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Alessandro Pavolini




è stato un giornalista, politico e scrittore italiano, ministro della Cultura popolare e segretario del Partito Fascista Repubblicano (PFR).

Ambito familiare e formazione

Figlio di Paolo Emilio, poeta e filologo (docente ordinario di sanscrito e di civiltà dell'India antica presso l'Istituto di Studi Superiori fiorentino, livornese originario dell'isola d'Elba, nacque nell'aristocratica ed antica residenza fiorentina occupata dalla famiglia in via San Gallo 57).
Secondo i biografi, il giovane Alessandro avrebbe mostrato una precocissima attitudine al giornalismo, redigendo nel 1911, a soli otto anni, con l'aiuto del fratello Corrado, un foglio ciclostilato dal titolo "La guerra" in appoggio alla campagna di Libia. Qualche anno più tardi sarebbe stata la volta di un'analoga iniziativa volta ad esaltare l'intervento italiano nella prima guerra mondiale su un foglio dal titolo "Il Buzzegolo", nome derivante da un soprannome familiare del giovane Alessandro.
Dal 1916 al 1920 frequentò il ginnasio ed il liceo classico presso l'istituto "Michelangelo". Si iscrisse quindi alla facoltà di Legge dell'Università di Firenze ed a quella di Scienze Sociali di Roma, mentre iniziava le prime esperienze letterarie ed alternava l'impegno culturale a quello politico.

Gli anni dello squadrismo

Il 1º ottobre 1920 aderì ai Fasci Italiani di Combattimento di Firenze e partecipò a varie azioni nelle squadre d'azione del conte Dino Perrone Compagni, rimanendo allo stesso tempo amico di Carlo e Nello Rosselli.
Tra il 1922 ed il 1923 entra nel Fascio dissidente di Firenze, più radicale ed intransigente e per un periodo attivo con un rapporto di collaborazione e competizione con il Fascio ufficiale, assieme a Manganiello ed alla cosiddetta "Banda dello Sgombero", della quale fa simbolicamente parte anche il padre. Rientrerà, con tutti i dissidenti, nel Fascio ufficiale durante il 1923.
Il 28 ottobre 1922, in occasione della Marcia su Roma, trovandosi nella Capitale per sostenere un esame universitario, si unì al gruppo di fascisti proveniente da Firenze. Tra il 1923 ed il 1924 svolse il servizio militare come sottotenente dei Bersaglieri, ottenendo il grado di centurione della MVSN al suo congedo.
Nel 1924 si laureò contemporaneamente in Legge a Firenze ed in Scienze Sociali a Roma, anno nel quale partecipò alla contestazione del docente antifascista Gaetano Salvemini, all'Università degli Studi di Firenze. Alla manifestazione assistette Piero Calamandrei che ricordò:

« Soprattutto mi restarono impressi, nei cento volti di quella canea urlante, gli occhi di Alessandro Pavolini, allora studente di legge, che capeggiava quell'impresa: egli mi guardava senza parlare con occhi così pieni di acuminato odio che quasi ne rimasi affascinato come se fossero occhi di un rettile: c'era già in quegli occhi la spietata crudeltà di colui al quale vent'anni dopo, alla vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le donne che uscivano durante l'emergenza a far provvista d'acqua. »
(Piero Calamandrei)

L'attività politica, culturale e giornalistica

Successivamente ricoprì vari incarichi negli istituti di cultura e nei movimenti giovanili fascisti: nel 1925 fu addetto stampa della Legione Ferrucci, successivamente collaborò a Battaglie fasciste, Rivoluzione fascista, Critica fascista, Solaria (1926-1932) e saltuariamente a riviste letterarie. Pubblicò il romanzo Giro d'Italia e compose poesie di tema crepuscolare.
Nel maggio del 1927 fu nominato vice Federale di Firenze. Nello stesso anno, durante le vacanze estive passate a Castiglioncello (passate dedicandosi spesso e con discreto successo al tennis), conobbe la futura moglie, Teresa Franzi, nipote di un senatore e figlia di un affermato ingegnere milanese. La sposò nel 1929 e la coppia ebbe tre figli, Ferruccio (1930), Maria Vittoria (1931) e Vanni (1938).
Il 17 settembre 1929, in seguito al rapporto del prefetto di Firenze al Ministero dell'Interno, vennero segnalati i suoi precedenti di "attivo squadrista" e di partecipante alla Marcia su Roma, permettendogli quindi di ottenere il Brevetto della Marcia su Roma, requisito che tra l'altro concedeva una serie di preferenze e benefici durante il regime.
Sempre nel 1929 successe, appena ventiseienne, al marchese Luigi Ridolfi alla carica di segretario della federazione provinciale del PNF di Firenze. In questo ruolo promosse la realizzazione dell'autostrada Firenze-Mare e della centrale Stazione di Santa Maria Novella, ed istituì il Maggio Musicale Fiorentino. Diventato gerarca, fu in questo periodo che cominciò ad alimentare il "mito della giovinezza", tra i motivi fondanti del regime, esaltando e puntando principalmente l'attenzione sugli anni dello squadrismo:

