giovedì

Italia: USA & mafia dal 1943





 di Gianni Lannes

Per dirla con Ignazio Silone: "Dopo la liberazione dal fascismo bisogna liberarsi dell'antifascismo". Invasione ed occupazione, altro che liberazione alleata. Ecco perché mandano in onda una finta lotta alla mafia. Al di là della farsa elettorale, ben oltre il recente teatrino dei politicanti italidioti, altro che recenti accordi istituzionali di livello criminale. Nel belpaese la trattativa Stato& Mafia è antica, propedeutica all’armistizio corto di Cassibile, datato 3 settembre 1943. Nei documenti ufficiali, non solo di Washington, ma perfino della colonia tricolore, si evince, che la Repubblica è stata ipotecata fin dagli albori dal patto di Washington con la mafia italo-americana (operazione Husky).  


Nel febbraio 1946 Lucky Luciano viene rilasciato sulla parola ed estradato in Italia dallo stesso uomo che l’aveva messo in prigione: Thomas E. Dewey, che da giudice nel frattempo è diventato governatore dello stato di New York. A Lucky Luciano grazie alle clausole segrete del Trattato di Pace del 1947, siglato a Parigi, dagli anni ’50 viene addirittura consentito di impiantare in Italia il traffico di eroina. 


 Lucky Luciano



Un consiglio di lettura, già pubblicato: il rapporto Scotten dell’ottobre 1943. Allora, di che meravigliarsi se lo Stato tricolore ( e i vari governi) non hanno mai condotto una vera lotta alle organizzazioni criminali, ben protette dall’alleato-padrone, e lasciato ammazzare i suoi migliori rappresentanti. 




Ecco, di seguito, uno stralcio esemplificativo di una relazione della Commissione parlamentare stragi durante la VI legislatura.
«L’esistenza di un rapporto diretto tra settori politici e istituzionali e il potere mafioso è dato che, sin dalla fase fondativa della Repubblica, può ritenersi evincibile da documentate certezze» è quanto si legge nella relazione di minoranza del Movimento sociale italiano, presentata al termine dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia della VI legislatura, vi sono, sotto forma di allegati, due documenti che appaiono di grande interesse per chiarire la possibile origine di un dialogo con la mafia di settori politici e istituzionali, fondando, sia pure sulla base di una valutazione probabilistica, l’ipotesi che tale dialogo (in forme ora armistiziali, ora più intensamente collusive) sia proseguito nei decenni successivi. Sono due rapporti, con classifica di segretezza, inviati dal console generale degli Stati Uniti a Palermo, Alfred T. Nester, al Segretario di Stato il 21 e il 27 novembre 1944.

Il titolo del primo è “Meeting of Maffia Leaders with General Giuseppe Castellano and formation of group favoring autonomy”. Il testo, anch’esso in inglese, recita:

