martedì

l'ultima lettera di Paolo Borsellino

Questa è l'ultima lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici ore prima che l'esplosione di un'auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso giorno, davanti al n.19 di Via D'Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della sua scorta.
Paolo si alzava quasi sempre a quell'ora. Con quella sua ironia che riusciva a sdrammatizzare  anche la morte, la sua morte annunciata, diceva che lo faceva "per fregare il mondo con due ore di anticipo" e quella mattina cominciò a scrivere una lettera alla preside di un liceo di Padova presso il quale avrebbe dovuto recarsi a Gennaio per un incontro al quale non si era poi recato per una serie di disguidi e per i suoi impegni che non gli davano tregua.
La faida di Palma di Montechiaro che Paolo cita nella lettera la ricordo bene.
A Capodanno dello stesso anno ero con lui ad Andalo, nel Trentino dove avevamo passato insieme il Natale, per la prima volta da quando, nel 1969, ero andato via dalla Sicilia, ed avevamo deciso di ritornare passando per Innsbruck che avevamo entrambi voglia di visitare insieme con le nostre famiglie.
Non fu possibile perchè Paolo ricevette la notizia della strage di mafia che c'era stata a Palma di Montechiaro e dovette rientrare di fretta in Sicilia.
Fu l'ultima volta che vidi Paolo, da allora fino alla strage del 19 luglio ci sentimmo solo qualche volta al telefono e quando, dopo la sua morte, vidi le sue foto successive alla morte di Giovanni Falcone mi sembrò che in poco più di sei mesi fosse invecchiato di 10 anni.
La lettera è da leggere parola per parola, pensando proprio che sono le ultime parole di Paolo.
Quando dice che non riusciva in quei giorni neanche a vedere i suoi figli penso a quello che mi disse mia madre dopo la sua morte: le aveva confidato che non faceva più le coccole a Fiammetta la sua figlia più piccola e che stava cercando di allontanarsi affettivamente dai suoi figli perchè soffrissero di meno nel momento in cui lo avrebbero ucciso.
E che quel giorno lo avrebbero ucciso Paolo lo doveva quasi presagire, sapeva che a Palemo era già arrivato il carico di tritolo per lui. Lo sapeva anche il suo capo, Pietro Giammanco, che non gli aveva però riferito dell'informativa che gli era arrivato a questo proposito e Paolo, che invece lo aveva saputo per caso all'aeroporto dal ministro Scotti, aveva avuto con lui uno scontro violento.
Uno scontro che Paolo ebbe con Giammanco anche la mattina del 19 Luglio, quando quest'ultimo gli telefonò alle 7 del mattino, cosa che fino allora non era mai successa.
Forse anche Giammanco sapeva che quello era l'ultimo giorno di Paolo e per questo gli comunicò che gli aveva finalmente concessa la delega per indagare sui processi di mafia in corso di istruttoria a Palermo. Delega che avrebbe permesso a Paolo di interrogare senza più vincoli il pentito Gaspare Mutolo che in quei giorni aveva cominciato a rivelare le collusioni tra criminalità organizzata, magistratura, forze dell'ordine e servizi segreti.
Racconta la moglie di Paolo che Giammanco gli disse: "Ora la partita è chiusa" e Paolo gli rispose invece urlando "No, la partita comincia adesso".
Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e la lettera rimase incompiuta sul numero 4), dopo gli altri tre punti nei quali Paolo, rispondendo a delle domande postegli dai ragazzi del liceo, ci da tra l'altro, in maniera estremamente semplice e chiara, come solo lui era in grado di fare, una definizione della mafia che bisognerebbe  che tutti conoscessero e che fosse insegnata nelle scuole.
Dieci ore dopo un telecomando azionato da una stanza di un centro dei Servizi Segreti Civili, il SISDE, ubicato sul castello Utveggio, poneva fine alla vita di Paolo ma non riusciva ad ucciderlo, oggi Paolo è più vivo che mai, è vivo dentro ciascuno di noi e il suo sogno non morirà mai.


"Gentilissima" Professoressa,
      uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e "pentito" mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all'incontro di Venerdì 24 gennaio.
      Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss'altro perchè a quell'epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
      Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
      Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell'intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
      Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affligevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
      Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato "comunque" preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
      Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
      Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
      Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.
      1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l'idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribilie per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
      Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E' vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all'Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l'applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni erediatarie etc.
      
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell'istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall'ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
      Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

      2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
      La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
      Sino ad ora questi organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l'uno dall'altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.


      3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di "territorialità". Essa e suddivisa in "famiglie", collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, leggittimamente, lo Stato.
      Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
      E' naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l'imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).      La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
      Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall'interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
      Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, "ndrangheta", Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l'organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del "consenso" di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.
4)

fonte: www.19luglio1992.com

Rita Atria

Fotogallery

di Graziella Proto*

Io, Rita Atria vi accuso

Il contesto è quello del dopo terremoto del 1968 che in Sicilia ha distrutto la valle del Belice. Nella zona interessata fiumi di stanziamenti sono arrivati per ricostruire i paesi, ma buona parte di essi scompare in mille rivoli. Partanna da centro di pastori si è trasformata in centro di traffici di droga e armi. Rapporti loschi per mantenere il potere.
Cinquecento mila lire per uccidere una persona. Alla fine del 1991 quando inizia a collaborare Rita Atria ha diciassette anni. Una picciridda. Ha perso il padre e il fratello all’interno di faide e logiche mafiose. E per vendetta ha deciso di raccontare tutto a Paolo Borsellino. “Questa e' una storia crudele raccontata da persone che si sono volute ribellare e che non sono imputate ne' in questo ne' in altri processi. Un fatto nuovo rispetto ad altre vicende di mafia" disse irritata Lina Tosi – l’accusa. L’inchiesta ruota attorno alla guerra tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. Una faida micidiale che vede coinvolto anche il deputato DC Vincenzo Culicchia, accusato di associazione mafiosa e concorso in omicidio. Ad accusarlo molte delle rivelazioni di Pier Aiello e la giovane Rita Atria.

