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Giovanni Falcone


Giovanni Salvatore Augusto Falcone è stato un magistrato italiano. Fu assassinato con la moglie Francesca Morvillo e alcuni uomini della scorta nella strage di Capaci ad opera di Cosa nostra.
Assieme all'amico e collega Paolo Borsellino è considerato uno fra gli eroi simbolo della lotta alla mafia in Italia e a livello internazionale.

L'infanzia e la formazione

Nacque il 18 maggio 1939 a Palermo in via Castrofilippo nel quartiere della Kalsa, lo stesso di Paolo Borsellino e di molti ragazzi futuri mafiosi come Tommaso Buscetta.
Il padre Arturo (1904-1976) era il direttore del laboratorio chimico provinciale e la madre Luisa Bentivegna (1907 - 1982) era figlia di un noto ginecologo di Palermo. Aveva due sorelle maggiori, Anna (1934) e Maria (1936).
Il secondo nome di Giovanni, Salvatore, gli è stato dato in memoria dello zio materno Salvatore Bentivegna, tenente dei Bersaglieri morto sul Carso colpito da una granata durante la prima guerra mondiale. Il terzo nome Augusto è dovuto alla passione del padre per la storia romana. Il fratello del padre, Giuseppe Falcone, si arruolò anch'esso per la guerra come capitano nell'Aviazione e morì all'età di 24 anni abbattuto con il suo aereo. Anche il padre di Giovanni partecipò alla guerra: colpito alla testa, si riprese dopo un anno passato tra la vita e la morte. In seguito si laureò e sposò Luisa, di dodici anni più giovane. Pietro Bonanno, fratello di sua nonna, fu prima assessore ai Lavori Pubblici e poi sindaco di Palermo tra il 1904 e il 1905.
I Falcone dovettero abbandonare la Kalsa nel 1940 a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale e sfollarono a Sferracavallo, un borgo che oggi fa parte della riserva marina di Isola delle Femmine. Dopo il 9 maggio 1943 (bombardamento della passeggiata e dei palazzi del porto) si trasferirono dai parenti della madre a Corleone. Dopo l'Armistizio di settembre, tornarono alla Kalsa dove, a causa dei danneggiamenti riportati dal loro appartamento, vennero ospitati dalle zie Stefania e Carmela, sorelle del padre. La prima era una musicista e si era formata al Conservatorio di Palermo mentre la seconda era una pittrice sullo stile di Francesco Lojacono.