«Signore, ho l’onore di informarla che il 18 novembre 1944 il generale Giuseppe Castellano, insieme ai capi della Mafia, presente Calogero Vizzini, si è incontrato con Virgilio Nasi, capo della nota famiglia Nasi di Trapani, e gli ha offerto di assumere la direzione del Movimento per l’autonomia siciliana, appoggiato dalla Maffia (…). Il Movimento è ancora in una fase iniziale di organizzazione, quindi questo mio rapporto non potrà essere completo. Il generale Castello (…) ha stretto contatti con i capimaffia e li ha incontrati in più occasioni. Come già riferito nel mio dispaccio n. 65 del 18 novembre 1944, membri importanti della Maffia si sono incontrati a Palermo, e uno dei risultati di questi incontri è stato di chiedere a Virgilio Nasi di Trapani di mettersi alla testa del Movimento, con l’obiettivo di diventare Alto Commissario per la Sicilia. (…) [3]. Il secondo documento, datato, come si è detto, 27 novembre 1944, ha per titolo: “Formation of group favoring Autonomy under direction of Maffia”. In esso è ripreso il testo di un rapporto dell’OSS nel quale è detto tra l’altro: “Dopo tre giorni di incontri segreti con esponenti della Maffia a Palermo, il generale Giuseppe Castellano, comandante della divisione Aosta di stanza in Sicilia, ha steso una bozza di accordo sulla scelta e l’appoggio di un candidato come Alto Commissario per sostituire il favorito Salvatore Aldisio, della Democrazia Cristiana. (…). Il candidato è un cavallo oscuro, un famoso siciliano, Virgilio Nasi, boss della provincia di Trapani, che è stato avvicinato dal generale Castellano, dopo aver esposto il suo piano ai capi dell’alta Maffia durante la settimana. L’incontro tra il generale Castellano e Nasi è avvenuto sabato su una spiaggia fuori mano a Castellammare del Golfo. Erano presenti due luogotenenti di Nasi, l’ex aiutante del generale Castellano in Nord Africa e a Roma, il capitano Vito Guarrasi e l’avvocato Vito Fodera” [4]. Sono dati che non hanno soltanto un valore storico chiuso alla fase fondativa della nostra Repubblica [5], ma che assumono rilievo anche alla luce di nuove ipotesi accusatorie formulate dalla magistratura inquirente, con riferimento ad una continuità di relazioni che dirigenti politici e di governo di assoluto rilievo avrebbero stabilito, nel corso dell’ultimo quarantennio, con uomini e ambienti vicini e addirittura organici alla mafia. Dovuta è peraltro l’avvertenza che, nell’assunta prospettiva d’indagine, tali clamorosi episodi, che pur meritano opportuna verifica giudiziaria, assumerebbero, se positivamente verificati, il rilievo non tanto come momenti in cui veniva stretto o confermato un patto collusivo, quanto in realtà come momenti di crisi di un rapporto armistiziale ben più antico; un armistizio che, peraltro, acquista un senso compiuto nel chiarimento delle condizioni storiche che lo hanno determinato e reso possibile, in una situazione internazionale che – già e videnziatasi sul finire del secondo conflitto mondiale – ha poi caratterizzato e permeato di sé l’intera storia successiva. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è degna di qualche rilievo la dichiarazione a suo tempo rilasciata al settimanale Panorama dall’ex agente della Cia Victor Marchetti: “la Mafia, per sua natura anticomunista è uno degli elementi su cui poggia la Cia per tenere sotto controllo l’Italia” [6]. Visto in questa luce, il rapporto con la mafia appare come un fenomeno funzionale ad un più vasto disegno di diplomazia segreta. Naturalmente non si può dimenticare che la mafia è primariamente un fenomeno criminale, ma è certo che, per comprendere pienamente gli eventuali siciliani e talora nazionali dell’ultimo quarto di secolo, occorre tener presente anche questo aspetto. E’ molto verosimile che l’iniziale inglobamento della mafia siculo-americana all’interno del piano strategico di sbarco alleato nel luglio 1943 sia stato poi prolungato nel tempo al fine di conservare un controllo della Sicilia come “ridotto” difensivo finale del Mediterraneo meridionale in caso di offensiva terrestre sovietica. Sul punto e conclusivamente basterà sottolineare la specularità di logica che sembra collegare i ricordati anzidetti documenti del 1944 alla risposta che, secondo un collaborante di giustizia, un uomo di vertice della mafia avrebbe dato ad un referente politico di massimo livello in momento di acuta crisi del supposto rapporto: “In Sicilia comandiamo noi” Se non volete cancellare completamente la Democrazia Cristiana dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare solo sui voti del Nord, dove votano tutti comunista” [7]. E’ un episodio quest’ultimo che, giova rammentarlo, necessita ancora di una compiuta verifica in sede giudiziaria, ma che, ove verificato, salderebbe in termini di continuità la prova di un lungo armistizio tra il potere costituito e l’organizzazione mafiosa, chiarendone da un lato le ragioni di reciproca convenienza, inserendolo dall’altro in un quadro ben più ampio di quello siciliano e che travalica, nella sua logica complessiva, gli stessi confini italiani. 2. Le direttive internazionali nei documenti del National Security Council Il quadro internazionale più volte richiamato, che si determinò già nella fase finale del secondo conflitto mondiale e venne a consolidarsi nei decenni successivi, è così noto da non meritare forse troppa ampia esplicitazione. Sicché è solo compiutezza espositiva che induce a rammentare, sia pure in termini di dovuta sommarietà, come il 12 marzo 1947 il Presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, di fronte al forte espansionismo sovietico nell’Europa orientale, pronunciò dinanzi al Congresso il celebre discorso che sarebbe stato ricordato come l’enunciazione della dottrina che porterà il suo nome. In base ad essa gli Stati Uniti si facevano carico di proteggere militarmente qualsiasi zona del mondo fosse stata minacciata da eserciti di paesi comunisti e da forme di guerriglia comunque appoggiate da paesi di area comunista. Una enunciazione programmatica, che informò di sé tutta la politica statunitense del successivo quarantennio. Sui riflessi che tale politica ebbe nella situazione interna italiana la Commissione ha già ampiamente riferito al Parlamento nella prerelazione relativa all’organizzazione Gladio. Sono dati su cui appare ora opportuno ritornare nella prospettiva di un’indagine volta a ricostruire una realtà storica complessiva, di cui l’attivazione della struttura Gladio costituisce soltanto un momento. In tale direzione indagativa la Commissione ha già sottolineato l’importanza che rivestono i documenti del National Security Council, a partire dal documento n. 1/2 del 10 febbraio 1948. In previsione di una possibile invasione dell’Italia da parte di forze militari provenienti dall’Europa Orientale, o nell’ipotesi che una parte dell’Italia cadesse sotto dominazione comunista a causa di una insurrezione armata o di altre iniziative illegali, il governo degli Stati Uniti predispose un piano articolato in sette punti, il cui ultimo paragrafo prevedeva di: “Dispiegare forze in Sicilia o in Sardegna, o in entrambe, con il consenso del governo italiano legale e dopo consultazione con gli Inglesi, in forze sufficienti ad occupare queste isole contro l’opposizione comunista indigena non appena la posizione dei comunisti in Italia indichi che un governo illegale dominato dai comunisti controlla tutta la penisola italiana” [8]. Ancor più interessante è il documento successivo: NSC 1/3 dell’8 marzo 1948, dal titolo: “Posizione degli Stati Uniti nei confronti dell’Italia alla luce della possibilità di una partecipazione comunista al governo attraverso sistemi legali” [9]. Fin dalle prime righe del documento, il problema politico viene posto con grande chiarezza. Si legge infatti: “Gli interessi degli Stati Uniti nell’area del Mediterraneo, relativi ai problemi di sicurezza, risultano seriamente minacciati dalla possibilità che il Fronte Popolare, dominato dai comunisti, ottenga una partecipazione al Governo attraverso le elezioni nazionali che si terranno in aprile e che, come conseguenza di ciò, i comunisti, seguendo uno schema ormai consueto nell’Europa dell’Est, potrebbero riuscire ad ottenere il completo controllo del Governo e a trasformare l’Italia in uno stato totalitario subordinato a Mosca. Un’eventualità del genere produrrebbe un effetto demoralizzante in tutta l’Europa occidentale, nel Mediterraneo e nel Medio Oriente” [11]. Nella parte conclusiva del documento sono elencati i provvedimenti che gli Stati Uniti dovrebbero prendere “nel caso in cui i comunisti italiani dovessero riuscire ad ottenere la guida del governo attraverso sistemi legali” [11]. Tra essi figurano, al punto a): “Prendere delle misure immediate, compreso ciascun tipo di misura coercitiva, per realizzare una mobilitazione limitata”, e al punto d): “Fornire assistenza militare e finanziaria alla base anti-comunista italiana” [12]. I documenti della serie NSC1 vennero sostituiti, a partire dall’aprile 1950, con quelli della serie NSC67; l’ultima versione, l’NSC67/3, redatta dal National Security Council il 5 gennaio 1951, venne infine approvata dal Presidente degli Stati