Una ragazza siciliana: Minuta, piccolina, un bel viso ovale, occhi neri, capelli castani. Gracile ma tanto forte. E’ la fine del 1991.Rita aveva incontrato il magistrato Paolo Borsellino un uomo buono dal sorriso dolce, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Coraggiosa.
“Rita, non t'immischiare, non fare fesserie" le aveva detto ripetutamente la madre che, ancora non sapeva della sua collaborazione, ma, quel magistrato alla ragazza sembrava un papà, i loro incontri non erano tanto formali, erano fatti di baci e abbracci. Tanta tenerezza. Per Rita, raccontare, ricostruire, anche cose successe quando era molto piccola è facile. “consentendo una ricostruzione ancora più precisa e approfondita del fenomeno mafioso partannese… benché minorenne mostrava immediatamente agli inquirenti grande determinazione nel collaborare con la Giustizia…” ( Procura della Repubblica di Marsala 4 marzo 1992 firmata da Paolo Borsellino e dal sostituto Procuratore della Repubblica Alessandra Camassa). La stessa Piera Aiello si legge, apprendendo della collaborazione della cognata Rita si sente incoraggiata e si aprirà di più. Approfondirà alcune precedenti dichiarazioni.
Piccola grande Rita. Sensibile all'inverosimile, eppur ostinata, caparbia, dimostra di essere molto dura ed autonoma fin dall'adolescenza. A casa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all'ordine del giorno, lei assisteva, ascoltava, osservava. Nessuno si preoccupava di salvaguardare la sua adolescenza, Figlia e sorella di personaggi perfettamente inseriti nella mafia locale cresce in quegli ambienti. Rita pur piccola è una spugna.
Gli amici dell’adolescenza? Saranno anche loro di quell’ambiente: Vito Mistretta, Claudio Cantalicio, Filippo Piazza, Pasquale Catalogna ed altri. Tutti della cosca dei Cannata. La rispetteranno di più, si fideranno ciecamente perché una Atria. Come disse lei stessa durante un interrogatorio un nome una garanzia.
Il primo amore?  Calogero Cascio detto Gero. Un picciotto del giro, ben inserito nel contesto mafioso. Addetto per conto della cosca alle estorsioni. Un ragazzo in carriera si potrebbe dire.
Mio padre? Amato e rispettato da tutti
Rita era figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo (Cannata). E’ nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un paese in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico.
Suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore, allevatore di pecore, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, "…per questioni di principio e di prestigio - sosteneva Rita - senza ricavarne particolari vantaggi economici…" Una visione un po’ troppo romantica, frutto di una mitizzazione del contesto famigliare. Un romanticismo che non le impedisce di descrivere con freddezza un mondo – il suo mondo - di cui non sopporta le brutture, le vigliaccherie: un nitido quadro della mafia partannese. Racconta delle contrapposizioni delle famiglie Petralia, Ingoglia e Ragolia a quelle degli Accardo (detti Cannata dal cognome della madre che dal giorno in cui il marito è venuto a mancare ne ha ereditato il bastone). Con coraggio farà i nomi di quelli che in paese comandano e fanno affari. Tutte cose che aveva osservato, ascoltato, carpito, in casa sua, durante il pranzo o la cena. Le visite degli amici e delle tante persone che cercavano suo padre “ don Vito” per risolvere un problema.
Partanna era un paese di pastori. Qualcuno negli anni ottanta decise diversamente. Pian piano i pecorai si trasformarono in abili trafficanti di droga. “ … siccome gli Accardo avevano imposto il traffico di droga e in ordine a tale attività avevano sconfitto l’opposizione degli Ingoglia e delle famiglie legate a questi ultimi, questo commercio doveva essere fatto da tutti, compreso gli Ingoglia…”  dirà nell’interrogatorio datato 11 novembre 1991, Rita. I regolamenti di conto, le vendette, erano altro, gli affari sopra a qualsiasi cosa, avevano la precedenza assoluta e assorbivano tutti vinti e vincitori.
Cose verificate, coincidenti, arricchite, da altri collaboratori del calibro di Francesco Marino Mannoia, Rosario Spatola, Vincenzo Calcara.
BOSS, PICCOLO, PERICOLOSO E SMARGIASSO
Il 18 novembre dell'85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, viene ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia ad rimuginare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto immenso. Riversa allora tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola.
Nicola Atria era un "pesce piccolo" che col giro della droga, aveva fatto i soldi ma non aveva conquistato ancora il “potere”. Comandavano gli Accardo (Cannata). Forse anche su di lui che apparteneva ad altra famiglia. Girava sempre armato e con una grossa moto. Quello fra Rita e suo fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E' Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell'omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… Trasformando così una ragazzina che avrebbe dovuto giocare con le bambole, in custode di segreti più grandi di lei.
Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero (Gero) Cascio, un giovane del suo paese, impegnato nella raccolta del pizzo. Un estorsore  per essere chiari. Un picciotto con grandi possibilità, una bella frequentazione! Anche lui, infatti, faceva parte della consorteria. Uno dei tanti giovani armati al soldo della cosca Cannata che, “ usa avvalersi per i suoi loschi traffici di un’ampia manovalanza giovanile armata e disposta a tutto”. Inutile dire che si trafficava anche in armi. Da Calogero Rita apprende moltissimo, inoltre, grazie al rapporto con lui, tutti gli altri si fidano ancora di più. In presenza di Rita si può parlare o spacciare. Nessuno pensa di nascondersi
Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia.
RAPPORTI E CODICI DI MAFIA

Era l’estate del 1991, sua cognata Piera in località segreta da qualche mese. Gero, il suo fidanzato l’aveva rinnegata, interrotto il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita. Con la madre Giovanna Cannova, donna di mafia, non si sono mai comprese, le univa il padre. Rita è veramente sola. Non sa con chi scambiare due parole. Il suo cuore addoloratissimo guarda e pensa alla vendetta. Sì, vuole vendicare suo padre e suo fratello, le uniche persone buone che le volevano bene, la capivano, la coccolavano. Non sa cosa fare. Sottomettersi come sua madre o ribellarsi?
Nella decisione non c’è il grande ideale, la lotta alla mafia… Ha appena diciassette anni, le hanno ucciso il padre e il fratello. Secondo lei persone speciali. Conosceva solo quel mondo. Solo quel tipo di persone.
Ha tanto pensato, riflettuto… Non si è trattato di iniziativa inconsulta ma ragionata. Sofferte. In solitudine. Fisica e morale.  
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© Shobha
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IO, RITA ATRIA DENUNCIO!

Aria un po' timida, il cuore gonfio di dolore e di coraggio un giorno si ritrova nella stanza del procuratore Paolo Borsellino E parla, parla. Butta fuori quei discorsi fatti a tavola, frasi, bisbigli, nomi pronunciati a bassa voce dal padre o dal fratello. Almeno dieci anni, di resoconti, vicende, strani incontri. Minacce. Paure. Relazioni perverse. Uomini politici coinvolti in omicidi.
Era il cinque novembre del 1991 Rita, ad appena diciassette anni, cominciava a denunciare il sistema mafioso di Partanna e vendicare così l'assassinio del padre e del fratello. Il giudice Paolo Borsellino è un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre. Oltre Borsellino Alessandra Camassa della procura di Marsala e Morena Plazzi della procura di Sciacca. La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma. Sotto falso nome, per mesi e mesi oltre Piera e la piccola Vita Maria non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. Si innamorerà, studierà, sarà interrogata dai magistrati.
Fra tutte le cose che Rita racconta durante gli interrogatori c’è anche il movente dell’uccisione di un politico democristiano di Partanna. Stefano Nastasi, vicesindaco di Vincenzo Culicchia.
" … l’omicidio fu voluto da Vincenzo Culicchia che temendo di perdere la poltrona di sindaco insidiata da Stefanino Nastasi ed al contempo temendo che il successore in tale carica scoprisse tutti gli ammanchi e gli intrallazzi dal Culicchia perpetrati in particolare nell’ambito degli stanziamenti per la ricostruzione dopo il terremoto, decretò la morte del predetto Nastasi “ Rita è diretta, non ci gira attorno. Non usa mezzi termini.
Stefano Nastasi, racconta Rita, godeva di una buona popolarità che si era guadagnata anche gestendo il dopo sisma al posto di Culicchia; era stimato per le sue idee e per la sua caparbietà irremovibile di voler conoscere e vedere chiaro nella gestione dei fondi stanziati per la ricostruzione e sicuramente avrebbe scalzato il vecchio re di Partanna. Secondo Rita fu minacciato e consigliato a desistere nella candidatura delle amministrative del 1983.  “Ciò lo so per certo perché fu proprio mio padre, contattato dagli Accardo, ad invitare il Nastasi a mettersi da parte…” Nulla. Per ripetute volte. La moglie era preoccupata e spesso andava a trovare la famiglia Atria. Mai il contrario. Solo una volta ” …una sera mio padre, mia madre ed io con loro andammo a casa di Stefano Nastasi sempre nel medesimo intento, sottolineo che la presenza mia e di mia madre si rese necessaria proprio per non fare preoccupare eccessivamente la moglie di Nastasi rispetto a quella imprevista visita di mio padre; il quale doveva sostanzialmente comunicare al Nastasi una intimidazione proveniente dagli Accardo e dal Culicchia.Tutte queste cose mi furono riferite ed assimilate nel tempo sia da mio padre che da mia madre la quale spesso tornò su questi argomenti con la moglie di Stefanino Nastasi dopo l’uccisione del di lei marito… Mio padre infatti apprese successivamente dalla moglie del Nastasi che Stefano il giorno dell’omicidio aveva ricevuto una telefonata da una persona che gli aveva chiesto un incontro in quanto doveva portargli le prove degli intrallazzi del Culicchia…” C’è dell’altro, la signora Nastasi, dopo l’assassinio del marito cercava don Vito Atria affinché la aiutasse nella vendetta, cosa che il padre di Rita non poté fare perché consociato con gli Accardo-Cannata, i quali quando lo scoprirono gli imposero di minacciare la donna. Fatto. Successivamente sarà assunta al comune.
Povera Rita, chissà se mentre raccontava queste cose pensava ancora che suo padre fosse un uomo buono che metteva pace. Il fratello Nicola era ancora il suo eroe? Chissà cosa le è passato per la testa e nel cuore, quale dolore e quale delusione man mano che prendeva coscienza della situazione. Del mondo in cui era cresciuta. Quel mondo famigliare da cui si sentiva protetta e coccolata. Ecco perché man mano che i giorni passano il suo rapporto con Borsellino diventa più profondo. Speciale. Quel giudice che la chiama picciridda è l’unico conforto. L’unica speranza. Deve raccontargli tutto, metterlo al corrente, ma arriva l'estate del '92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide.
Un suicidio che non sarà inutile, perché tutte le sue rivelazioni sono state messe agli atti del processo.
LA GIUNTA AUTORIZZA A PROCEDERE
"Fimmina lingua longa e amica degli sbirri" disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno. Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l'aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, sia a lei che a quella poco di buono di sua nuora, Piera Aiello, che la picciridda aveva imitato non perdonava di aver "tradito" l'onore della famiglia. Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente. Messa da altre persone, tante donne venute da fuori.
Le confessioni di Rita hanno convinto i magistrati, a chiedere un’autorizzazione a procedere (poi concessa) per omicidio e associazione mafiosa contro Vincenzo Culicchia, deputato DC e per quasi 30 anni sindaco di Partanna. La richiesta della procura di Marsala, dopo accertamenti condotti dai sostituti Camassa e Russo, e' stata avanzata direttamente al ministero della Giustizia scavalcando la procura generale, cosa che avviene raramente e solo per motivi di urgenza.
 La Relazione della Giunta per le Autorizzazioni a Procedere l’11 maggio del 1992, viene trasmessa al Ministro Martelli e il 15 giugno 1992 presentata alla Presidenza. La Camera concede ai giudici l'autorizzazione a procedere.
L’accusa sostiene e indaga su "Enzo" Culicchia come mandante dell'omicidio di Stefano Nastasi quel giovanotto di Partanna che alle "comunali" del 1983 aveva preso più voti di lui rischiando di soffiargli la poltrona di sindaco.
Da quell’accusa sarà assolto alla fine '97.
CONCLUSIONI
I Tribunali lo hanno assolto. Le decisioni dei tribunali vanno rispettate. Bisogna prenderne atto, ma, il giudizio politico, critico e morale è altra cosa.  Non ha bisogno di tribunali né di sentenze.