Giovanni frequentò le scuole elementari al Convitto Nazionale di Palermo, che nel 1999 gli è stato intitolato, le medie alla scuola "Giovanni Verga" e le superiori al liceo classico "Umberto I". Aveva la media dell'otto a scuola, frequentava l'Azione Cattolica e trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia facendo la spola tra quella di Santa Teresa alla Kalsa e quella di San Francesco. Nella prima conobbe padre Giacinto che diventò il suo cicerone e gli fece visitare il Trentino e Roma. All'età di tredici anni cominciò a giocare a calcio all'Oratorio dove, durante una delle tante partite, conobbe Paolo Borsellino, più piccolo di sei mesi, con cui si sarebbe ritrovato prima sui banchi dell'Università e poi in Magistratura. In parrocchia si appassionò anche al ping-pong e in una partita giocò con Tommaso Spadaro futuro "re della Kalsa", personaggio di spicco della malavita locale impegnato nel traffico di stupefacenti e oggi all'ergastolo. In quel periodo incrociò anche Tommaso Buscetta, futuro boss mafioso che si pentirà proprio con Falcone negli anni ottanta.
Al liceo trovò il professore Franco Salvo, insegnante di storia e filosofia seguace dell'Illuminismo che con i suoi insegnamenti risultò fondamentale per la formazione del ragazzo. Decise di praticare l'attività sportiva a livello agonistico causando una distrazione dagli studi. Terminò il liceo all'età di 18 anni nel 1957 con il massimo dei voti.
Subito dopo si trasferì a Livorno per frequentare l'Accademia navale con il pretesto che amava il mare e che voleva laurearsi in Ingegneria. Intanto la sorella Maria stava studiando alla facoltà di Giurisprudenza a Palermo e si teneva in stretto contatto con il fratello. Dopo soli quattro mesi, nel gennaio del 1958, per la sua attitudine al comando fu assegnato allo Stato Maggiore, ma si stava convincendo sempre di più che la vita militare non faceva per lui, mortificato dalle pesanti imposizioni. Così avendo la possibilità di scegliere, decise di tornare a Palermo per iscriversi pure lui alla facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Palermo.
In quegli anni ebbe modo di praticare diverse attività sportive con molta costanza, sebbene avesse dovuto abbandonare il livello agonistico nel 1956 a causa di un infortunio. Si era così buttato nel canottaggio, frequentando la Canottieri Palermo durante tutti gli anni dell'università.
Nel 1959 la famiglia Falcone fu costretta a trasferirsi in Via Notarbartolo per il Sacco di Palermo per opera dell'assessore Vito Ciancimino, che Falcone avrà modo di arrestare nel 1985 per mafia. Nel corso della sua vita Giovanni avrebbe poi cambiato tre case in quella stessa strada: una da ragazzo, una con la prima moglie Rita e poi un'altra ancora con Francesca, la seconda moglie.
Giovanni si laureò poi con 110 e lode nel 1961, con una tesi sull'Istruzione probatoria in diritto amministrativo, discussa con il professore Pietro Virga.

