mercoledì

la storia di Anteo Zamboni, il ragazzo che voleva uccidere Mussolini


«Degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà.» 
Tra l'inizio del novembre 1925 e la fine dell'ottobre 1926, Benito Mussolini scampò a quattro attentati. Secondo molte voci questi eventi finalizzati ad uccidere il Duce erano ispirati da potenze straniere. Mussolini ne ricavò la certezza d'essere protetto da una buona stella. L'attentato che più mise in pericolo la vita dell'uomo nato a Predappio fu l'ultimo dei quattro, evento avvenuto a Bologna il 31 ottobre del 1926. L'accadimento della città emiliana destò profondo dolore per l'esecuzione sommaria dell'attentatore, un ragazzo che aveva da poco superato i 15 anni. Quel ragazzo si chiamava Anteo Zamboni.
Anteo nacque a Bologna l'11 d'aprile del 1911. Figlio di Mammolo Zamboni e Viola Tabarroni. Solitario e taciturno, fu soprannominato in seno alla famiglia “il patata”, pare a causa della sua scarsa intelligenza.
Il padre, ex anarchico, svolgeva l'attività di tipografo. Probabilmente abbandonò gli ideali anarchici nel momento in cui ricevette il compito di stampare i fogli di propaganda fascista della locale sezione del partito.
Si sa, gli ideali sono importanti, ma il pane in tavola bisogna pur metterlo.
Anche il figlio Anteo sarà ricordato da tutti come giovane anarchico malgrado avesse aderito all'organizzazione giovanile fascista, forse in questo spinto dal padre o forse il ricordo sarà costruito in funzione dell'attività svolta dal padre.
Ricostruite gli ideali di un quindicenne risulta complesso, ancora di più a quasi un secolo dagli eventi narrati.
Possiamo facilmente ricostruire i fatti di quella sera dell'ottobre 1926.
Ricostruirli sino al momento antecedente lo sparo poiché, in questo caso, non vi è un Gaetano Bresci che candidamente ammette l'omicidio, ricordato come regicidio, di Re Umberto.


Il 31 ottobre 1926 ricorreva il quarto anniversario della nomina a primo ministro di Mussolini dopo la marcia su Roma.
Bologna attendeva l'evento con il vestito della festa: la città era addobbata con fasci e tricolori.
La gente premeva sulle spalle del vicino per il passaggio del corteo fascista.
Voci sommesse e urla sguaiate.
Bambini tenuti per mano e neonati lanciati nel tramonto della sera.
I nemici del regime furono messi preventivamente sotto custodia.
Mussolini si trovava a Bologna non solo per la commemorazione ma, soprattutto, per l'inaugurazione del nuovo stadio Littorale, all'epoca il più capiente d'Italia.
Il Duce si trovava a bordo di un'automobile scoperta, guidata dal Ras di Bologna, Leandro Arpinati, amico del padre del futuro attentatore.
Arpinati non fu solo amico del padre, ma ne condivise gli ideali anarchici in gioventù.
Il corteo delle automobili si dirigeva verso la stazione quando, all'altezza di via Indipendenza, uno sparo di rivoltella echeggiò nella gioiosa festa d'ottobre.
Il colpo mancò il bersaglio.
Questione di millimetri.
Il proiettile trapassò la fascia dell'Ordine Mauriziano che Mussolini indossava, lasciandolo illeso. La ricostruzione del concitato momento la troviamo nelle parole del maresciallo maggiore Francesco Burgio: «Mi trovavo come spettatore accanto ai militari di prima linea che erano di cordone, presso l'angolo di via Rizzoli e di via dell'Indipendenza, quando giunse il corteo presidenziale. Mentre dalle finestre dei palazzi cadevano fiori sull'automobile del Duce, un individuo, allontanato bruscamente un soldato del cordone, ha allungato il braccio destro in direzione dell'onorevole Mussolini facendo l'atto di sparare. Per fortuna un maresciallo dei carabinieri, il signor Vincenzo Acclavi, del nucleo di Trieste, dava un brusco colpo al braccio dello sconosciuto; così che il colpo, esploso in quel momento, deviava e il Duce sfuggiva per miracolo al criminoso gesto dell'attentatore. Fra i primi ad afferrare lo sparatore furono un tenente del 56º fanteria ed alcuni squadristi.» Il tenente di fanteria che per primo agguantò il presunto attentatore era Carlo Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo.
Il giovane una volta bloccato fu colpito.
Ripetutamente.
Fu pugnalato.
Quattordici, 14, volte.
Fu esploso un colpo di pistola, indirizzato al corpo che inerme giaceva sul selciato.
Il ragazzo, morente, fu spogliato e abbandonato ai margini del corteo di gente e automobili.