Uniti l’11 dello stesso mese. Si trattava di una sintesi delle ipotesi previste dall’NSC1/2 e NSC1/3 con una leggera limitazione in quanto l’attacco esterno all’Italia ricadeva ora nella responsabilità della Nato. Il documento trattava quindi delle misure preventive e, eventualmente, punitive da adottarsi in caso di insurrezione interna appoggiata dall’esterno o di partecipazione del partito comunista al governo con mezzi legali. Fra le misure preventive è da notare il suggerimento, messo in pratica alcuni mesi più tardi (Dichiarazioni anglo-franco-americana del 26 settembre 1951), di avviare le procedure per una revisione informale del Trattato di pace, specialmente di quelle parti che imponevano dei limiti sulla qualità e la quantità delle Forze armate nazionali. Le misure punitive in caso di insurrezione interna erano volutamente lasciate nel vago; gli stessi JCS (Joint Chiefs of Staff) avevano insistito su questo punto; si auspicava infatti di “utilizzare le forze militari statunitensi in modo da essere in grado di impedire, quando necessario, che l’Italia cada sotto il dominio comunista” [13]. Una ulteriore clausola specifica che ciò sarebbe stato attuato in ogni caso con il consenso del governo italiano e secondo le direttive elaborate nell’occasione dai JCS. Ancora più vaghe apparivano le misure legali: “Gli Stati Uniti dovrebbero dare corso alle iniziative (censura) mirate ad impedire la presa del potere da parte dei comunisti e a rafforzare la determinazione italiana di opporsi al comunismo” [14]. Queste direttive rimasero immutate durante il primo anno della nuova amministrazione Eisenhower. Nell’aprile 1954, l’NSC67/3 venne sostituita dall’NSC5411/2: il documento si differenziava da quelli dell’amministrazione precedente per l’insistenza sull’importanza strategica della penisola nell’ambito della Nato, definita a “una posizione geografica cardine” [15]. Il documento analizzava i successi del sostegno americano alla rinascita economica italiana e il parallelo fallimento della politica anticomunista. Il miglioramento della situazione economica non aveva funzionato come antidoto all’affermazione dei socialcomunisti (come dimostravano i risultati elettorali del 1953); l’anticomunismo dei governi succedutisi dopo le elezioni politiche del 1953 avevano dato prova di grande instabilità. L’NSC auspicava per l’Italia un governo costituzionale democratico, sorretto da una florida situazione economica. L’ipotesi di un governo autoritario di destra, anche se definita preferibile a quella di un governo comunista, non veniva prospettata come uno scenario desiderabile (ed è questo un profilo importante perché individua nella stabilizzazione del quadro politico italiano, il principale obiettivo strategico comunque perseguito). Venendo alle tradizionali ipotesi previste in merito ad una presa di potere comunista (attacco esterno, insurrezione interna sorretta da un appoggio sovietico, mezzi legali), la versione disponibile del documento è pesantemente censurata; in essa non appare dunque alcun riferimento alle ultime due ipotesi e, nel caso della prima, il riferimento va, come già nell’NSC67/3, alla garanzia fornita dal Trattato Nord Atlantico. Non è dato sapere quindi cosa sarebbe successo nelle altre due ipotesi. Si arriva così all’NSC6014 del 16 agosto 1960 in cui la parte analitica era approfondita ulteriormente secondo le linee già tracciate dall’NSC5411/2. Il documento rilevava ancora una volta come, a partire dalle elezioni del 1953, l’instabilità politica di governo fosse ststa accentuata dalle spaccature interne al partito di maggioranza, dall’incapacità di formare coalizioni di governo durature e dalla differenza di opinioni esistenti nelle varie forze democratiche sulla credibilità di una partecipazione socialista al governo. Per questo si auspicava l’appoggio all’evoluzione del PSI vreso posizioni autonome rispetto al PCI e filo-occidentali. Finché tale cambiamento non fosse stato palese, l’influenza del PSI sulla politica estera e sulla politica di difesa nazionale doveva essere contrastata. Il maggiore pericolo, stando così la situazione, era “che le forze politiche ed economiche conservatrici e quelle clericali costituissero con le forze neofasciste un Fronte nazionale contrapposto a un Fronte popolare, guidato dai comunisti, comprendente le classi lavoratrici e gli elementi democratici della sinistra moderata” [16]. In sostanza, pur riconoscendo, come era stato dichiarato nel NSC 5411/2, che un regime autoritario sarebbe stato meno pericoloso nel breve periodo per gli interessi della politica estera americana, si affermava che nel lungo periodo avrebbe avuto un effetto deleterio, aggravando le frizioni interne e rafforzando in ultima analisi lo stesso partito comunista. Per quanto riguarda la parte punitiva, la censura impedisce anche in questo caso di valutare appieno il significato del documento. Non è chiaro infatti se le misure prese in considerazione per contrastare l’avvento con mezzi legali o illegali del PCI al governo fossero solo di tipo non militare (come appare dal testo) o non comprendessero invece altri tipi di interventi (eventualmente censurati). Va comunque sottolineato che una versione aggiornata dello stesso documento (NSC6014/1 del 19 gennaio 1961) escludeva l’ipotesi di azioni militari in questa circostanza almeno che non fossero attuate di concerto con altri alleati europei. La lettura dei documenti attinenti l’Italia negli anni ’50 sembra dunque screditare l’ipotesi di un intervento militare diretto americano automatico in caso di avvento del PCI al governo con mezzi legali o illegali. Rimanevano in piedi le tattiche elaborate fin dal 1948 dello stesso NSC per fronteggiare il pericolo comunista a livello mondiale. Si trattava di quelle che vennero definite covert operations nella direttiva NSC 10/2 del 18 giugno 1948: erano misure che avrebbero affiancato le attività all’estero di carattere ufficiale e per le quali, a differenza di queste, non doveva essere possibile risalire alla responsabilità del governo americano. Si trattava, cioè, di operazioni legali e illegali di cui il Governo avrebbe avuto la paternità, ma non avrebbe assunto la responsabilità. La tipologia di queste operazioni era assai vasta. Si trattava di “propaganda, guerra economica; azione preventiva diretta, comprendente il sabotaggio, l’antisabotaggio, misure di demolizione ed evacuazione; sovversione contro Stati ostili, comprendente assistenza a movimenti clandestini di resistenza, a gruppi di guerriglia e di liberazione di rifugiati, nonché appoggio ad elementi indigeni anticomunisti nei paesi del mondo libero minacciati” “Tali opinioni” … “non dovranno includere conflitti armati condotti da forze militari riconosciute, spionaggio, controspionaggio, copertura e occultamento di azioni militari” [17]. Responsabile di questo tipo di operazioni era la nuova branca della CIA, l’Office of Special Projects; solo in caso di guerra, o quando il Presidente degli Stati Uniti lo avesse richiesto, i piani per le covert operations (operazioni coperte) sarebbero stati coordinati con i Joint Chiefs of Staff. Ciò significa che la CIA godeva, in questo campo e in tempo di pace, della massima discrezionalità. Questa direttiva, modificata secondo termini che rimangono sconosciuti (NSC10/5, non rinvenuta), rimase in vigore fino al marzo 1954, quando venne approvato un nuovo documento riguardante le covert operations che, nel frattempo, erano diventate un cavallo di battaglia della nuova amministrazione Eisenhower. Le attività delle aree dominate o minacciate dal comunismo internazionale venivano in questo documento specificate con chiarezza (e senza censure). Si trattava di “sviluppare una resistenza clandestina, favorire operazioni coperte e di guerriglia ed assicurare la disponibilità di tali forze nel caso di conflitto bellico, compreso sia l’approntamento, ovunque praticabile, di una base a partire dalla quale l’esercito posa espandere, in tempo di guerra, il suddetto tipo di forze nell’ambito di teatri attivi delle operazioni, sia l’approntamento di strutture stay behind e strumenti per l’evasione e la fuga”. [18] La novità del documento non consisteva solo nel prevedere la creazione di “Stay-behind assets” (“strutture stay behind“) poggiati su basi costituite nei vari paesi fin dal tempo di pace per attivarle in tempo di guerra, ma anche nel preconizzare la collaborazione fra CIA e militari non solo in caso di conflitto (come risultava dal documento precedente). Questo aspetto venne ulteriormente chiarito in una revisione del NSC 5412, ovvero l’NSC 5412/2 del 28 dicembre 1955, in cui si prospetta la necessità per la CIA di avvisare il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, nonché un rappresentante dello stesso Presidente riguardo alle attività intraprese sotto il titolo di covert operations. La discrezionalità della CIA era cioè fortemente ridotta e la corresponsabilità degli organi consultanti parallelamente accresciuta. Il punto chiave della collaborazione tra CIA e militari era la disponibilità delle basi di appoggio per le attività clandestine da attuarsi in territori comunisti o minacciati dal comunismo…». 