Gli inizi in Magistratura

Falcone vinse il concorso in Magistratura nel 1964 e in quello stesso anno nella Chiesa della Santissima Trinità della Magione sposò Rita Bonnici, maestra elementare di cinque anni più giovane e poi laureatasi in Psicologia, dalla quale divorzierà quattordici anni dopo. Nel 1965, a soli 26 anni, diventò pretore a Lentini. Il suo primo caso risolto fu quello di una persona morta per un incidente sul lavoro. A partire dal 1966 fu poi, per dodici anni, sostituto procuratore e giudice presso il tribunale di Trapani. A poco a poco, nacque in lui la passione per il diritto penale.
Nell'aprile del 1969 la morte del padre per un tumore all'intestino lo toccò profondamente. In quegli anni Giovanni Falcone stava mutando profondamente, a cambiarlo non fu solo la mancanza del riferimento paterno ma intervennero anche fattori esterni. Cominciò ad abbracciare i principi del comunismo sociale di Enrico Berlinguer in occasione delle Elezioni politiche italiane del 1976 sebbene la sua famiglia avesse da sempre votato Democrazia Cristiana. Scontratosi per questo motivo con la sorella Maria, motivò la sua scelta dicendo che, da profondo amante della Giustizia qual era, si poneva il problema di combattere le disparità sociali e nel comunismo intravedeva quindi la possibilità di appianare le sperequazioni. Nel suo lavoro però non si lasciò mai influenzare dalle idee politiche.
Nel luglio 1978 ritornò a Palermo e cominciò a lavorare nella sezione fallimentare del Tribunale, occupandosi di diritto civile e promulgando alcune sentenze di grande importanza.
Presto Rita lo avrebbe lasciato per fare ritorno a Trapani, dove si era innamorata del presidente del Tribunale. Spezzato da questa delusione, Giovanni si buttò a capofitto nel lavoro.
Dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova, nel settembre del 1979, nonostante le preoccupazioni famigliari, accettò l'offerta che da tanto tempo Rocco Chinnici gli proponeva e passò così all'Ufficio istruzione della sezione penale, che sotto appunto la guida di Chinnici divenne un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino che divenne collega di Falcone nello sbrigare il lavoro arretrato di oltre cinquecento processi.
Nel maggio del 1980 Chinnici affidò a Falcone la sua prima inchiesta contro Rosario Spatola, un costruttore edile palermitano, incensurato e molto rispettato perché la sua impresa aveva dato lavoro a centinaia di operai. Doveva la sua fortuna al riciclaggio di denaro frutto del traffico di eroina dei clan italo-americani, guidati da Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Carlo Gambino.
Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e avere un quadro complessivo del fenomeno. Notò che gli stupefacenti venivano venduti negli Stati Uniti così chiese a tutti i direttori delle banche di Palermo e provincia di mandargli le distinte di cambio valuta estera dal 1975 in poi. Alcuni telefonarono personalmente a Falcone per capire che intenzione avesse e lui rimase fermo sulle sue richieste. Grazie a un attento controllo di tutte le carte richieste, una volta superate le reticenze delle banche, e "seguendo i soldi" riuscì a cominciare a vedere il quadro di una gigantesca organizzazione criminale: i confini di Cosa nostra. Risalì così al rapporto fra gli amici di Spatola e la famiglia Gambino, rivelando i collegamenti fra mafia americana e siciliana.
Il 6 agosto dello stesso anno fu ucciso il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa e subito dopo assegnarono la scorta a Falcone.
Grazie a un assegno dell'importo di centomila dollari cambiato presso la Cassa di Risparmio di piazza Borsa di Palermo, Falcone trovò la prova che Michele Sindona si trovava in Sicilia smascherando quindi il finto sequestro organizzato a suo favore dalla mafia siculo-americana alla vigilia del suo giudizio. Nei primi giorni del mese di dicembre 1980 Giovanni Falcone si recò per la prima volta a New York per discutere di mafia e stringere una collaborazione con Victor Rocco, investigatore del distretto est. Entrando negli uffici di Rudolph Giuliani rimase stupito dall'efficienza e dai loro strumenti, fra i quali c'era per esempio il computer. Falcone seppe instaurare subito un rapporto di fiducia con Giuliani e con i suoi collaboratori Louis Frech e Richard Martin, oltre che con gli agenti della Dea e dell'Fbi. Grazie a questa collaborazione riuscirono a sgominare il traffico di eroina nelle pizzerie. Anche la stampa americana seguiva con attenzione questa sinergia e presentava la figura di Falcone con stima e grandissimo favore.
Sono anni tumultuosi che vedono la prepotente ascesa dei Corleonesi, i quali impongono il proprio feudo criminale insanguinando le strade a colpi di omicidi. Emblematici i titoli del quotidiano palermitano L'Ora, che arriverà a titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della drammatica guerra di mafia. Tra queste vittime anche svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La Torre, principale artefice della legge Rognoni-La Torre (che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il 6 giugno 1983 Rosario Spatola fu condannato, insieme con 75 esponenti della cosca Spatola-Gambino-Inzerillo, a dieci anni di reclusione ma sarebbe stato arrestato a New York dall'Fbi, in collaborazione con la polizia italiana, solo nel 1999. In precedenza per indagare su Spatola avevano già perso la vita il capo della Mobile Boris Giuliano e il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Il processo Spatola fu quindi molto delicato, ma rappresentò anche un grande successo per Falcone perché venne così universalmente riconosciuto il "metodo Falcone".

Gli anni del Pool antimafia

In tale contesto, fu Rocco Chinnici a voler costituire un gruppo di lavoro, inizialmente avvalendosi della collaborazione di Falcone, di Paolo Borsellino e di Giuseppe Di Lello, pupillo di Chinnici. Il progetto sarebbe stato sviluppato da Antonino Caponnetto (subentrato a Chinnici, ucciso il 29 luglio 1983) che, nel marzo 1984, avrebbe ufficialmente costituito un "pool" composto da quattro magistrati (nel frattempo si era aggiunto anche Leonardo Guarnotta) che coordinasse le indagini sfruttando l'esperienza maturata e quello sguardo d'insieme sul fenomeno mafioso portato da Falcone. I quattro magistrati erano affiatati, amici e con un sogno comune: restituire la città ai palermitani e la Sicilia ai siciliani onesti. Il pool doveva occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e minimizzare così i rischi personali, che per garantire in ogni momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso. La validità del nuovo sistema investigativo si dimostrò subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a venire.
Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta alla mafia sarebbe stata impressa con l'arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la Giustizia. Il suo interrogatorio, cominciato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro del Nucleo operativo della Criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell'organizzazione definita Cosa nostra.