L'onorevole Culicchia oggi ottantenne ancora sulla cresta dell’onda è stato assolto. Sul tavolo rimangono i suoi rapporti di amicizia, le sue frequentazioni e gli affari.
Rimangono le sue ramificazioni. Un filo sottile che chi non conosce la storia passata non riesce a vedere, un filo che porta gli allora giovani, seguaci o simpatizzanti, oggi sindaci presidenti, assessori… amici.
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Brandelli di storia
Leggendo la Relazione della Giunta per Autorizzazione a Procedere nei confronti del deputato Vincenzo Culicchia giugno 1992  ” … in un verbale datato 31 luglio 1991 contenenti dichiarazioni rese dal citato Spatola con le quali si accusava tra l’altro, l’onorevole Culicchia di essere un uomo dei “Cannata” potente famiglia mafiosa del paese di origine dell’onorevole. In data 21 agosto 1991 lo Spatola veniva sentito dalla procura di Marsala e confermava tali dichiarazioni rese nel verbale del 31 luglio che nell’occasione provvedeva a sottoscrivere. In un successivo interrogatorio del 29 settembre 1991 lo Spatola precisava le accuse nei riguardi del Culicchia sostenendo che questi anche se non faceva parte organica dell’organizzazione mafiosa, era persona molto vicina alla famiglia degli Accardo che egli favoriva facendo arrivare finanziamenti per opere pubbliche…”
Accertamenti della polizia giudiziaria di Trapani “sembrerebbero confermare, secondo la richiesta dell’Autorità Giudiziaria l’esistenza di rapporti tra il Culicchia e Stefano Accardo, appartenente al clan dei Cannata, soprattutto in relazione all’attività svolta dal Culicchia quale presidente della Cassa Rurale ed Artigiana del Belice, banca fortemente sospetta ed inquinata da esponenti mafiosi di primissimo piano che ne controllerebbero l’operato attraverso persone di loro fiducia”
Circostanze e coincidenze: la Cassa Rurale ed Artigiana del Belice presieduta dal Culicchia ebbe come prima sede i locali della Cooperativa Saturnia il cui presidente era Paolo Lombardino (imprenditore, dalla personalità torbida, personaggio di  rilievo legato agli Accardo), Culicchia socio fondatore …. Secondo i giudici, la Cassa Rurale ed Artigiana del Belice è nata a casa di Rosalia Marinesi, moglie di Francesco Accardo, padrino della famiglia dei "Cannata" in contatto con Gerlando Caruana dell’omonima famiglia coinvolta ai più alti livelli nel traffico internazionale di stupefacenti.
Conflitto di interessi? Molti soci e consiglieri della banca sono strettamente legati alle famiglie Cannata. Una ispezione della banca d’Italia fece emergere  una serie di aspetti che confermavano le indicazioni fornite da Rita Atria e Piera Aiello riguardo ad appropriazione di denaro pubblico. Enzo Culicchia aveva il duplice ruolo di sindaco e di presidente dell’Ente Creditizio.
Secondo Culicchia ciò che rende assolutamente inverosimile le accuse di Rita e Piera “è la circostanza che la prima quando fu ucciso Nastasi aveva solo 9 anni e quando fu ucciso il padre che le avrebbe fatto tale confidenza, aveva solo 11 anni; l’Aiello avrebbe invece ricevuto tale confidenza all’età di sedici anni … è evidentemente inverosimile in quanto un mafioso non confida certe cose gravi a due bambine”.

Testimoni: Francesco, che assieme alla moglie  Piera Lipari sono stati compagni di lotta di Danilo Dolci impegnato per la rinascita della valle del Belice, ricorda “con la ricostruzione si sono arricchiti tutti. Comune per comune lo stato ha controllato tutto. A Partanna abbiamo denunciato Enzo Culicchia, il sindaco perché ha fatto speculazioni su terreno edificabile dove si doveva ricostruire un pezzo del paese distrutto. Piera Lipari in questa lotta  è stata in prima fila".

* articolo pubblicato il 25 luglio 2012 su Casablanca
fonte: www.antimafiaduemila.com

martedì

Nicola Calipari


 è stato un agente segreto italiano ucciso da soldati statunitensi in Iraq, nelle fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista de il manifesto Giuliana Sgrena.

Nicola Calipari entra a far parte degli scout nel reparto «Aspromonte» del gruppo Reggio Calabria 1 dell'Associazione Scouts Cattolici Italiani (ASCI). Dal 1965 segue tutto il percorso educativo fino a diventare, nel 1973, capo scout nei gruppi Reggio Calabria 1 e Reggio Calabria 3 AGESCI.

Laureato in giurisprudenza, nel 1979, si arruola in Polizia e diventa funzionario.

Il servizio in Polizia

Dal settembre 1979 al 1982 Commissario in prova, addetto alla Squadra Mobile prima e Dirigente della Squadra Volanti poi della Questura di Genova.

Nel 1980 collocato in aspettativa per svolgere il servizio militare

Dal 1982 al maggio 1989 ricopre vari incarichi fino a Dirigente della Squadra Mobile prima e Vice Capo di Gabinetto poi della Questura di Cosenza.

Nel 1988 ha effettuato un periodo di missione di tre mesi per collaborare con la National Crime Authority australiana. Dal maggio 1989 al 1993 è in servizio alla Questura di Roma e dal 1993 al 1996 è Vice Dirigente della Squadra Mobile della Questura di Roma.

Nel 1996 è Primo Dirigente della Questura di Roma e dal marzo 1997 al 1999 Direttore del Centro Interprovinciale Criminalpol della Questura di Roma.

Dal 1999 al novembre 2000 diviene Direttore della 3ª e della 2ª Divisione del Servizio Centrale Operativo (SCO) della Direzione Centrale per la Polizia Criminale.

Dal novembre 2000 al marzo 2001 è Vice Consigliere ministeriale alla Direzione Centrale per la Polizia Stradale, Ferroviaria, di Frontiera e Postale del ministero dell'Interno. Dal marzo 2001 all'agosto 2002 Dirigente dell'Ufficio Stranieri della Questura di Roma. L'amministrazione della Polizia gli ha conferito molti riconoscimenti per le operazioni di polizia giudiziaria portate a termine con successo relative, in particolare, ad operazioni antidroga e di contrasto al traffico internazionale di armi.

L'attività al Sismi

Dopo oltre 20 anni di servizio in Polizia entra al SISMI nel 2002 e assegnato agli uffici operativi. Dall'agosto 2002 viene collocato in posizione fuori ruolo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, passando così al Servizio per le informazioni e la sicurezza militare.