Benito Mussolini rientrò a Roma.
Il 25 novembre del 1926 furono approvati alcuni provvedimenti eccezionali contro gli antifascisti.
Poco dopo, o forse a causa, dell'attentato di Bologna nascevano le Leggi per la difesa dello Stato.
L'attentatore, meglio sarebbe descriverlo come lo strano attentatore poiché si trattava di un quindicenne figlio di persone legate all'ambiente fascista, era morto. Non poteva dare spiegazioni necessarie a trovare i mandanti.
Le indagini inizialmente si svolsero negli ambienti dello squadrismo locale, Bologna, e di città vicine, Cremona.
Il Ras di Bologna, Arpinati, era amico del padre dell'attentatore. Amicizia maturata nella comune appartenenza ad ideali anarchici, che i due abbandonarono per convenienza politica o economica. Le accuse rivolte ad Arpinati parvero infondate, non così quelle nei confronti del Ras di Cremona, il famoso Roberto Farinacci, ricordato da molti come la “suocera del regime” a causa del suo impegno politico nei confronti di alti gerarchi fascisti.
Perché Farinacci, fascistissimo, avrebbe dovuto attentare alla vita di Mussolini?
Il Ras di Cremona perse molte simpatie nelle alte sfere del regime dopo la decisione di difendere personalmente uno degli assassini di Matteotti. Il Duce voleva poco clamore intorno al processo, ma Farinacci fece in modo che l'obiettivo di Mussolini fosse disatteso.
Tra una seduta e l'altra fu costretto alle dimissioni e al ritorno nella natia Cremona, dove svolse l'attività di avvocato non smettendo mai di propugnare il ritorno al fascismo delle origini. Raccolse intorno a se molti consensi, che l'elevarono alla figura di anti-Duce. Farinacci fu l'unico gerarca fascista non invitato ufficialmente alle celebrazioni di Bologna. Molte testimoni dichiararono d'aver visto il Ras di Cremona nella città emiliana, dove si aggirava solitario e accigliato per le vie del centro.
Esistendo chiare possibilità di un complotto interno al regime fascista, le autorità imposero di non indagare ulteriormente visto le gravi ripercussioni che ciò avrebbe avuto sull'opinione pubblica.
L'attentato era opera di un elemento isolato.
Un ragazzo di quindici anni di età.


Possibile che un quindicenne avesse operato da solo un attentato al Duce?
Le autorità ipotizzarono la presenza sulla scena del crimine del fratello maggiore di Anteo Zamboni, Ludovico, nonché la corresponsabilità del padre Mammolo e della zia, Virginia Tabarroni. Lodovico Zamboni fu presto scagionato da ogni responsabilità poiché si trovava a Milano nel corso di quella giornata d'ottobre. Le autorità si concentrarono sull'ipotesi del complotto familiare, basandosi unicamente sui trascorsi anarchici di Mammolo Zamboni.
I procedimenti penali si conclusero con la condanna a 30 anni di carcere per Mammolo e Virginia, responsabili d'aver influenzato il giovane Anteo con idee anarchiche. I fratelli Lodovico e Assunto furono scagionati da ogni responsabilità ma comunque condannati al confino in quanto elementi pericolosi: Lodovico a Ponza e Assunto a Lipari.
Il confino fu stabilito per un periodo di 5 anni.
Il 24 novembre 1932, Benito Mussolini decise di graziare i condannati. Questa decisione fu influenzata dal forte intervento di Arpinati, amico di Mammolo, che all'epoca della grazia ricopriva la carica di sottosegretario agli interni.
Mammolo Zamboni continuò a professare l'assoluta innocenza del figlio e della famiglia.
Proclami che cambiò radicalmente nel secondo dopoguerra.
Mammolo sostenne che la paternità dell'attentato era del figlio Anteo, inoltre spiegò che dovette professare l'innocenza del ragazzo per scagionare se stesso e la famiglia dalle accuse.
E se dietro gli attentati a Mussolini vi furono intrighi internazionali?
Francia e Gran Bretagna potevano avere interessi ad eliminare il Duce?
Il 7 aprile del 1926, un'aristocratica irlandese, Violet Albina Gibson, sparò a Mussolini ferendolo leggermente al naso. La famiglia della Gibson aveva relazioni amichevoli con il ministro degli Esteri britannico, sir Austen Chamberlein. Il governo inglese cercò di convincere Mussolini ad insabbiare il caso, accadimento che probabilmente riuscì dato che il 12 maggio 1927 il tribunale speciale dichiarò la Gibson incapace d'intendere e volere ordinandone l'espulsione dall'Italia.
Di certo c'è solo che Mussolini impose drastici cambiamenti, inserendo la pena di morte per chiunque attentasse alla vita del Re, della Regina o del principe ereditario, senza dimenticare il presidente del Consiglio.
Scolpito nella memoria collettiva il sentito intervento del Papa, Pio XI, dopo l'attentato di Bologna: «si tratta di un criminale attentato il cui solo pensiero ci rattrista e che ci fa rendere grazie a Dio per il suo fallimento.»


Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia

Franco Fucci – Le polizie di Mussolini, la repressione dell'antifascismo nel Ventennio – Milano, Mursia 1985

Marco Cesarini Sforza – Gli attentati a Mussolini. Per pochi centimetri fu sempre salvo – Storia Illustrata 1965

Brunella della Casa – Attentato al Duce. Le molte storie del caso Zamboni – Bologna, Il Mulino 2000

Arrigo Petacco – L'uomo della provvidenza – Milano, Mondadori 2004

Sandro Gerbi – Perché il Patata sparò al Duce – Il corriere della sera, 15 febbraio 1996

Mario Fusti Carofiglio – Vita di Mussolini e storia del Fascismo – Torino, Società Editrice Torinese 1950



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