Il maxiprocesso di Palermo

Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro la mafia. Il Maxiprocesso iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987.
Questa reagì bruciando il terreno attorno ai giudici: dopo l'omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell'estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si cominciò a temere per l'incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara (incredibilmente dovettero pagarsi le spese di soggiorno e consumo bevande, come ricordò Borsellino in un'intervista), dove gettarono le basi dell'istruttoria.
Ma il 16 novembre 1987 diventa una data storica e insieme un momento fondamentale per il Paese, che per la prima volta inchioda la mafia traducendola alla Giustizia. Il Maxiprocesso sentenzia 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia.
Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lascia il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell'istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l'integrazione di nuovi elementi per seguire l'accresciuta mole di lavoro. Entrarono così a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte.

La fine del Pool Antimafia

Se lo Stato aveva conseguito una vittoria memorabile, la partita era lungi da considerarsi conclusa. Inoltre, Caponnetto si apprestava a lasciare l'incarico per ragioni di salute, e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Falcone, e Antonino Meli. Nel settembre 1987, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva.
La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell'azione investigativa, inoltre rese Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia, perché la sua sconfitta aveva dimostrato che effettivamente non era stimato come si credeva; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l'allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto.
Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. La mafia intanto non ha abbassato la guardia, e uccide l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l'unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone.
Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l'ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell'Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un'importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.

Il fallito attentato dell'Addaura e la vicenda del "corvo"

Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la villa al mare affittata per le vacanze; su questo avvenimento, comunemente detto attentato dell'Addaura, non è mai stata fatta piena luce.
I sicari di Totò Riina e di altri mafiosi ritenuti mandanti, piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa affittata dal giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per fare il bagno, ma l'attentato fallì. Inizialmente venne ritenuto che i killer non fossero riusciti a far esplodere l'ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone. Vent'anni dopo, nuove ipotesi investigative avallerebbero invece la ricostruzione che l'ordigno venne reso inoffensivo nelle ore notturne antecedenti dagli agenti Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, fintisi sommozzatori. Agostino e Piazza verranno poi assassinati.
Falcone dichiarò al riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di "menti raffinatissime", e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata, come avvenuto per l'omicidio Dalla Chiesa. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del SISDE che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, sentenza poi confermata in Cassazione.
Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del "corvo": una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice e i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e importanti investigatori come De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere "pilotato" il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i corleonesi, storici nemici della sua famiglia.
I fatti descritti venivano presentati come movente della morte di Falcone per opera dei corleonesi, i quali avrebbero organizzato il poi fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno (e non, si badi, per i decenni di inflessibile lotta senza quartiere che Falcone aveva scatenato contro di loro...). I contenuti, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno e gli accadimenti all'interno del tribunale, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, tanto che nello stesso ambiente degli informatori di polizia queste missive vennero attribuite a un "corvo", ossia un magistrato.
Sebbene sul momento la stampa non lo spiegasse apertamente al grande pubblico, infatti, tra gli esperti di "cose di cosa nostra" (come Falcone) era risaputo che, nel linguaggio mafioso, tale appellativo designasse proprio i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza); le missive avrebbero così inteso insinuare la certezza che in realtà il pool operasse al di fuori dalle regole, immerso tra invidie, concorrenze e gelosie professionali.
Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili portarono alla condanna in primo grado per diffamazione del giudice Alberto Di Pisa, identificato grazie a dei rilievi dattiloscopici. Le impronte digitali - raccolte con un artificio dal magistrato inquirente - furono però dichiarate processualmente inutilizzabili, oltre a lasciare dubbi sulla loro validità probatoria (sia il bicchiere di carta su cui erano state prelevate le impronte, sia l'anonimo con cui furono confrontate, erano alquanto deteriorati).
Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Di Pisa, che tre mesi dopo davanti al C.S.M. avrebbe mosso gravi rilievi allo stesso Falcone sia sulla gestione dei pentiti che sull'operato, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto.
Molti testimoni diretti dei fatti dell'Addaura morirono in circostanze sospette: Antonino Agostino, agente del SISDE, che si ipotizza lavorasse per proteggere Falcone, venne ucciso insieme alla moglie Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989 da un commando in motocicletta; Emanuele Piazza, collega di Agostino al SISDE, venne ucciso per strangolamento dalla mafia il 15 marzo 1990; il microcriminale Francesco Paolo Gaeta, che quel giorno aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice, venne ucciso a colpi di pistola il 2 settembre 1992; il mafioso Luigi Ilardo, informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio - e che a questi aveva confidato di sapere che «a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino» - venne assassinato il 10 maggio 1996, qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni.