Victor Marchetti, ex agente segreto americano, autore peraltro di Propaganda and Disinformation: How the CIA Manufactures History e del travagliato CIA. Culto e mistica del servizio segreto, dichiarò al settimanale Panorama nel febbraio 1976:

«La mafia, per sua natura anticomunista, è uno degli elementi su cui poggia la CIA per tenere sotto controllo l’Italia».

fonte: https://sulatestagiannilannes.blogspot.it/


riferimenti:














venerdì

storia "espressa" del caffè


«Questa preziosa bibita che diffonde per tutto il corpo un gioconda eccitamento, fu chiamata la bevanda intellettuale, l’amica dei letterati, degli scienziati e dei poeti perché, scuotendo i nervi, rischiara le idee, fa l’immaginazione più viva e più rapido il pensiero. […] Il caffè esercita un’azione meno eccitante ne’ luoghi umidi e paludosi ed è forse per questa ragione che i paesi ove se ne fa maggior consumo in Europa sono il Belgio e l'Olanda. In oriente dove si usa di ridurlo in polvere finissima e farlo all'antica per beverlo turbo, il bricco, nelle case private è sempre sul focolare. […] preso poi la mattina a digiuno pare che la sbarazzi lo stomaco dai residui di una imperfetta digestione e lo predisponga a una colazione più appetitosa» (Artusi, 2012, pp. 417-420).  È con queste parole che Pellegrino Artusi descrive il caffè nella sua celeberrima opera gastronomica La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Ma che cosa è, in realtà, il caffè? Sono molti gli aspetti che trascendono la semplice bevanda: il caffè è un rito sociale, ed “andare a prendere un caffè” non vuol mai dire semplicemente andare a sorbire un infuso ottenuto con le bacche di questa pianta proveniente dall’Oriente. Se vogliamo questa frase significa «“uscire” per installarsi in un altro spazio protetto, coniugando l’abitudine e l’istante, la permanenza ed il provvisorio, l’altrove e il qui» ed il bar rappresenta «il luogo privilegiato in cui sperimentare, vivere e ritrovare il rapporto» (Augé, 2016, p. 52).


Ma proseguiamo con ordine: come vari prodotti anche il caffè ha diverse leggende di fondazione. Si racconta che il Kaldi pascolasse le sue capre in Etiopia; un giorno gli animali incontrando una pianta di caffè cominciarono a mangiarne le bacche e a masticarne le foglie. Arrivata la notte, le capre, anziché dormire, si misero a vagabondare con energia e vivacità mai espressa fino ad allora. Vedendo questo, il pastore ne individuò la ragione e abbrustolì i semi della pianta come quelli mangiati dal suo gregge, poi li macinò e ne fece un'infusione, ottenendo il caffè. 
La seconda leggenda tira in ballo addirittura Maometto, il profeta dell’Islam, che, sentendosi male, vide l’arcangelo Gabriele offrirgli una pozione nera creata da Allah, che gli permise di tornare in forze. Ed infine si può citare una leggenda di un incendio in Abissinia di piante selvatiche di caffè che diffuse nell’aria il suo fumo e profumo per chilometri di distanza.


La bevanda si diffuse inizialmente in Medio Oriente, dove troviamo, nel XV secolo, addirittura luoghi deputati al consumo di questa bevanda, con tanto di figura di “capo caffettiere”, il Kahvecibasi, personaggio importante alla corte del Sultano. È Francis Bacon, nel 1627, a fornirci la descrizione di questi luoghi, paragonati alle taverne europee, mentre la prima città italiana in cui fece uso di questa bevanda fu Venezia, a causa proprio della vicinanza e dei commerci con l’Oriente. Le prime botteghe di cui abbiamo notizie certe furono aperte nel 1645, ma si suppone fossero aperte già dal XVI secolo. 
Proprio nel Seicento, in Europa, una libbra di caffè veniva pagata fino a 40 scudi, questo perché gravato da pesanti tasse, che ne destinavano il consumo ai soli aristocratici (cfr Malaguzzi, 2013, p. 36). Ma l’aumento della richiesta portò ad una diminuzione dei prezzi e soprattutto ad una diffusione della bevanda: già nel 1663 a Londra si contavano ben 80 coffehouse, che una cinquantina di anni più tardi divennero 3 mila. Ed il primo caffè di Parigi, inaugurato nel 1689, venne aperto da un italiano, tal Francesco Procopio, di origini palermitane (cfr Beccaria, 2017, p. 147). 


I caffè divennero subito luoghi culturali, di nascita e di diffusione di idee liberali, luogo di ritrovo per dotti, politici, filosofi ed artisti. 
Nel Settecento ogni città europea aveva almeno un caffè, mentre negli Usa il primo caffè aprì a Boston: si tratta del London coffee house, aperto nel 1689, seguito nel 1696 dal King’s arms di New York. A partire dal secolo dei Lumi, attraverso i caffè (intesi come luogo), circolano idee, e non solo prodotti esotici! 
Nel 1776 Metastasio, in una lettera indirizzata a Saverio Maffei, descrive la Bottega del caffè come il luogo dove viene servita «la più deliziosa bevanda di quasi tutti i viventi» (citato in Beccaria, 2017, p. 146). E non è un caso che questo nome sia stato utilizzato per indicare un periodico culturale molto importante, Il caffè appunto. Una bevanda che, come descritto anche da Artusi, riesce a rallegrare l’animo, a risvegliare chiunque lo provi, accelerando il moto ed infondendo nel sangue “un sal volatile”: «calda come l’inferno / nera come il diavolo / pura come un angelo / dolce come l’amore», «fortifica lo stomaco ed il cervello, sollecita la digestione, leva il dolor di testa, rarefà il sangue, abbassa i vapori, reca allegrezza, impedisce di dormire dopo il pasto» (Gibelli, 2004, pp. 172-173). In una parola un vero e proprio stimolante per il corpo e per lo spirito! 
Con il passare del tempo i bar sono diventati dei luoghi confortevoli, lussuosi, con specchi, arredi, cristalli, vero e proprio punto di ritrovo per letterati e gente di spettacolo, in cui giocare a carte, a dama, a scacchi o discutere beatamente di filosofia e politica. A Torino, ad esempio, i giacobini si ritrovavano nella Taverna della Giamaica, o al Caffè ‘d Catlina, o al Marsiglia. Il caffè, inteso sia come bevanda che come luogo di incontro, era diventato simbolo di intellettuali e riformisti, coinvolgendo illuministi, risorgimentali, futuristi, avanguardie. George Steiner, saggista francese e docente di letteratura comparata a Princeton, non esita ad affermare che l’unità europea si è formata anche nei caffè metropolitani, luoghi cosmopoliti, di incontro, di discussione e di cultura (cfr Beccaria, 2017, p. 148). 


Scopo di questo volume è proprio quello di fornire una doppia lettura alla “fenomenologia” del caffè, inteso nel suo duplice significato di luogo dove si consuma (e quindi sinonimo di bar), sia di bevanda. E lo sguardo che voglio dare è quello prettamente antropologico, analizzandone le ritualità, piccole e grandi, di quello che potremmo definire un vero e proprio “culto”, in cui, in Italia ad esempio, la macchina espresso rappresenta il sancta santorum. L’idea nasce dall’analisi di Marc Augé, che per primo iniziò ad indagare con uno sguardo molto particolare la contemporaneità, passando dai “non luoghi” ai bistrot.