Successivamente diviene Capo della 2ª Divisione "Ricerca e Spionaggio all’Estero" del SISMI: di fatto si trattava del numero due nell'ambito operativo per le operazioni estere del Servizio d'intelligence (secondo solo al Direttore generale Nicolò Pollari) e viene assegnato alle operazioni in corso in Iraq. Diventa anche capo di una nuova organizzazione SMIA (Sicurezza Militare Italiana Antimafia) ancora non approvato. Dopo la sua morte la SMIA è decaduta ancor prima di incominciare.

Durante il suo incarico è responsabile, nei territori iracheni, per le trattative felicemente concluse per la liberazione delle operatrici umanitarie Simona Pari e Simona Torretta e dei tre addetti alla sicurezza Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Non si riesce invece a riportare a casa Fabrizio Quattrocchi ed Enzo Baldoni. È inoltre mediatore per la liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, alla conclusione della quale viene ucciso da soldati statunitensi.

La morte

La sera del 4 marzo 2005 un'autovettura dei servizi segreti italiani con a bordo Giuliana Sgrena, l'autista Andrea Carpani e Nicola Calipari, giunta nei pressi dell'aeroporto di Baghdad, transita sulla Route Irish in direzione di un posto di blocco statunitense. La giornalista è stata appena rilasciata dai rapitori, a conclusione di una lunga trattativa condotta da Calipari, che aveva comunicato telefonicamente agli uffici del governo di Roma il felice esito dell'operazione, informando anche l'ambasciata.

La Route Irish è presidiata a causa delle frequenti azioni ostili nella zona (135 da novembre a marzo, per la maggior parte fra le 19 e le 21: ora in cui transitava l'auto del SISMI), e anche per il previsto passaggio dell'allora ambasciatore americano in Iraq John Negroponte. Approssimandosi alla zona vigilata, il veicolo è oggetto di numerosi colpi d'arma da fuoco; Calipari si protende per fare scudo col suo corpo alla giornalista e rimane ucciso da una pallottola alla testa. Anche la giornalista e l'autista del mezzo rimangono feriti. A sparare è Mario Lozano (New York, Bronx, 1969), addetto alla mitragliatrice al posto di blocco, appartenente alla 42ª divisione della New York Army National Guard. Altri soldati sono stati sospettati di aver partecipato alla sparatoria.

Dopo la morte di Calipari la moglie Rosa Maria Villecco nel 2006 è stata eletta senatrice per il Partito Democratico.

Ricostruzioni

Sono state prodotte due versioni dell'accaduto, una italiana ed una americana, fra loro contrastanti in molti punti.

La vicenda ha creato forti attriti diplomatici fra Italia e Stati Uniti d'America, tanto che molti hanno subito richiamato la strage del Cermis, che pure portò ad attriti tra i due paesi, e la magistratura italiana ha aperto un'inchiesta sulla vicenda, incriminando il soldato Mario Lozano per l'omicidio di Calipari e il tentato omicidio di Giuliana Sgrena e dell'autista, Andrea Carpani, maggiore dei Carabinieri in forza al SISMI, entrambi rimasti feriti.

Ricostruzione italiana

Dei sopravvissuti all'episodio le testimonianze sono principalmente quelle di Giuliana Sgrena, giacché l'autista, anch'egli appartenente al SISMI, non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche, sebbene abbia riferito dell'accaduto per via gerarchica.

Come riferito da autorità governative, la Sgrena ha sostenuto di aver visto, dopo una curva, che li avrebbe fatti rallentare fino ad una velocità massima di circa 50 km/h, una luce accecante e poi di aver udito subito dopo l'esplosione di numerosi colpi d'arma da fuoco: diverse centinaia, secondo la giornalista, protrattisi per 10-15 secondi a dire dell'autista.

Giuliana Sgrena ha aggiunto che non si trattava di un posto di blocco e che la pattuglia dei soldati americani non aveva fatto alcun segnale per identificarsi o per intimare l'"alt", come era invece regolarmente accaduto negli altri posti di controllo precedentemente attraversati, iniziando decisamente a sparare contro la loro automobile.

La giornalista dichiarò inoltre che i sequestratori, poco prima della liberazione, le avevano detto che gli statunitensi non volevano che tornasse viva in patria.

Ricostruzione statunitense

Secondo il governo statunitense, la cui versione è stata diffusa il 1º maggio 2005, l'auto viaggiava ad una velocità prossima ai 100 km/h. I militari del check-point 541 avrebbero seguito la cosiddetta procedura delle quattro S.

Nel corso della sparatoria, alcuni dei proiettili sarebbero stati accidentalmente deviati ed uno avrebbe centrato alla testa Calipari, protesosi in avanti per proteggere con il suo corpo la giornalista.

I funzionari statunitensi hanno inoltre asserito che nessuno era a conoscenza dell'operazione condotta dal SISMI, né dell'identità delle persone a bordo di quell'auto, regolarmente presa a nolo all'aeroporto di Baghdad.

Il rapporto americano era inizialmente uscito con numerose censure, per circa un terzo dell'elaborato, che mascheravano sotto strisce nere i nomi dei soldati implicati ed altri dettagli; pubblicato ufficialmente su Internet in formato pdf, il documento fu decifrato in pochi istanti tramite copia-incolla.

L'inchiesta effettuata dai militari statunitensi ha concluso che la sparatoria avvenuta il 4 marzo 2005 al posto di blocco presso l'aeroporto di Baghdad è stata «un tragico incidente».

Differenze tra le ricostruzioni

La differenza principale fra le due versioni è costituita dalla velocità alla quale il veicolo italiano procedeva, che secondo gli statunitensi era di circa 100 km/h, mentre secondo gli italiani era di circa la metà. L'importanza di questo fattore risiede nella motivazione dell'azione dei soldati, che in caso d'alta velocità avrebbero potuto confondere l'auto con uno dei frequenti attacchi mediante auto-bomba.

Un'altra divergenza riguarda la richiesta di arresto del mezzo per controllo, che secondo gli statunitensi sarebbe stata operata correttamente, mentre secondo Giuliana Sgrena non vi sarebbe stata affatto, mancando la segnaletica e non essendovi stati cenni o altre indicazioni in questo senso.

Secondo gli italiani le forze americane erano state correttamente avvertite; dall'altra parte si è ribattuto che gli italiani non avevano invece dato avviso alcuno delle loro attività nella zona.

Video

L'8 maggio 2007, durante il notiziario serale del TG5, è stato trasmesso in esclusiva un video contenente alcune immagini dei primi momenti successivi alla sparatoria. Il video è stato girato dallo stesso Mario Lozano e mai consegnato alla commissione d'inchiesta statunitense.

Dalla visione del video emergono due punti chiave:

I fari della Toyota Corolla su cui viaggiava il funzionario del SISMI erano accesi, mentre i soldati americani hanno testimoniato fossero spenti. Questo è considerato un punto chiave: il fatto che i fari fossero spenti avrebbe potuto far immaginare che gli occupanti dell'automobile stessero attuando un attentato.
L'auto è ferma ad almeno 50 metri dal carro armato americano, da ciò si deduce che l'auto al momento dei primi spari si trovasse ad una distanza almeno superiore ai 50 metri, dal momento che è necessario un tempo di frenata. Se, come afferma la versione statunitense, l'auto procedeva a 100 km orari, al momento degli spari l'auto avrebbe dovuto trovarsi a ben più di 150 metri di distanza. I soldati coinvolti invece hanno sempre sostenuto di aver sparato perché l'auto era molto vicina e di non avere altra scelta.

Sospetti

Il governo statunitense si era espresso in senso fortemente critico nei confronti dei servizi segreti italiani, che secondo la parte statunitense non avevano esitato a pagare ingenti riscatti per la liberazione di altri sequestrati in Iraq. Tale condotta, sostengono gli Stati Uniti, costituirebbe un pericoloso incentivo per le bande criminali a compiere altri sequestri di persona. Lo stesso Calipari, nel caso, sarebbe stato diretto destinatario di tali critiche, vista la centralità del suo ruolo in trattative tenute per precedenti rapimenti.

Alla luce anche di successive intercettazioni, si è perciò sospettato un atto premeditato, anche in virtù delle affermazioni di Giuliana Sgrena, cui i rapitori, liberandola, avrebbero segnalato che gli Stati Uniti non avrebbero gradito un suo ritorno a casa.