La stagione dei veleni

Nell'agosto 1989 cominciò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incriminò insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse.
Lima e la corrente di Giulio Andreotti, erano disprezzati dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e da tutto il movimento antimafia, e l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all'Addaura contro Falcone: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello") ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente a Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati" La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia [...] lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone.
Ad Annozero Claudio Martelli all'epoca Ministro della Giustizia, ha accusato Leoluca Orlando di aver indebitamente attaccato Giovanni Falcone perché il giudice siciliano aveva fatto riarrestare Ciancimino, colpevole di aver stretto affari con lo stesso Orlando.
Nel settembre 1991 Salvatore Cuffaro, all'epoca deputato regionale della Democrazia Cristiana ed anni dopo condannato per mafia, intervenne a una puntata speciale della trasmissione televisiva Samarcanda condotta da Michele Santoro in collegamento con il Maurizio Costanzo Show e dedicata alla commemorazione dell'imprenditore Libero Grassi, ucciso dalla mafia. In quella occasione, Cuffaro - presente tra il pubblico - si scagliò con veemenza contro la trasmissione (tra i cui ospiti era presente Falcone), sostenendo come le iniziative portate avanti da un certo tipo di "giornalismo mafioso" fossero degne dell'attività mafiosa vera e propria, tanto criticata e comunque lesive della dignità della Sicilia. Cuffaro parlò di certa magistratura "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana", con chiaro riferimento a Mannino, in quel momento uno dei politici più influenti della Dc. Con sentenza numero 1742 del 2013 il Tribunale civile di Palermo ha disposto un risarcimento in favore di Cuffaro da parte di Antonio Di Pietro, che aveva linkato sul proprio sito internet il video dell'intervento di Cuffaro a Samarcanda con il titolo "Costanzo Show: Totò Cuffaro aggredisce Giovanni Falcone". Nella sentenza il Tribunale ha accertato che "non si evince un attacco diretto di Cuffaro nei confronti del giudice Falcone" e che lo stesso, semmai, si era scagliato contro un'inchiesta, peraltro archiviata pochi giorni dopo la trasmissione, e contro il Magistrato che la conduceva, persona diversa da Giovanni Falcone.
In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato : "i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia."
La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero.

Le critiche e l'ostilità

In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da diversi esponenti politici. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte del Partito Comunista Italiano e di altri settori del mondo politico (Leoluca Orlando in primis, oltre a qualche altro esponente della Democrazia Cristiana e diversi giudici aderenti a Magistratura Democratica) che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone.
Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, e in particolare sulla procura nazionale antimafia.
Alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticarono poi il progetto della Superprocura, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell'allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini.
Il 10 agosto 1991, ai funerali in Calabria del giudice Antonino Scopelliti Falcone intuisce che oramai il suo destino è segnato e confida al fratello del collega: «Se hanno deciso così non si fermeranno più... ora il prossimo sarò io».
Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».
In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica e imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare a ulteriori approfondimenti.

Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura e una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per giunta in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova.
Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte.
Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per Cose di Cosa Nostra, Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."
Alcuni giorni prima dell'attentato dichiara: "Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano."

La strage di Capaci e la morte

« Si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. »

(Giovanni Falcone)

Giovanni Falcone viene assassinato in quella che comunemente è detta strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendono tre Fiat Croma blindate, con un gruppo di scorta sotto il comando dell'allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera.
Appena sceso dall'aereo, Falcone si sistema alla guida della Croma bianca, e accanto prende posto la moglie Francesca Morvillo mentre l'autista giudiziario Giuseppe Costanza va a occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone c'è alla guida Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano della partenza i sicari che hanno sistemato l'esplosivo per la strage.
I particolari sull'arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese, è il fatto che nell'aereo di Stato - che lo riportava a Palermo - avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani reduci dagli scrutini di Montecitorio per l'elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull'identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l'arrivo a Palermo per l'ora stabilita.
Le auto lasciano l'aeroporto imboccando l'autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina guidata da Gioacchino La Barbera si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage.
Otto minuti dopo, alle ore 17:58, presso il km 5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in anticipo, sicché l'esplosione investe in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, e su fino a una zona pianeggiante alberata; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo.
La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Falcone, che riporta ferite solo in apparenza non gravi, muore dopo il trasporto in ospedale a causa di varie emorragie interne.
Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell'eccidio.
La detonazione provoca un'esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti e abitanti dalle villette vicine danno l'allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata e una coltre di polvere.
Venti minuti dopo circa, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell'Arma dei Carabinieri presso l'ospedale Civico di Palermo. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch'essi trasportati in ospedale mentre la Polizia Scientifica esegue i primi rilievi e i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i cadaveri irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo.
Intanto i media cominciano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo, e il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L'Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, a un'ora e sette minuti dall'attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch'essa, intorno alle 22.

Due giorni dopo, il 25 maggio mentre a Roma viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa l'intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza; e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani susciteranno particolare emozione nell'opinione pubblica.
Il giudice Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia rivolgendosi ai colleghi nell'aula magna del Tribunale di Milano: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorderà anche il linciaggio subito dall'amico Falcone da parte dei suoi colleghi magistrati, anche facenti capo alla stessa corrente cui Falcone aderiva:

« Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'Anm. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un'altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l'unica strada possibile, il ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione. »

La Boccassini criticherà anche l'atteggiamento dei magistrati milanesi impegnati in Mani pulite:

« Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l'amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l'ultima ingiustizia l'ha subìta proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: "Non si fidano neppure del direttore degli Affari penali" »

Ilda Boccassini, confermerà le critiche in un'intervista a La Repubblica del maggio 2002, in occasione dell'affissione di targa in memoria di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia. Il magistrato criticherà gli onori postumi offerti a Falcone, sostenendo che

« Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. [...] Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito »

Nell'intervista ricorderà anche come diversi magistrati e politici, sia vicini a partiti della sinistra sia della destra, criticarono fortemente Falcone quando questo era ancora vivo.
In particolare, l'opposizione a Falcone dei magistrati vicini al Pds fu fortissima: al Csm, per tre volte il magistrato palermitano subì dei veti. Quando concorse al posto di super-procuratore antimafia, gli venne preferito Agostino Cordova, procuratore capo di Palmi. Alessandro Pizzorusso, componente laico del Csm designato dal Partito Comunista, firmò un articolo sull'Unità sostenendo che Falcone non fosse "affidabile" e che essendo "governativo", avrebbe perso le sue caratteristiche di indipendenza. Successivamente, quando al Consiglio superiore della magistratura si dovette decidere se Falcone dovesse essere posto o meno a capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, gli venne preferito Antonino Meli; votarono per quest'ultimo e quindi contro Falcone anche gli esponenti di Magistratura democratica, vicini al Pds, Giuseppe Borré ed Elena Paciotti, quest'ultima poi eletta europarlamentare dei Democratici di Sinistra.
Dopo la sua morte, Leoluca Orlando, commentando l'ostracismo che Falcone subì da parte di alcuni colleghi negli ultimi mesi di vita, dirà: «L'isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale».
All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unisce anche il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente. Intanto, Paolo Borsellino, intraprenderà la sua ultima lotta contro il tempo, che durerà appena altri cinquantasette giorni, indagando nel tentativo di dare giustizia all'amico Giovanni.
Il 25 giugno 1992, durante un Convegno a Palermo organizzato da La Rete e dalla rivista Micromega, Paolo Borsellino affermò:

« Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone »
« Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli. »

Riconoscimenti e influenza

Maria Falcone, sorella di Giovanni, ancora oggi rende omaggio alla memoria del fratello nelle scuole italiane
Una delle più importanti eredità dell'operato del magistrato è stata quella dell'emanazione della legge 30 dicembre 1991 n. 41, istitutiva della direzione investigativa antimafia e del d.l. n. 8 giugno 1992, n. 306 (convertito in legge n. 7 agosto 1992 n. 356) la c.d "legge sui pentiti".
Al magistrato, in Sicilia e nel resto d'Italia sono state dedicate molte scuole e strade, nonché una piazza nel centro di Palermo (nel giugno del 2008).
A Falcone e al suo collega Borsellino il comune di Castellammare di Stabia ha dedicato l'aula del consiglio comunale intitolandola a loro nome; nel comune di Scafati è dedicata loro una piazza proprio di fronte alla scuola elementare "Ferdinando II di Borbone"; anche nel comune di Casaluce in provincia di Caserta, è stata dedicata a Falcone una piazza su un bene confiscato alla camorra; a Casalnuovo, in provincia di Napoli, gli è dedicata una via, mentre ai due colleghi magistrati è stato dedicato anche l'Aeroporto di Palermo-Punta Raisi.
Un albero situato di fronte l'ingresso del suo appartamento, nella centralissima via Emanuele Notarbartolo a Palermo, raccoglie messaggi, regali e fiori dedicati al giudice: è "l'albero Falcone".Strade e piazze intitolate ai due magistrati si trovano un po' ovunque nei comuni d'Italia. Anche nel comune di Pompei è stata dedicata una piazza a Falcone e Borsellino.
Il 23 gennaio 2008, su proposta del sindaco Walter Veltroni, con una risoluzione approvata all'unanimità dal Consiglio dell'VIII Municipio di Roma, la località Ponte di Nona è stata rinominata Villaggio Falcone in suo onore. Dal 2011, l’aula delle udienze della Corte d’Appello di Trento è dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
All'uscita dell'autostrada Palermo-Capaci, in prossimità del luogo dell'attentato, è stata eretta una colonna che espone i nomi delle vittime di quel 23 maggio 1992. Qui il giudice, sua moglie e la scorta vengono commemorati il giorno dell'anniversario della strage, con la chiusura del tratto al traffico, come avvenuto anche nel 2010.
La Corte Suprema degli Stati Uniti, massimo organo giurisdizionale USA, ricorda il 29 ottobre 2009 Giovanni Falcone in una seduta solenne quale "martire della causa della giustizia".

Opere

Rapporto sulla mafia degli anni '80. Gli atti dell'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Palermo, S. F. Flaccovio, 1986.

Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Milano, Rizzoli, 1991.

Io accuso. Cosa nostra, politica e affari nella requisitoria del maxiprocesso, Roma, Libera informazione, 1993.

La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia, Milano, BUR Rizzoli, 2010.

fonte: Wikipedia

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