Luca Ciurleo

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia 

Ciurleo, Luca 
2018 - 1000 e un caffè - edizioni Landexplorer, Boca

Appadurai, Arjun
1996 - Modernity at large. Cultural dimension of globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press (trad. it. 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi)

Artusi, Pellegrino
2012 - La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Giunti editore, Firenze

Augé, Marc
2015 - Un etnologo al bistrot, Raffaello Cortina editore, Milano
2017 - Momenti di felicità, Raffaello Cortina editore, Milano
2018 - Sulla gratuità per il gusto di farlo!, Mimesis / Chiccodoro, Fano

Beccaria, Gian Luigi
2017 - L’Italiano in 100 parole, RCS - Corriere della sera, Milano
Ciurleo, Luca
2013 - Tradizioni di pastafrolla. I biscotti tipici del Vco tra folk, fake ed esperimenti antropologici, Ultravox, Domodossola
2014 - All’ombra del castello, sotto il manto di Re Lupo, Landexplorer, Domodossola

Ciurleo, Luca - Piana, Samuel
2016 - Ciboland - Viaggio nell’Expo tra antropologia ed economia, Landexplorer, Boca

Della Bianca, Luca
2003 - Manuale di Caffomanzia, Hermes edizioni, Roma

Donna Letizia
1982 - Il saper vivere - Arnoldo mondatori editore, Milano

Eco, Umberto
2016 - Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano

Fabietti, Ugo e Remotti, Francesco (a cura di)
1997 - Dizionario di Antropologia, Zanichelli, Bologna
Goffman, Erving
1967 - Interaction Ritual, Doubleday, Garden City. (trad. it. 1988 - Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna)
1998 - L’ordine dell’interazione, Armando editore, Roma

Grimaldi, Piercarlo
2002 - Cibo e rito. Il gesto e le parole nel cibo tradizionale, Sellerio, Palermo

Iacchetti, Giulio (a cura di)
2011 - Italianità, Corraini edizioni, Viadana
EXPO
2015 - Nutrire il pianeta, energia per la vita, Catalogo ufficiale di Expo 2015, Electa, Milano

Gibelli, Luciano
2004 - Memorie di cose - Attrezzi, oggetti, cose del passato raccolti per non dimenticare, Priuli e Verlucca, Torino

Malaguzzi, Silvia
2013 - Arte e cibo - Artdossier, Giunti, Roma

Marino, Matteo e Gotti, Claudio
2016 - Il mio primo dizionario delle serie tv, Beccogiallo, Sommacampagna

Mauri, Chiara
2015 - Il cluster caffè, in Expo 2015, pp. 326-237

Morellini, Mauro
2015 - Expo Milano 2015 for Dummies, Hoepli, Milano

Padovani, Maddalena
2011 - Moka Bialetti, in Iacchetti 2011, pp. 74-77
Segalen, Martine
2002 - Riti e rituali contemporanei, Il Mulino, Bologna

Severgnini, Beppe
2008 - Italiano. Lezioni semiserie, Bur Rizzoli, Milano

LUCA CIURLEO

Luca Ciurleo, classe 1983, laureato in Antropologia culturale ha compiuto, nel corso degli anni, diverse ricerche sulla realtà etnologica ossolana, in particolare sugli alberi rituali, sui falò solstiziali e su alcune comunità, quale Piedimulera e Vogogna. 
Ha al suo attivo una decina di volumi, tra cui “Da Abissinia a Cappuccina” (con Antonio Ciurleo, 2006), “Walter Alberisio: una vita per la poesia” (2007), “Gente di paese, paese di gente” (2010), “Tradizioni di pastafrolla” (2013), “Quarant’anni di Coro Valgarina” (2014). 
Collabora con la Fondazione UniversiCà di Druogno, ha insegnato Antropologia dell’alimentazione alla Scuola Made di Lucca ed ha tenuto diverse conferenze relative all’Ossola, anche ad Expo 2015. Tra le sue ultime ricerche: spunti antropologici nella cultura pop, antropologia dell’alimentazione e nuove prospettive alimentari. Dal 1998 collabora con il settimanale Eco Risveglio. 