Anche escludendo una premeditazione, alla luce dei fatti e delle menzogne dimostrate dal video successivamente emerso, l'accaduto ha sollevato cocenti critiche verso l'organizzazione statunitense e la disinvoltura sull'uso delle armi. Un'analisi oggettiva sulle tempistiche verificabili coi reperti a disposizione, infatti, conduce alla conclusione che anche se vi fosse stato l'avviso di fermarsi, non si sarebbe lasciato ai malcapitati il tempo di arrestarsi prima che venisse aperto il fuoco.

Si è inoltre avanzata una richiesta di rispetto della dignità nazionale, già vilipesa dalla condotta delle istituzioni statunitensi nel caso della strage del Cermis, i cui responsabili erano stati tutti assolti o condannati a pene irrisorie. Si richiese, in pratica, che se in questo caso si fossero accertate responsabilità, gli eventuali colpevoli ricevessero pene severe.

Inchieste

Al fine di stabilire cosa sia veramente accaduto, negli Stati Uniti è stata istituita una commissione d'inchiesta, ai cui lavori sono stati ammessi osservatori italiani nell'intento di produrre una relazione conclusiva comune, che potesse fugare qualsiasi dubbio circa la correttezza nei rapporti fra le due nazioni.

In Italia, la magistratura ha incontrato difficoltà ed impedimenti nello svolgimento della funzione inquirente a causa del particolare status della zona in cui si sono svolti i fatti, che risultava essere territorio iracheno sottoposto a controllo militare e sovranità di fatto statunitense; negato dagli Stati Uniti il permesso di far analizzare a tecnici della polizia scientifica italiana il veicolo su cui viaggiava Calipari, i giudici hanno dovuto attendere la conclusione dei rilievi statunitensi per poter avere a disposizione il mezzo. Il diniego, motivato con ragioni militari, ha di fatto provocato lo scadimento del valore probatorio del reperto, rendendone l'esame sostanzialmente inattendibile.

Nel 2005 la Procura di Roma ha avviato un'inchiesta in merito alle dichiarazioni e alle vicende di Gianluca Preite, ingegnere informatico che, lavorando per il Sismi, avrebbe intercettato una comunicazione satellitare la sera del 4 marzo 2005. Da questa intercettazione si evincerebbe come la morte di Nicola Calipari non sia stata causata da un incidente, ma da un disegno criminoso ben preciso al quale avrebbero partecipato anche alti ufficiali militari italiani. Nel corso della conversazione, uno dei rapitori della Sgrena avrebbe riferito che la vettura su cui viaggiavano Calipari e la Sgrena in realtà era un'autobomba diretta all'aeroporto, proprio per accertarsi che gli americani aprissero il fuoco sugli italiani. La versione dell'ingegner Preite sembrerebbe essere stata confermata dal fatto che nel corso di un interrogatorio dei servizi segreti giordani a un detenuto, Sheik Husain, che viene definito come un ex leader della cellula di Bagdad di al Qaeda, è emerso che per il riscatto della Sgrena sarebbero stati pagati 500 mila dollari e che lo stesso Husain, una volta incassata la somma, avrebbe denunciato con una telefonata anonima la presenza di esplosivo nella macchina su cui si trovavano i tre italiani, pronta a saltare in aria all’arrivo all’aeroporto, circostanza che convinse i soldati americani ad aprire il fuoco al suo passaggio. Sull'intercettazione telefonica sono state affettuate varie perizie, una ordinata dai Magistrati del Pool Antiterrorismo della Procura della Repubblica di Roma (Franco Ionta, Pietro Saviotti ed Erminio Amelio), l'altra effettuata per conto della difesa del Preite, impegnato nel processo che lo vede posto a giudizio per accesso abusivo ad un sistema informatico e altri reati connessi, nonostante in sede processuale sia stato già accertato il suo lavoro per il SISMI. Il processo è in corso presso il Tribunale Penale di Roma, nel quale Gianluca Preite è difeso dal penalista Carlo Taormina.

Colloqui diplomatici e pressioni

L'incontro di Palazzo Chigi del 2 maggio 2005
Il 2 maggio 2005, in un colloquio presso Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio dei Ministri discusse assieme all'ambasciatore americano a Roma, Mel Sembler, del rapporto italiano in via di pubblicazione. Erano presenti Gianfranco Fini (ministro degli esteri), Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza), Gianni Castellaneta (ambasciatore italiano a Washington), Nicolò Pollari (capo del Sismi), il diplomatico Cesare Ragaglini e il generale del Sismi Pierluigi Campregher.

In base alle comunicazioni di Mel Sembler a Washington, rivelate a fine 2010 da Wikileaks e dal Guardian, appare come il rapporto italiano, almeno nella parte in cui definiva l'omicidio Calipari come "non intenzionale", fosse stato appositamente costruito per impedire ulteriori inchieste della magistratura, ed evitare che la vicenda danneggiasse i rapporti bilaterali Italia-USA e l'impegno militare italiano in Iraq. Il governo Berlusconi III si sarebbe impegnato a bloccare i tentativi di ulteriori indagini da parte delle commissioni parlamentari, così come già richiesto dall'opposizione di centrosinistra, sostenendo la tesi del "tragico incidente".

All'ambasciata americana viene comunicato (come trasmesso per nota da Mel Sembler a Washington) che il rapporto italiano indica che:

« gli investigatori italiani non hanno trovato prove che l'omicidio è stato intenzionale: questo punto è stato costruito specificatamente (designed specifically) per scoraggiare altre indagini della magistratura, visto che per la legge italiana possono aprire inchieste sulla morte di cittadini italiani all'estero, ma non in caso di omicidio non intenzionale (Nota: i nostri contatti hanno messo in guardia che i magistrati italiani sono famigerati per forzare queste leggi ai loro scopi, quindi resta da verificare se la tattica del governo italiano avrà successo) (...) Il rapporto è stato scritto avendo i magistrati in mente »

Nel colloquio si fa inoltre cenno all'opportunità che il presidente George W. Bush chiami Berlusconi il giorno successivo, prima che il 5 maggio Berlusconi si presenti in Parlamento per discutere il rapporto.

Sembler, inoltre, raccomanda che l'amministrazione USA non critichi approfonditamente il rapporto italiano, in quanto si produrrebbero "conseguenze asimmetriche": un'immagine troppo accondiscendente, o sleale, del governo italiano di fronte all'opinione pubblica potrebbe causare "severe conseguenze" al governo Berlusconi e all'impegno militare italiano in Iraq.

Il governo Berlusconi IV si è dissociato dal contenuto delle comunicazioni di Sembler, definendole come "valutazioni personali" e "fuorvianti". Nonostante ciò il Comitato Parlamentare di controllo per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) coordinato da Massimo D'Alema ha richiesto per la stessa giornata del 21 dicembre 2010 le audizioni di quanti, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda, tra cui Nicolò Pollari, capo del Sismi all'epoca dei fatti, e Gianluca Preite, anch'egli coinvolto nell'inchiesta (vedi sopra), e altri ufficiali militari dei servizi segreti.

Il cable di wikileaks

Nel 2011 Wikileaks ha pubblicato un cable risalente al 9 maggio 2005 (redatto dopo che il premier aveva riferito del caso in parlamento) in cui l'ambasciata americana a Roma conferma l'amicizia fra Italia e Stati Uniti e, per evitare problemi, il presidente del consiglio fa capire agli americani che li "lascerà fare" nel mostrare la loro versione, senza fornire alcun contraddittorio. L'ambasciatore inoltre fa notare che per gli investigatori americani era una cosa ovvia chiedersi come mai di 30 auto che avevano attraversato il posto di blocco solo una è stata presa a mitragliate

Il colloquio D'Alema-Rice del giugno 2006

Del caso Calipari l'allora ministro degli Esteri Massimo D'Alema ha parlato con il segretario di Stato Condoleezza Rice, nel corso della sua visita a Washington del giugno 2006, lamentando una «collaborazione insufficiente fino a questo momento» da parte degli statunitensi sulla vicenda; il portavoce del Dipartimento di Stato Adam Ereli ha così commentato: «Se gli italiani hanno preoccupazioni, le affronteremo».

