famosa lettera di accusa agli sloveni e ai garibaldini che Guido Pasolini spedì al fratello Pierpaolo a novembre del 1944 e che fu poi trasmessa da quest'ultimo alle autorità inquirenti. Il tutto non sarebbe stato che il prodromo delle attività di Gladio, con varie connessioni con la mafia, la P2 e lo stragismo di Stato. A partire dagli anni novanta, a rafforzare tutto ciò – sempre secondo Kersevan – si sarebbe saldata un'altra manovra tutta politica a opera degli eredi del PCI (PDS, poi DS) e dei fascisti (AN): una «convergenza destra-sinistra tesa a ricostruire un immaginario condiviso anticomunista. Non è un caso che il film Porzûs di Renzo Martinelli sia stato finanziato dall'allora governo di centro-sinistra, cioè dal ministro della cultura Walter Veltroni, ma apprezzato anche a destra». Kersevan sostiene che, con la fuga in Jugoslavia e in altri paesi socialisti degli imputati del processo condannati per vari reati, sarebbe stata costretta ad andarsene dal Friuli «la meglio gioventù».
Una simile linea interpretativa è stata proposta anche dallo storico triestino dell'Università del Litorale di Capodistria Gorazd Bajc: eccidio di Porzûs e massacri delle foibe sarebbero delle enormi montature propagandistiche montate ad arte o «incoraggiate» dai servizi segreti statunitensi per spezzare l'intesa fra comunisti italiani e sloveni.

Le ipotesi giudiziarie di Carlo Mastelloni

Simile a quella di Bajc fu anche un'ipotesi avanzata nel 1997 dal giudice istruttore Carlo Mastelloni nell'ambito della sua inchiesta su Argo 16, peraltro conclusasi senza alcuna conferma giudiziaria e senza alcuna condanna. In tale complesso contesto denso di doppi e tripli giochi, anche la stessa figura di Mario Toffanin sarebbe da riconsiderare: alcuni lo vedrebbero addirittura come agente dei tedeschi.

Le controversie politiche e storiografiche sull'eccidio

Le responsabilità politiche e materiali dell'eccidio di Porzûs sono al centro di un acceso dibattito politico e storiografico, intersecatosi fino agli anni cinquanta con i processi ai quali furono sottoposti esecutori e presunti mandanti della strage. Gli eventi legati a Porzûs hanno acquisito un valore paradigmatico: per gli uni del tentativo di delegittimare la Resistenza proiettando sull'intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, per gli altri della natura totalitaria e antidemocratica del Partito Comunista Italiano e del carattere sostanzialmente antinazionale della sua politica.
Durante il processo, il PCI organizzò una campagna di stampa per ribadire le accuse di connivenza con fascisti e nazisti dei reparti della Osoppo, ritenendo che in Italia fosse sostanzialmente tornata al potere una destra direttamente connessa col regime fascista, della quale la Democrazia Cristiana era il cardine, che tramite il processo per l'eccidio voleva mettere sotto accusa il PCI e l'intero movimento resistenziale. Della chiusura della vicenda giudiziaria per intervenuta amnistia nel 1959 non fu data notizia, e per circa quindici anni sulla vicenda cadde il silenzio.
Nel 1964 Roberto Battaglia – storico iscritto al PCI, già comandante partigiano – nella sua Storia della Resistenza italiana attribuì la responsabilità dell'eccidio all'anticomunismo di "Bolla", che si sarebbe scontrato con «l'animosa intolleranza di fanatici avversari». La tesi di Battaglia, che indicò gli osovani come corresponsabili dell'eccidio, nei decenni successivi venne ripresa, in tutto o in parte, da altri autori come Giorgio Boccao Giampaolo Gallo. Un altro gruppo di autori concentrò la propria attenzione sulle responsabilità degli osovani in relazione ai loro contatti con la Decima Mas, che avrebbe quindi, se non giustificato, quanto meno reso comprensibile la reazione di Toffanin e i suoi: su tale aspetto insistettero per esempio Pierluigi Pallante e Pier Arrigo Carnier.
Nel 1975 venne pubblicato il primo studio specifico sull'eccidio, Porzûs, due volti della Resistenza di Marco Cesselli, nel quale si espressero delle caute aperture verso una revisione della precedente interpretazione dell'eccidio e si misero in luce le responsabilità politiche dei massimi dirigenti del PCI friulano, ma per il resto del decennio e per quasi tutti gli anni ottanta la storia di Porzûs non suscitò quasi alcun interesse da parte degli storici accademici.
La questione tornò prepotentemente all'attenzione dell'opinione pubblica negli anni novanta, intersecandosi con altre polemiche quali quelle sul cosiddetto triangolo della morte o quelle su Gladio, un'organizzazione anticomunista di tipo stay-behind legata alla NATO, a cui aderì un numero imprecisato di ex partigiani della Osoppo. La polemica raggiunse la sua acme quando l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, nel corso di una visita in Friuli nel febbraio del 1992, incontrò pubblicamente un gruppo di appartenenti a Gladio, accusando i partigiani comunisti di aver combattuto anche per l'instaurazione di una dittatura contro gli interessi nazionali dell'Italia.
Nella seconda metà del decennio, le polemiche si incrociarono con un più ampio dibattito sulla revisione storiografica del fascismo e della Resistenza, notevolmente aumentato a partire dall'entrata nel governo del Movimento Sociale Italiano (1994) e visto nell'ottica più ampia delle questioni relative alla cessione dei territori orientali a seguito del trattato di pace del 1947, ai massacri delle foibe e all'esodo giuliano-dalmata. Furono quindi pubblicati diversi articoli e saggi, che a loro volta causarono ulteriori polemiche, anche a causa della nascita e dello sviluppo delle più diverse ipotesi sui mandanti effettivi della spedizione gappista.
Ulteriori contrasti sorsero alla notizia che alla 54ª Mostra del Cinema di Venezia del 1997 sarebbe stato presentato Porzûs, film sull'eccidio diretto da Renzo Martinelli. Delo, il più importante quotidiano sloveno, accusò gli «ex comunisti in Italia» (PDS) di utilizzare un film sul «più celebre falso storico organizzato dai servizi segreti italiani» per condurre una «guerra di propaganda» contro Slovenia e Croazia al fine di porre «i due paesi sotto l'influenza dell'Italia».
Fra il 2001 e il 2003 vi furono due tentativi di riconciliazione: il primo fu il già citato incontro fra "Vanni" e il sacerdote osovano don Redento Bello "Candido" (23 agosto 2001); il secondo, sempre organizzato da "Vanni" e "Candido", coinvolse anche i vertici dell'Associazione Partigiani Osoppo e una serie di politici locali e nazionali (9 febbraio 2003), ma i rapporti fra reduci osovani e garibaldini non si rasserenarono completamente.
Ormai sdoganato come argomento di studio, anche nel nuovo secolo l'eccidio di Porzûs non è scevro di interpretazioni difformi anche all'interno delle stesse opere storiografiche, riproponendo talvolta alcuni tipici approcci degli anni precedenti. L'attuale panorama storiografico fa quindi ancora ritenere ad alcuni che