Rosa Rossa: quei simboli svelano la verità indicibile su Moro

Da via Fani a via Caetani, passando per via Montalcini. Nomi e date, segni e simboli a cui pochissimi hanno fatto caso. Racconterebbero l’atroce “operazione Moro” – italiana e internazionale, politica e geopolitica – riletta secondo il codice segreto di un disegno meno evidente, ma forse decisivo: capace di cioè di “firmare”, in modo occulto, il sanguinoso sequestro e poi il calvario del presidente “eretico” della Dc, fino alla sua spietata uccisione. Messaggio: quell’assassinio è stato l’atto d’inizio di una nuova epoca di dominazione mondializzata. Ne parlò la giornalista Gabriella Carlizzi, indagatrice atipica e indipendente dei misteri italiani, così come Solange Manfredi, avvocato e saggista. Ne accenna lo storico Giuseppe De Lutiis nel libro “Il lato oscuro del potere” (Editori Riuniti). Ne parla diffusamente Sergio Flamigni nel romanzo “La tela del ragno” (Kaos). L’argomento lo sfiora lo stesso Giovanni Fasanella, autore di bestseller come “Il golpe inglese”, che nel recentissimo libro-indagine “Il puzzle Moro” (Chiarelettere) ricostruisce il ruolo di Londra nella strategia della tensione in Italia, mettendo anche l’accento sul Vaticano, dopo le dirompenti conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni: per il blitz di via Fani sarebbe stata usata una palazzina di via Massimi di proprietà dello Ior, la banca vaticana.
Nel saggio “Il misterioso intermediario”, scritto per Einaudi nel 2003 con Giuseppe Rocca, sempre Fasanella mette a fuoco la figura del musicista russo Igor Markevic in relazione al caso Moro. Fasanella fa notare che il nome “Gradoli”, spezzato in Aldo Moro“Grado-Li” e riletto in caratteri latini (maiuscoli), nasconderebbe il numero 51, ipotetico “grado segreto” di certa massoneria super-esclusiva, ignota ai massoni ordinari. Lo ricorda Stefania Nicoletti, che a “Forme d’Onda” (format web-radio) dedica un’intera puntata al caso Moro: i servizi “deviati”, la presenza di Gladio e della ‘ndrangheta in via Fani, il ritrovamento del cadavere di Moro a metà strada fra la sede del Pci di Berlinguer e piazza del Gesù, sede della Dc nonché della chiesa dei geusiti. Ma Stefania Nicoletti mette l’accento anche su quei “segni” sempre trascurati, analizzati già nel 2011 da Paolo Franceschetti e ora riproposti nel blog “Petali di Loto”. Già avvocato e docente di materie giuridiche, Franceschetti ha condotto ricerche assolutamente inedite sui maggiori gialli italiani, dalle Bestie di Satana al Mostro di Firenze, giungendo a una sua conclusione: molti efferati omicidi, considerati inspiegabili perché privi di un vero movente, sarebbero in realtà delitti rituali condotti anche a scopo magico-propiziatorio da un’organizzazione segreta. Franceschetti la chiama Rosa Rossa e sostiene che recluterebbe affiliati insospettabili, anche tra gli esponenti del massimo potere.
Un massone di alto grado come Gianfranco Carpeoro, autorevole simbologo e grande studioso dei Rosacroce, esclude che esista un “vertice nero” che pianifichi omicidi più o meno seriali: molti casi di cronaca più che sospetti, “firmati” in modo inequivocabile (come nel caso dello strano sfregio rinvenuto sulla schiena di Yara Gambirasio), secondo Carpeoro sono il frutto di criminali che agiscono in modo isolato – ma poi, una volta in pericolo, “firmano” in modo simbolico i loro misfatti, sperando che qualcuno, nelle istituzioni, “colga il messaggio” (che rivelerebbe l’identità degli autori) e provveda a dirottare le indagini su un binario morto, lasciando che in manette finisca il capro espiatorio di turno. L’intuizione di Franceschetti però è corretta, precisa Carpeoro: dalla fine dell’800, spiega, il pensiero rosacrociano (un mondo migliore e senza più frontiere, retto da un governo ispirato dalla giustizia) è stato corrotto e deviato da potenti associazioni come la Golden Dawn e l’Oto, l’Ordo CrowleyTempli Orientis del “mago nero” Aleister Crowley. Organizzazioni degenerate nell’occultismo, di cui la Rosa Rossa di cui parla Franceschetti sarebbe l’ultima, tragica incarnazione: responsabile anche del delitto Moro?
«La lettura di eventi di questo genere non può essere unica e riduttiva», premette Stefania Nicoletti. «Molti esperti, inclusi quelli della commissione Fioroni e lo stesso Fasanella, hanno ben evidenziato la complessità delle implicazioni e l’intreccio italiano e internazionale degli interessi coinvolti. Ma questo – aggiunge – non esclude affatto che, alle motivazioni storiche e di potere, si possa sovrapporre una lettura simbolica degli eventi. Anzi: l’analisi dei simboli permette di scoprire che molti aspetti combaciano, in modo sconcertante». Corollario: i veri mandanti non erano a loro agio solo nel mondo della politica e dell’intelligence. Probabilmente conoscevano benissimo – e utilizzavano con sapienza, a modo loro – anche il codice segreto dei simboli. Obiettivo: inviare messaggi criptati ma perfettamente chiari e precisi alla ristrettissima élite mondiale che avrebbe potuto decifrarli con sicurezza. «Ricorrere ad un sequestro di 55 giorni, per poi commettere un omicidio – riassume Franceschetti – significa richiamare l’attenzione di tutto il mondo sulla vicenda, e usare un metodo quantomeno dispendioso e rischioso». Tradotto: «Vuol dire che quell’evento ha un’importanza internazionale: il destinatario del messaggio era tutto il mondo. E il sequestro Moro, infatti, annunciava una svolta epocale nei destini del pianeta».
L’ipotetica “firma” della Rosa Rossa, scrive Franceschetti, inizia con il luogo del sequestro e finisce con quello del ritrovamento. La scorta di Moro fu trucidata in via Fani: e Mario Fani era un viterbese, fondatore del “Circolo di Santa Rosa” (la patrona della città). Ma Fani fondò anche un’associazione di ispirazione religiosa, aggiunge Stefania Nicoletti: un sodalizio da cui discese poi l’Azione Cattolica in cui si era formato Moro. Il corpo fu invece rinvenuto al numero 9 di via Caetani. «A quel numero c’è il “Conservatorio di Santa Caterina della Rosa” e l’auto in cui fu trovato Moro era una Renault rossa (RR)». Per Franceschetti, «inizio e fine dell’operazione Moro portano la rosa come simbolo». Quanto a Michelangelo Caetani, non era una personalità qualsiasi: Caetani era un dantista, e come tale si occupò anche del linguaggio segreto di Dante e dei “Fidelis in Amore”. Dietro ai poeti del “dolce stil novo”, ricorda Franceschetti, si celava «una organizzazione segreta di matrice templare e rosacrociana». Attenzione: la Divina Commedia è centrale, per Franceschetti, nei crimini della Rosa Rossa, così spesso basati Jacques de Molaysulla pena del contrappasso. E la simbologia dantesca, aggiunge, è indispensabile anche per leggere il profilo più nascosto del caso Moro, che rivela un collegamento esplicito con la vicenda dei Templari.
Le profezie presenti nella Divina Commedia, rileva Franceschetti, sono sempre poste a una distanza di 666 versi o 515 l’una dall’altra. «Si deve considerare che il sequestro Moro avviene a 666 anni di distanza dal processo ai Templari (che risale al 1312). L’inizio della persecuzione templare avviene infatti nel 1307, ma la data della loro soppressione ufficiale è il 1312, con la bolla “Vox in eccelso”». Jacques de Molay fu l’ultimo gran maestro dell’Ordine del Tempio. Quando salì sul rogo «giurò vendetta al Re e al Papa», ricorda Franceschetti. «E la vendetta templare, nei secoli, si è consumata con la progressiva e lenta distruzione della Chiesa e delle monarchie; un processo che vede il punto di svolta decisivo con la Rivoluzione Francese», ispirata dalla massoneria così come l’Unità d’Italia. Secondo Franceschetti, poi, c’è da notare «una coincidenza (che coincidenza non è)». Ovvero: «La vicenda Moro può essere letta, sì, come un sequestro, ma anche come un processo, effettuato dalle Br». Un tragico processo, a Moro e a tutta la Dc. «Nei famosi comunicati (9 in tutto) della Br, apparentemente deliranti, i sequestratori processarono Moro e tutto il sistema politico di allora». Qui ricorrerebbe la legge del contrappasso dantesca: 666 anni dopo il processo ai Templari storici, i nuovi presunti “templari” processano a loro volta il sistema.