L'incontro Castellaneta-Negroponte del 30 marzo 2007

Il 30 marzo 2007 si incontrarono l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti Giovanni Castellaneta e John Negroponte, allora vicesegretario di Stato americano, che esercitò pressioni affinché il processo in contumacia a Mario Lozano fosse fermato. Negroponte sottolineò come il processo a Lozano fosse "molto problematico", esortando il governo Prodi II a premere sul tribunale in quanto "le azioni sul campo di guerra esulano dalla sua giurisdizione" e "un processo in contumacia è un messaggio orribile e va fermato (stopped)". Castellaneta comunicò agli americani che "i crimini commessi all'estero ricadono nella giurisdizione di Roma" e che la Corte ha "alzato il livello di gravità del crimine per poter procedere all'estradizione". Nel resoconto dell'ambasciata, l'ambasciatore italiano "si è detto d'accordo che il caso tra i nostri due governi è chiuso, ma non ha dato molta speranza sul fatto che il governo rallenti o blocchi il processo".

Sentenze

Primo grado

La Procura della Repubblica di Roma il 19 giugno 2006 ha formalizzato la richiesta di rinvio a giudizio per il militare americano Mario Lozano, imputato per l'omicidio di Nicola Calipari e per il ferimento della giornalista Giuliana Sgrena: il processo contro Lozano sarebbe possibile, secondo la Procura di Roma, essendo stata ipotizzata a suo carico la responsabilità in un "delitto politico che lede le istituzioni dello Stato italiano", una fattispecie riconducibile all'articolo 8 del Codice di procedura penale che consente di procedere contro chi abbia arrecato offesa a interessi politici dello Stato. L'imputazione è stata assunta in quanto Mario Lozano risulta irreperibile ed è mancata la collaborazione richiesta e non ottenuta dagli Stati Uniti, avendo le autorità americane respinto anche una rogatoria internazionale presentata dalla Procura di Roma.

Secondo grado

Il 25 ottobre 2007, la Terza Corte d'Assise di Roma ha prosciolto l'imputato Mario Lozano non potendo procedere per difetto di giurisdizione. Secondo il giudice italiano, difatti, le forze multinazionali in Iraq ricadono sotto la giurisdizione penale esclusiva dei rispettivi paesi d'invio. Ciò secondo una consuetudine internazionale, detta "legge dello zaino", che derogherebbe alla norma italiana sull’esercizio dell’azione penale.

Cassazione

La sentenza è stata successivamente impugnata dalla Procura di Roma avanti la Corte di Cassazione.

Con sentenza del 19 giugno 2008, la I Sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della Procura di Roma, confermando la mancanza di giurisdizione italiana sul caso. La Suprema Corte, ha però smontato le motivazioni addotte dalla Corte d’Assise, valutando «davvero inadeguata» l’interpretazione resa dal giudice di primo grado. Secondo la Cassazione, al momento dei fatti, la missione militare internazionale in Iraq non operava in regime di occupazione militare (come invece sostenuto dalla Corte d’Assise per giustificare l’assenza di giurisdizione), e, in ogni caso, Calipari non faceva parte di detta missione.

L’assenza di giurisdizione viene invece motivata con l’esistenza di un’ulteriore consuetudine che garantirebbe l’immunità funzionale (ratione materiae), dalla giurisdizione interna dello Stato straniero (nel caso di specie, quello italiano) del funzionario statale (ossia il soldato Lozano) che abbia agito iure imperii (cioè sotto poteri autoritativi).

Secondo la Corte, l'immunità verrebbe meno soltanto in presenza di una “grave violazione” del diritto internazionale umanitario (ossia al verificarsi di un crimine di guerra o di un crimine contro l'umanità), non riscontrata però nel caso di specie.

Onorificenze

Nicola Calipari è stato insignito il 19 marzo 2005 dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, della medaglia d'oro al valor militare alla memoria.

fonte: Wikipedia

Michele Vinci


Mostro di Marsala è la denominazione utilizzata dai media per riferirsi alla vicenda del rapimento e omicidio di tre bambine a Marsala nell’ottobre del 1971.

Per il delitto è stato condannato lo zio di una delle vittime, Michele Vinci, che ha scontato 28 anni di reclusione prima di essere liberato nel 2002. Nonostante ciò, le dinamiche del fatto non sono state chiarite del tutto; in seguito ad una puntata della trasmissione televisiva Telefono giallo dedicata alla vicenda, il caso era stato riaperto da Paolo Borsellino nel 1989 ma la mancanza di ulteriori prove aveva costretto i magistrati a chiuderlo nuovamente. Michele Vinci dopo aver scontato la pena ed essere stato scarcerato nel 2002, e andato a vivere in provincia di Viterbo, non ritornando mai più a Marsala.

Il rapimento e le ricerche

Il 21 ottobre 1971, a Marsala, in provincia di Trapani, si perdono le tracce di tre bambine. Ninfa Marchese di sette anni, la sorella Virginia di cinque e la cugina Antonella Valenti di nove escono da casa per accompagnare a scuola Liliana, sorella di Antonella. Percorrono circa duecentocinquanta metri per giungere all’istituto elementare e dopo aver visto la bambina entrare in aula, si avviano di nuovo verso casa senza però mai giungervi.

La famiglia Valenti è da poco emigrata in Germania per lavoro e la bambina vive con il nonno Vito Impiccichè che, non vedendola tornare da scuola con le sue amiche, decide di avvertire i carabinieri. Le indagini scattano il mattino seguente. A dirigerle è il giudice Cesare Terranova, già procuratore d'accusa al processo contro la mafia corleonese tenutosi nel 1969 a Bari, e giudice della sentenza che condannerà all’ergastolo Luciano Liggio nel 1975. Le prime ricerche si concentrano soprattutto nelle vaste campagne marsalesi, spingendosi fino ai territori vicini di Castelvetrano, Mazara del Vallo e Campobello. Partecipano al pattugliamento del territorio più di duecentocinquanta volontari.

Dalle prime testimonianze raccolte subito dopo la denuncia alle autorità competenti, sembra che le bambine siano state viste insieme a un uomo di giovane età nei pressi della scuola e che l’uomo si sia poi allontanato con loro a bordo di una Fiat 500 blu. La segnalazione impone un lungo controllo al pubblico registro automobilistico di Trapani per cercare i nomi di tutti i proprietari di veicoli come quello segnalato.

La prima pista battuta è comunque quella del crimine a sfondo sessuale da parte di un pedofilo. Per questo, Terranova ordina un censimento di tutti coloro che hanno precedenti specifici, per portarli nel suo ufficio e sottoporli a interrogatorio. Nonostante i numerosi appelli di Terranova la fuga di notizie è inevitabile e la piccola comunità marsalese, profondamente colpita dalla vicenda, reagisce spesso impulsivamente quando viene a conoscenza del nome di un sospettato.

Testimoni

Tra i testimoni c’è un benzinaio tedesco, Hans Hoffmann, sposato con una siciliana e gestore di una pompa nei pressi di Mazara del Vallo. Hoffman si presenta il 23 ottobre in questura dichiarando di aver visto due giorni prima una Fiat 500 blu con dei bambini dietro, che sbattevano le mani sul vetro come per chiedere aiuto. Ma la sua testimonianza viene smontata da un altro testimone, Giuseppe Li Mandri che si reca dai carabinieri spontaneamente dicendo di essere stato lui alla guida della Fiat 500 vista da Hoffman mentre si dirigeva in ospedale per trovare un parente, e che dietro non erano le bambine a sbattere le mani sul vetro, bensì suo figlio che si lamentava. Il giudice, costretto a richiamare Hoffman per riascoltare i fatti dopo la contro testimonianza di Li Mandri, scopre che il benzinaio tedesco è frattanto partito per la Germania.

La moglie di Li Mandri, chiamata a confermare la versione del marito, dice di non aver mai sentito parlare del parente in ospedale. Ma le indagini vengono azzerate quando pochi giorni dopo, Li Mandri perde la vita precipitando da un terrazzo durante un'operazione di lavoro.

Il primo cadavere

La mattina del 26 ottobre il corpo della prima bambina, Antonella Valenti, viene trovato in una scuola abbandonata in contrada Rakalia a Marsala, dall'idraulico Ignazio Passalacqua che si era trovato casualmente sul posto. Il ritrovamento suscita le perplessità degli inquirenti poiché la scuola era stata perlustrata il giorno prima senza nessun riscontro. La bambina è stata dunque portata nella scuola nella notte precedente, quando tra l’altro l’intera zona in questione era stata oscurata da un blackout.