«Nonostante decenni di polemiche e ricerche, non è comunque tuttora disponibile un'esauriente ricostruzione che inquadri l'episodio nel suo contesto, analizzando l'eccidio in relazione al tema più generale non solo dei rapporti interni alla Resistenza italiana e della politica del PCI, ma anche delle relazioni tra le altre forze in campo, i comunisti sloveni e la X Mas».

Il 29 maggio 2012 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha visitato il comune di Faedis, dove ha scoperto una targa in memoria dei trucidati. Nel suo discorso, Napolitano ha definito l'eccidio «tra le più pesanti ombre che siano gravate sulla gloriosa epopea della Resistenza» individuandone le radici in un «torbido groviglio [di] feroci ideologismi di una parte, con calcoli e pretese di dominio di una potenza straniera a danno dell'Italia, in una zona martoriata come quella del confine orientale del nostro Paese». Nonostante l'invito di Napolitano alla riconciliazione fra le diverse anime della Resistenza, i contrasti fra ANPI e APO (Associazione Partigiani Osoppo) non risultano superati: quest'ultima chiede all'ANPI di sottoscrivere il documento di assunzione di responsabilità e di scuse presentato ufficialmente nel 2001 da Giovanni Padoan "Vanni", mentre la prima chiede che sia l'APO a fare un primo passo.

La memoria

Il sito ufficiale dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI) attribuisce la morte di De Gregori a «uno scontro tra partigiani», definendo l'eccidio «guerra intestina all'interno delle formazioni partigiane» e continuando a individuarne le cause in una serie di tensioni dovute ai «contatti presi dalla Osoppo con i fascisti per contrattare la non cessione di territori alla Jugoslavia di Tito».
L'Associazione Partigiani Osoppo-Friuli, nata nel 1947 e non facente parte dell'ANPI, bensì della Federazione Italiana Volontari della Libertà (FIVL), fin dai primi tempi della propria fondazione ha mantenuto vivo il ricordo dell'eccidio di Porzûs. Da svariati anni, in occasione dell'anniversario dell'assalto gappista, organizza quindi una cerimonia direttamente alle malghe di Topli Uork, in genere accompagnata da altre manifestazioni di tipo storico/rievocativo o commemorativo, quali mostre, convegni, presentazioni di libri, messe e concerti. Nel periodo estivo viene invece organizzato un incontro al Bosco Romagno, a ricordare gli osovani ivi uccisi. Entrambe le manifestazioni sono state variamente contrastate e contestate da vari gruppi della sinistra estrema oltre che, in certi casi, dall'ANPI. In anni più recenti alcune volte le critiche hanno trovato supporto nelle teorie storiche di Alessandra Kersevan. Solo nel 2009 un rappresentante dell'ANPI, a titolo personale, ha partecipato alla cerimonia alle malghe.

Le malghe di Porzûs come bene di interesse culturale

Il 18 gennaio 2010 la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Friuli-Venezia Giulia emise un decreto che rendeva di «interesse culturale» il «bene denominato Malghe di Porzûs», ma a seguito di una serie di polemiche derivanti dal contenuto della relazione storica allegata, il provvedimento fu revocato dall'allora ministro per i beni culturali Sandro Bondi. Corretta la relazione storica, il decreto fu reiterato a novembre dello stesso anno.
Da tempo è attivo l'iter procedurale per dichiarare le malghe di Porzûs monumento nazionale. Alcuni dirigenti dell'ANPI si sono opposti all'iniziativa, così come alla proposta di intitolare alcune vie cittadine ai «martiri di Porzûs»