Non casuale, sempre secondo Franceschetti, neppure la durata della prigionia di Moro: 55 giorni. In realtà, sostiene, è come se fossero 515 (l’intervallo delle profezie dantesche), tenuto conto del fatto che la cifra mancante – il numero 1 – non viene mai considerata, da chi usa codici esoterici, dal momento che indicherebbe la divinità. Quel fatidico 55, conclude Franceschetti, sembra segnalare «il compimento di una profezia». Ma, a parte i rebus simbologici, perché mai colpire proprio Aldo Moro? Perché voleva il compromesso storico con il Pci (che allarmava sia gli Usa che l’Urss) e inoltre – riassume Fasanella – dopo Mattei stava usando la sovranità nazionale per ridare autorevolezza all’Italia nello scenario geopolitico europeo e mediterraneo, inquietando inglesi e francesi. Battendo in solitaria la pista simbolico-esoterica, Franceschetti guarda altrove. Pensa al bestseller “Zanoni” di Edward George Bulwer-Lytton, romanzo sul mistero dei Rosacroce. Pensa agli scritti di Comenio e a pagine singolari come quelle di “Atalanta Fugiens”, scritte e illustrate dal medico tedesco Michael Maier, sodale di Giordano CampanellaBruno. «Tutte le maggiori opere dei pensatori e filosofi rosacrociani – ricorda Franceschetti – indicano la necessità di andare verso una società ideale, fatta degli uomini migliori; una società unita, armonica, senza divisioni di razze e paesi».
Uno dei motivi per cui i Templari furono distrutti, aggiunge, è probabilmente il fatto che avessero costituito una sorta di “sovrastato” indipendente dagli altri poteri, che abbracciava tutta l’Europa e andava fino alla Terrasanta. Nei secoli, gli epigoni dei Templari di allora «hanno cercato di ricostruire questo “sovrastato”», e il progetto «ha il suo culmine attuale nell’Unione Europea e nell’Onu». Sembra un futuro già scritto: non nella direzione umanistica e proto-socialista auspicata dalla “fraternitas” seicentesca dei Rosacroce, ma in quella (di segno opposto) dell’oligarchia mondialista più autoritaria. Nell’opera filosofica “La Città del Sole” del grande Tommaso Campanella, rosacrociano e neoplatonico, si delinea chiaramente una società ideale. L’opera, spiega Franceschetti, si svolge secondo un dialogo ispirato al modello della “Repubblica” di Platone. A parlare sono due personaggi, un Cavaliere di Malta e un ammiraglio, e la loro conversazione delinea i presupposti di una comunità perfettamente armonica. Dettaglio: «Il principe che presiede alla generazione della città, e che ne fissa le regole, è il principe Mor (Amore)». Un nome molto simile al cognome dello statista democristano assassinato nel 1978. Ma una città ideale è descritta analogamente nell’opera “Utopia”, di Tommaso Moro, altro pensatore rosacrociano.
Anche Thomas More sogna una città perfetta, ideale: forse il presidente della Dc non aveva in animo esattamente la “Repubblica” platonica, ma sicuramente un’Italia più giusta, con un governo aperto alle classi popolari. Il parallelo diventa suggestivo se si osservano le rispettive biografie, avverte Franceschetti: «Tommaso Moro morirà in carcere, dove scriverà delle lettere indirizzate alla figlia: episodio che ha una straordinaria somiglianza con la vicenda di Aldo Moro», che scrisse strazianti lettere alla moglie. Similitudine sconcertante, annota Franceschetti, secondo cui Aldo Moro può esser stato “scelto” (dai mandanti occulti dei suoi assassini) perché il suo cognome «si ricollegava simbolicamente al Principe che doveva presiedere alle regole della generazione della società ideale». Una logica allucinante, capovolta: se sparo al “principe” vero, quello della politica del ‘900, è come se uccidessi simbolicamente, in modo reatroattivo, anche il Principe ideale (buono) del rosacrociano Campanella. Un tenebroso avvertimento, rivolto al mondo: scordatevela, la società giusta. Quelli come Moro devono Tommaso Morosoccombere, per cedere il passo alla nuova élite dominatrice: finanza, multinazionali, austerity, guerra e terrorismo opaco come quello targato Al-Qaeda e Isis.
«Da notare che anche la città scelta per l’operazione non è casuale», aggiunge Franceschetti. «Roma infatti può essere letta come “Amor”, al contrario». Traduzione simbolica: nella città di Amor si sacrifica Moro, per dare inizio alla costruzione di un’altra civilità ideale, diametralmente opposta a quella rinascimentale vagheggiata dai veri Rosacroce. Il sequestro Moro suona quindi come il segno dell’inizio di una svolta epocale: quella che stiamo scontando attualmente, basata sulla gestione elitaria e reazionaria della dissoluzione degli Stati: la globalizzazione senza diritti, imposta con inaudite sofferenze sociali. Date non casuali: il tragico 1978 è anche l’anno in cui parte lo Sme, il processo per la moneta unica, che è la tappa più importante del processo che porterà all’Unione Europea. «Il sequestro Moro segna, insomma, una tappa fondamentale di portata storica: indica lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo ordine mondiale». Se gli storici e i crimonologi conoscessero il sistema di funzionamento delle società segrete, dice Franceschetti, capirebbero che nessun simbolo è mai casuale. Nelle drammatiche foto della prigionia, sopra la testa dell’ostaggio campeggia la stella a 5 punte: «Delle Br, sì, ma anche della massoneria. Lo stesso stemma – guarda caso – della Repubblica Italiana». Moro è costretto a mostrare un quotidiano: “La Repubblica”. Una catena di segni: «Moro, Stella massonica, quotidiano “La Repubblica”, “La Repubblica di FranceschettiPlatone”,  “La Città del Sole”, il Principe Mor».
Anni fa, sulla rivista esoterica “Hera” diretta da Carpeoro, venne citato il nome di Franceschetti, indicando i suoi studi sulla Rosa Rossa come interessanti e condotti con rigore. «Come dissi a Carpeoro – ammette Franceschetti – la cosa mi ha fatto piacere: l’ho considerato un attestato di correttezza». Ma al tempo stesso, quell’incoraggiamento l’ha messo a disagio: «Trovo triste che ad occuparsi di queste cose sia io, che fino a poco tempo fa non sapevo neanche cosa significasse la parola “esoterismo” e consideravo il simbolismo materia da sciroccati fuori di testa». Chiarisce Carpeoro, rivolto a Franceschetti: «Se certe cose le dice un massone non è credibile, perché lo si accuserebbe di faziosità e di chissà quali interessi; le persone razionali e scientifiche non si possono approcciare al problema; tu invece sei nel mezzo, che è la posizione migliore». Per Franceschetti «è auspicabile, in futuro, che menti raffinate, intelligenti e intellettualmente oneste come De Lutiis, Flamigni e tanti altri, indaghino anche il lato esoterico delle vicende mondiali, per comprendere così le parti ancora inspiegate, ma spiegabilissime». Franceschetti auspica anche la collaborazione tra i due mondi, esoterico e razionale. «Solo così si darà luce a quel “lato oscuro del potere”, che oscuro non è». Persino il caso Moro – mistero capitale della storia italiana recente – risulta meno buio, se riletto decifrando i simboli che lo costellano.