Il cadavere risulta parzialmente carbonizzato, con la testa avvolta da nastro adesivo che ne ha causato la morte per soffocamento. L’analisi sul corpo ha accertato che l’assassino ha seviziato la bambina ma non ha usato violenza sessuale, allontanando la tesi degli inquirenti che si erano messi alla ricerca di un maniaco mosso da impeto omicida. La bambina non è morta subito dopo il rapimento ma è stata nutrita con pane, salame e cibo in scatola e tenuta in vita fino a poche ore prima del suo ritrovamento.

L’indizio più importante è il ritrovamento accanto al corpo del rotolo di nastro adesivo con il quale Antonella è stata soffocata. Dopo l’analisi del rotolo che non rileva la presenza di nessuna impronta, si scopre che l’unica impresa a Marsala ad utilizzare questa particolare tipologia di nastro da imballaggio è l’azienda cartotecnica di S. Giovanni, verso cui Terranova rivolge le indagini.

Per Terranova la testimonianza di Hoffman e il nastro adesivo rappresentano gli unici elementi da cui ripartire nella ricerca del “Mostro” e delle altre due bambine ancora disperse. In seguito al ritrovamento del cadavere di Antonella, le indagini riscontrano un cambiamento di direzione: non si cerca più soltanto tra coloro che hanno precedenti di crimini psicoviolenti, ma anche tra coloro che potrebbero avere in qualche modo odio nei contronti della famiglia Valenti.

La confessione di Vinci

Tra i numerosi indiziati che si alternano negli interrogatori c’è anche Michele Vinci, zio di Antonella Valenti, sposato con la sorella della madre, Maria Impiccichè. Vinci è già stato ascoltato da Terranova poco dopo il ritrovamento di Antonella, ma nella notte tra il 25 e il 26 ottobre, sembra avere un alibi che regge abbastanza bene; ha infatti passato la notte in casa con i familiari improvvisamente tornati dalla Germania, assentandosi solo per mezz’ora quando, per volere di Maria Impiccichè, madre di Antonella, era andato a casa dei Valenti a controllare se la bambina fosse tornata. Secondo Terranova, Vinci non avrebbe avuto la possibilità di andare a spostare il corpo di Antonella nella scuola abbandonata e poi ritornare a casa in un così breve lasso di tempo. Tuttavia, stando alle descrizioni dei numerosi test ascoltati i tratti somatici dell’uomo visto con le bambine, sembrano corrispondere a quelli di Vinci. Lo zio della vittima è inoltre proprietario di una Fiat 500 blu e lavora come fattorino presso la cartotecnica di San Giovanni, unico posto in cui era possibile reperire il rotolo di nastro trovato nel luogo del delitto.

Dopo averlo seguito in segreto, gli uomini del comando Carabinieri di Marsala consegnano a Terranova indizi tali che inducono il procuratore a firmare un mandato di comparizione nei confronti di Vinci. Nella mattinata del 9 novembre, Vinci è condotto in procura con la moglie e Pina, sorella di Antonella che viveva con lo zio da quando i genitori si erano trasferiti in Germania. La moglie viene ascoltata per prima; dichiara che il giorno della sparizione il marito non era tornato a casa a pranzare come faceva di consueto, pur essendo uscito dall’azienda per la pausa alle 14. A questo punto Vinci viene sottoposto a un lungo interrogatorio al quale sembra rispondere con precisione. Sono circa le 22.40 quando confessa di essere stato l’autore del rapimento delle tre bambine. Aggiunge di averle prese per appartarsi con loro, soprattutto con Antonella, per la quale provava una forte attrazione. Per quanto riguarda le sorelle Ninfa e Virginia, Vinci dichiara di averle gettate in una cava profonda circa 20 metri situata in contrada Amabilina a Marsala, presso un podere di proprietà dell’agricoltore Giuseppe Guarrato.

La confessione fa scattare subito l’arresto di Michele Vinci, creando stupore in tutta la comunità che lo aveva visto partecipare attivamente alle ricerche delle bambine e ai funerali della nipote, durante i quali appariva particolarmente colpito per il tragico evento.

Gli altri due corpi e l'autopsia

Nella notte tra il 9 e il 10 novembre, tutto l’apparato investigativo è indirizzato nel luogo indicato da Vinci. L’area viene chiusa da posti di blocco di carabinieri e polizia per impedire l’accesso alle centinaia di persone che, dopo aver atteso davanti alla procura, si erano messe al seguito delle forze dell’ordine.

Ai bordi del pozzo, proprio in prossimità della sua imboccatura, i carabinieri trovano circa un metro di nastro adesivo, dello stesso tipo utilizzato per imbavagliare Antonella. Attaccati al nastro vengono trovati dei capelli biondi di donna la cui identità rimarrà per sempre un mistero. Le operazioni di recupero sono tutt’altro che agevoli; il pozzo è una cava di tufo abbandonata larga circa 10 metri, ricoperta all’interno da una folta vegetazione che rende impossibile riuscire a vedere il fondo. I corpi di Ninfa e Virginia vengono riportati in superficie alle 5.45, confermando la confessione di Vinci.

In una nuova ispezione della cava la squadra calatasi all’interno del pozzo ha modo di rilevare segni di unghia in un tufo reso molle da una falda acquifera, oltre una scarpetta di Ninfa e un paio di mutandine. Le bambine dovevano quindi essere ancora vive una volta finite dentro il pozzo.

L’autopsia rileva anche tracce di processo di asfissia nei tessuti polmonari dei cadaveri e, visto che la circolazione d’aria nel pozzo è più che sufficiente, non può escludere che la morte sia avvenuta in un luogo diverso. Secondo i risultati dell'autopsia, la morte risalirebbe a 4/5 giorni dal ritrovamento per Virginia, e due tre giorni per Ninfa. I periti escludono la morte per asfissia d'anidride carbonica, ma confermano la morte per "fenomeni asfittici", che, per la mancanza di lesioni, potrebbero essere stati causati da mezzi soffici.

A destare sospetti sono anche i capelli di donna rinvenuti sul nastro, che potrebbero appartenere ad una complice che può aver badato alle bambine nei giorni successivi al sequestro fino alla loro morte. Il caso che sembrava risolto, si complica alla luce dei nuovi risvolti che fanno vacillare le confessioni di Vinci.

Fase istruttoria del processo

Dopo una breve permanenza al carcere di Ragusa, Vinci è trasferito al carcere di Mistretta, dove Il 9 dicembre è di nuovo interrogato dal giudice Terranova e da Libertino Russo, cui è stata affidata l'istruttoria per il triplice omicidio.

Vinci continua a sostenere la tesi secondo cui tutto è cominciato dalla bevanda offertagli da un uomo che gli avrebbe “sconvolto il cervello”, portandolo a commettere gli efferati omicidi. Tuttavia, più che negli interrogatori precedenti, Vinci sembra tradirsi circa il luogo e le ore di prigionia di Antonella Valenti; dichiara di aver tenuto la bambina nascosta nei cespugli vicini al pozzo dove sono state rinvenute le sorelle Marchese, poi di averla condotta nella scuola abbandonata dove l’ha nutrita fino a che non l’ha trovata morta decidendo di darle fuoco.

Queste affermazioni presentano contraddizioni che non sfuggono a Russo e Terranova. La zona in questione è abitata e sarebbe stato impossibile per Vinci agire senza essere visto dalla gente, a meno che fra gli abitanti del luogo non ci fosse stato qualche complice del “Mostro”. A tal proposito Giuseppe Guarrato, proprietario del fondo, viene arrestato con l’accusa di concorso in omicidio e in sequestro di persona.

Le perizie

In seguito a questo nuovo colloquio, Russo dispone delle perizie psichiatriche per stabilire se effettivamente Vinci era capace di intendere e di volere, sia al momento del fatto che nelle proprie dichiarazioni nel corso delle indagini. La prima perizia, condotta nel settembre del 1972, dai professori Rubino, Pinelli e Ferracuti, non raggiunge un verdetto unanime: mentre Rubino sostiene che Vinci fosse nel pieno delle sue facoltà, gli altri due lo giudicano seminfermo di mente e pericoloso per sé e gli altri.

La contraddizione del verdetto costringe Russo a disporre una nuova perizia nel mese successivo. Questa viene affidata ai professori Longo, Failla Ernesto, e Catapano, tre famosi psichiatri campani. Nella nuova perizia i professori raggiungono un verdetto unanime descrivendo Vinci come un freddo mistificatore che continua a mentire con estrema abilità.