fonte: http://www.libreidee.org/

giovedì

prima di Enrico De Pedis, fu Archita Valente

Rudolph Gerlach

Nel gennaio del 1917 è in corso a Roma, davanti al tribunale militare, un processo per spionaggio a favore dei tedeschi e degli austriaci. Sotto giudizio ci sono sei persone, e l’imputato principale è il prelato bavarese Rudolph Gerlach, cameriere segreto di Benedetto XV. Deve rispondere di aver tramato contro l’Italia e di aver pagato le spie. E’ processato in contumacia perché con un accordo segreto tra Vaticano e il governo italiano, il prelato è stato fatto sparire oltre confine, in Svizzera. La vicenda di spionaggio che coinvolge il cameriere segreto del papa, è in relazione con l’inchiesta sugli atti di sabotaggio che hanno mandato a picco le corazzate Brin e Leonardo, la più grande catastrofe della Marina italiana. Tra gli arrestati vi è anche uno strano personaggio, l’avvocato Archita Valente, spia doppia al servizio del controspionaggio italiano e di quello austro-germanico. Valente si dichiarava figlio naturale di un uomo di Stato italiano, e secondo la stampa internazionale dell’epoca, lo metteva in imbarazzo con continue richieste di soldi. Grazie ai suoi illustri natali, Archita era stato assunto dalla polizia segreta, incarico che gli aveva permesso di procacciarsi amicizie al ministero dell’Interno, avvalendosi anche della protezione di un altissimo funzionario che si era innamorato di sua moglie. Scoppiata la guerra si era messo a fare il doppio gioco. Finito nell’affaire Gerlach, Archita Valente è riconosciuto colpevole di tradimento, ma scampa alla fucilazione perché gli sono riconosciute le attenuanti di non aver provocato gravi danni alle forze armate, e di aver manifestato sintomi di alterazioni psicopatiche. E’ rinchiuso nelle carceri di Avellino, e lì ufficialmente muore nella prima decade del novembre 1918. Tuttavia, quando nel settembre 1935 il vice capo della polizia Carmine Senise trasmette nota alla prefettura di Taranto, dove era nato il Valente, con la richiesta di fare accertamenti sulla sua morte, la prefettura risponde al Viminale che nessuna comunicazione era giunta al comune nel 1918. Ma come mai Archita Valente era finito nel carcere di Avellino, considerato un luogo infernale? La scelta del carcere era stata fatta dal ministero dell’Interno, da cui appunto dipendeva la gestione delle carceri. Nonostante i certificati sintomi di problemi mentali, il Valente era stato rinchiuso in un carcere dalla fama assai sinistra. Costruito dai Borboni, leggenda raccontava che lo stesso architetto che lo aveva progettato, conscio di aver creato un luogo di tortura, si fosse alla fine ucciso. Il carcere era in periferia, aveva mura massicce di otto metri e intorno un fossato profondo sei metri. Le celle erano lunghe e strette, e al posto delle finestre c’erano delle bocche di lupo, piccole aperture di aerazione, dalle quali non si poteva vedere il cielo. In carcere Archita riceveva giornalmente la visita della bella moglie Elvira Pesapane, che ogni mese riceveva un assegno mensile di 250 lire dal Vaticano. Un sussidio illimitato. Il Vaticano pagava ad Archita Valente il suo silenzio sul coinvolgimento di alti prelati della Santa Sede nelle operazioni di spionaggio condotte da Gerlach?
Negli atti di morte del comune di Avellino per l’anno 1918, si registra che il 6 novembre è deceduto in carcere il detenuto Archita Valente. Il decesso doveva essere comunicato al tribunale, e avrebbe dovuto restarne traccia negli atti giudiziari trattati dalla procura, cui spettava anche di disporre l’eventuale autopsia. La notizia non compare nei registri del 1918. Nemmeno la locale questura comunica la morte della spia alla direzione generale della Ps, che pure l’aveva avuta elle sue dipendenze. Le circostanze della morte sono tutt’oggi oscure, anche perché la documentazione del carcere di Avellino anteriore agli anni Venti è andata perduta. Non sappiamo quale sia il referto di morte, né se sia stata compiuta un’autopsia. Sappiamo però che la morte di Archita Valente generò una particolare attenzione nelle autorità ecclesiastiche, dalle quali ricevette un trattamento speciale. Il corpo di Archita Valente, infatti, sarà seppellito non in terra comune, ma nella cappella del Carmine, tra i marmi di uno dei più antichi monumenti sepolcrali del cimitero di Avellino. I registri cimiteriali indicano la data del 7 novembre 1918. In un giorno certo non fu possibile fare tutti gli accertamenti sulle cause del decesso. Le tombe nella cappella sono dodici, quattro all’esterno e otto nel sotterraneo divise in due file. In quella di sinistra, al numero 12, fu deposto il corpo di Archita Valente. Il sepolcro apparteneva alla parrocchia del Carmine, la più importante di Avellino, per l’altissima devozione con cui era venerata dagli avellinesi la madonna del Carmine. Di norma quelle dodici tombe della cappella accoglievano i resti di alti prelati o di laici che si erano distinti per opere di carità e per donazioni alla Chiesa. Nei registri della parrocchia si conservano i dati sui lasciti dei cittadini che hanno avuto il privilegio di una tomba nella chiesa madre o nella cappella del Carmine, ma non c’è alcun riferimento all’inumazione di Archita Valente. Inumazione che necessariamente doveva essere avvenuta con l’intervento della confraternita della Trinità e la parrocchia del Carmine. Qualcuno dal Vaticano doveva essere per forza intervenuto direttamente, perché era un caso eccezionale che fosse stata concessa a un condannato la sepoltura in una cappella parrocchiale tra i benemeriti della Chiesa. Così come certamente accadde nel caso di Enrico De Pedis, ritenuto responsabile di sequestri di persona, traffico di droga e affari con Cosa Nostra, assassinato in un regolamento di conti, e sepolto poi nella basilica di sant’Apollinare in Classe a Roma, a fianco della tomba di un cardinale. Nel caso di De Pedis, l’autorizzazione fu data dal cardinale Poletti, in considerazione delle opere di bene fatte dal bandito. Il che conferma che in questi casi assai rari, le scelte sono fatte dall’alto. Allo stesso modo si può presumere che la Santa Sede avesse riconosciuto ad Archita Valente la benemerenza di non aver tradito. C’è anche chi pensa che in realtà fosse stata orchestrata una finta morte della spia, vista la strana destinazione di un ‘nevrastenico’ in un carcere durissimo. In effetti, dal carcere di Avellino c’era stato qualche caso di evasione con la complicità di agenti di custodia.  Certo è che ancora nel 1943, vi fu qualcuno al ministero dell’Interno che si chiese che fine avesse fatto realmente Archita Valente. Uno scrupoloso funzionario si era forse accorto che il fascicolo della spia non era mai stato aggiornato con la data della morte. Il Viminale chiese notizie alla prefettura di Taranto e alla questura di Roma. Il 6 giugno 1943 il questore della capitale informò il Viminale che nei registri del tribunale militare Archita Valente risultava deceduto. L’11 giugno arrivò da Taranto la risposta che Valente risultava morto nella prima decade del novembre 1918. Ad oggi il mistero non è stato risolto. Ad oggi si può osservare che determinati accadimenti nella storia italiana si ripetono, significativamente.

Fonte: A., Paloscia, Bendetto fra le spie, Editori Riuniti, Roma, 2007.

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