La lettera di Vinci

Una prima svolta della fase istruttoria condotta da Libertino Russo proviene da una lettera che Vinci scrive dal carcere, indirizzata alla moglie. Nel documento, valutato attentamente da Russo, Vinci sembra individuare un movente e delineare la figura di un ipotetico complice. Questa sembra anche essere la conclusione con cui il giudice completa la fase istruttoria. Alla luce delle rivelazioni di Vinci, Russo non esclude un intervento mafioso che avesse imposto l’esecuzione del delitto di Antonella Valenti all’atto del ritorno del padre dalla Germania.

Il processo

Le accuse a Nania

Il processo fu celebrato al tribunale di Trapani. Pubblico ministero del processo contro Vinci fu Giangiacomo Ciaccio Montalto, poi vittima della mafia a causa dell’ostinazione con cui si adopererà contro Cosa nostra. La prima udienza si conclude con un'ordinanza di rinvio. In sede processuale Michele Vinci chiede, per motivi di sfiducia, la sostituzione del legale che lo aveva assistito dall’inizio della vicenda. Il neo difensore di Vinci, l'avvocato Esposito, richiamando il diritto alla difesa, ottiene il rinvio per potere consultare tutti i dati del caso che si era improvvisamente ritrovato tra le mani.

Nella successiva udienza, Michele Vinci ritratta le sue ammissioni e sostiene di aver rapito le bambine perché costretto da Fanco Nania, ma di non aver loro torto neanche un capello. Nania, fino a quel momento insospettato, svolge la professione di insegnante di elettrotecnica presso la scuola media di Pantelleria e ricopre l’incarico di direttore della società cartotecnica presso cui Vinci lavorava. Vinci afferma di avere incontrato Nania in un capannone una sola volta e di essere stato minacciato dal professore che avrebbe preso di mira Vinci e la sua famiglia nel caso in cui Michele non avesse preso Antonella.

Tuttavia sono scarse le prove che Vinci porta contro Nania durante il processo. Nonostante le dichiarazioni sembrino incastrarsi bene nell’ambito della ricostruzione del fatto, Vinci cade spesso in contraddizione soprattutto riguardo l’ordine cronologico degli avvenimenti che hanno coinvolto Nania, dimostrandosi incapace di rispondere a facili domande. Nania comunque è subito arrestato e il processo viene rinviato per instaurare un’istruttoria per accertare la posizione del professore, adesso accusato di concorso in sequestro e triplice omicidio.

Nei tre mesi successivi, i magistrati non trovano nulla che possa confermare la pesante accusa mossa da Vinci. I P.M. organizzano dunque un confronto fra i due, ma Nania continua a restare fermo nelle sue dichiarazioni di assoluta estraneità ai fatti e Vinci non porta alcun elemento che possa rendere credibile la sua versione. L’istruttoria contro Nania si conclude con il pieno proscioglimento del professore.

Le accuse a De Vita

Nelle successive udienze di novembre, i pubblici ministeri focalizzano le loro domande sull’uomo misterioso che avrebbe avvicinato Vinci prima del sequestro. Durante gli interrogatori Vinci ricorda quando, poco prima del fatto, nella piazza dove attendeva le bambine, l’uomo l’aveva avvicinato offrendogli un bitter. Vinci lo descrive dettagliatamente, ricorda le sue presunte parole ma continua a dire di non conoscerlo.

Quattro mesi più tardi, il 5 marzo 1974, improvvisamente Vinci chiede di essere ascoltato dalla sua cella di isolamento perché pronto a rivelare il nome dell’uomo che lo aveva avvicinato prima del fatto. Vinci fa il nome di Nicola de Vita, zio delle sorelle Marchese, altra persona fino a quel momento totalmente insospettata. Rintracciato dai carabinieri De Vita viene condotto al carcere di San Giuliano per effettuare un confronto con “il mostro”. Vinci afferma con decisione di aver consegnato le bambine a De Vita, che sarebbe anche l’uomo che lo ha avvicinato prima del rapimento.

Secondo indiscrezioni trapelate dal confronto, subito dopo aver lanciato questa accusa, Vinci si sarebbe chiuso improvvisamente nel silenzio nonostante lo stesso De Vita lo invitasse a parlare non avendo apparentemente nulla da nascondere. Tuttavia nemmeno stavolta Vinci porta alcuna prova a sostegno della sua tesi, rendendo inevitabile anche il proscioglimento delle accuse verso De Vita.

Padre Fedele

Nell’udienza del 6 maggio 1974 si assiste a un nuovo colpo di scena. Vinci ricorda di aver consegnato una lettera che lo scagionava a padre Fedele, parroco della chiesa dell’Addolorata a Marsala ma don Fedele è morto appena da una settimana, stroncato da una trombosi cerebrale. Vinci dice di aver scritto quella lettera dopo le minacce di Nania per farla consegnare alla moglie nel caso gli fosse successa qualche disgrazia.

La Corte d’Assise ordina comunque la perquisizione della casa del sacerdote e della parrocchia alla ricerca della lettera. Del documento però non si ha alcuna traccia. Nascono invece sospetti sulla morte improvvisa del prete per cui viene richiesta la riesumazione. Tuttavia l’autopsia sul corpo del parroco non porta gli inquirenti a nessuna nuova scoperta.

Sentenza

La sentenza viene letta il 10 luglio 1975: nonostante i numerosi dubbi sollevati nel corso dell’indagine sulla possibilità che Vinci possa essere stato da solo l’artefice dei delitti, la corte di Assise di Trapani lo condanna all’ergastolo come unico responsabile del sequestro e omicidio delle bambine, il cui movente viene individuato nella morbosa passione di Vinci per la nipote Antonella; la sentenza sarà tramutata in appello a 28 anni di reclusione.

Giuseppe Guarrato coimputato per concorso in sequestro, è invece assolto dall’accusa perché secondo la Corte il fatto non sussiste.

Altre ipotesi

La tesi di Montalto

Il pubblico ministero del processo contro Vinci Giangiacomo Ciaccio Montalto, attraverso lo scrittore Vincenzo Consolo, in quel periodo redattore de L'Ora di Palermo, rese nota una tesi che, a detta di Consolo, non fu rivelata a nessuno perché Montalto, che già riceveva minacce di morte, non si fidava nemmeno dei suoi superiori.

Secondo Montalto il padre di Antonella, Leonardo Valenti, era un corriere della droga per conto della mafia. Valenti era quindi emigrato in Germania perché voleva rompere questo tipo di rapporto. Il rapimento di Antonella, ad opera di Michele Vinci, sarebbe stato eseguito per volere della mafia, per far tornare i Valenti dalla Germania.

Sequestro di persona

Diciassette anni dopo, il giornalista Vito Palmieri, all’epoca dei fatti corrispondente a Trapani per la RAI, fu autore di una nuova testimonianza. Palmeri riferisce di una confidenza fattagli da Vinci, con il quale era entrato in confidenza nel corso del processo; Vinci racconta al giornalista che Leonardo Valenti avrebbe dovuto partecipare al sequestro del deputato regionale DC Salvatore Grillo. Il racconto di Vinci nel '75 non fu preso in considerazione dagli inquirenti, poiché, come spiega l'avvocato Elio Esposito, all’epoca difensore di Vinci, quelle dichiarazioni "non furono rese nel corso del processo, ma a un giornalista".

Il 28 dicembre 1988, poco dopo le dichiarazioni di Palmeri, Vinci torna a far sentire la sua voce e sostenendo la tesi che già aveva confidato al giornalista della RAI, non rinnegando nemmeno le accuse che aveva formulato molto tempo prima verso Nania e Nicola De Vita. In quest’intervista, afferma che in una riunione organizzata in casa di Nania, cui avrebbero partecipato Leonardo Valenti e altre persone a lui sconosciute, si sarebbe organizzato il sequestro dell'onorevole Grillo, cui Vinci e Valenti avrebbero dovuto partecipare. Vinci, che in quell’occasione dice di essere stato assente perché fuori provincia per lavoro, afferma che sia lui che il cognato Valenti si sarebbero tirati indietro, subendo entrambi pesanti conseguenze: Valenti sarebbe stato costretto alla fuga in Germania e Vinci, minacciato più volte da Nania, sarebbe stato costretto a prendere Antonella e consegnarla a Nicola De Vita.

In seguito alla trasmissione dell’intervista in una puntata di Chi l'ha visto?, per queste dichiarazioni Vinci verrà denunciato per diffamazione dal cognato Leonardo Valenti.

fonte: Wikipedia