« Sede di Via Cavour, sede di piazza Ottaviani... Acri mesi del '20, del '21. Bastonature che nascevano in piazza, improvvise, come i mulinelli della polvere nelle sere di vento; canti irosi nei rioni ostili; revolverate; vie deserte con tutte le porte, le persiane serrate come per un temporale; i camions; i morti (gli occhi stravolti nel viso dell'amico, quel sangue, sulla pietra) e gli indimenticabili vivi, "i vecchi": rivelazione di temperamenti straordinari colti nell'istante dello scatenamento (...) corto circuito d'inquietitudini, di entusiastiche devozioni; vita di capannello e di spedizione, combattimento alle cantonate, alle siepi; disperati litigi; armi spaiate; berretti da ciclista, elmi, baveri alzati. »

(Alessandro Pavolini, dalla prefazione a Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino, Vallecchi, Firenze, 1935)

Nel 1929 inoltre fondò la rivista Il Bargello, organo della federazione fiorentina e rivista letteraria. Eletto deputato nel 1934, lascia la direzione del Fascio fiorentino e, insieme a Giuseppe Bottai, contribuisce all'ideazione ed all'organizzazione dei Littoriali della cultura e dell'arte. Dal 1934 al 1942 fu stabilmente al Corriere della sera come inviato speciale. Durante questa esperienza è da ricordare un articolo in cui si scagliò contro la stampa estera, affermando che gli stranieri fossero «lividi d'ira e d'invidia perché hanno la precisa coscienza del livello morale che passa tra i nostri giornali, araldi di un'idea, e quelli delle "grandi democrazie", asserviti alla massoneria e all'affarismo».
Nel 1938 fu tra i firmatari del Manifesto della razza, in appoggio alle leggi razziali fasciste. Fu poi presidente della Confederazione fascista dei professionisti e artisti (29 ottobre 1934 al 23 novembre 1939); membro del Consiglio Nazionale delle Corporazioni (1939-1943); componente della commissione per la bonifica libraria istituita dal ministero della Cultura Popolare (1938-1939); membro del Gran Consiglio del Fascismo (1939-1943).
Strinse amicizia con Galeazzo Ciano, con il quale condivideva il piacere per la bella vita ed un'idea del fascismo alquanto distante da quella propugnata da Starace. Ciano lo protesse e lo difese a più riprese, più di quanto non avesse mai fatto per qualsiasi altro, una prima volta nel 1935 quando a Mussolini giunse una segnalazione nella quale, dopo essere stato ridicolizzato come combattente, veniva accusato di cumulare incarichi e prebende sino a mettere assieme stipendi da favola ed in almeno un'altra occasione, nel novembre 1937, quando Mussolini espresse a Ciano dubbi sul "lealismo politico" di Pavolini.
Almeno sino al 1939 Pavolini si mantenne, in pubblico, vicino al sentimento antitedesco di Ciano, tanto che in occasione dell'occupazione della Boemia esclamò:
« Ecco l'occasione buona per mettere a posto per sempre la Germania. »
e l'eco di tale dichiarazione giunse sino a Berlino
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La guerra d'Abissinia

Già nel settembre 1935 Pavolini si trovava ad Asmara come corrispondente di guerra in vista dell'imminente conflitto. Allo scoppio della guerra Pavolini si arruolò entrando in servizio come tenente osservatore nella 15ª squadriglia da bombardamento la Disperata, operandovi contemporaneamente quale inviato speciale del Corriere della Sera. Il 3 ottobre partecipò alla sua prima azione durante il bombardamento della città etiopica di Adua.
In questo periodo scrisse anche un inno in onore di Galeazzo Ciano, comandante della squadriglia:

« Vita, sei nostra amica. Morte, sei nostra amante.
Nella prima carlinga è Ciano comandante.
A chi ci seguirà, il varco si aprirà
Anche la geografia bombardando si rifarà »

(Alessandro Pavolini)

Nel periodo che va da Natale ai primi di febbraio, Pavolini fu costretto all'inattività a causa di una licenza in Italia di Ciano: in questo periodo progettò azioni ardimentose da proporre a Ciano, che rimasero tutte sulla carta: come l'occupazione di un isolotto sul Lago Tana, in territorio nemico, dove impiantare una base aerea facilmente difendibile, dalla quale dare man forte ai ribelli avversi all'imperatore d'Etiopia. A questo proposito scrisse a Ciano:

« Sono sicuro che un'impresa del genere, che rimarrebbe storica negli annali dell'aviazione, e nella fantasia di tutti i ragazzi del mondo, non può non sedurti così come ha innamorato me fino all'ossessione (sono dieci giorni che non penso ad altro). »

(Alessandro Pavolini il 29 gennaio 1936 nella sua corrispondenza a Ciano)

Dopo il ritorno di Ciano alla squadriglia, il 15 febbraio Pavolini prese parte agli attacchi contro l'esercito etiopico in ritirata dopo la sconfitta subita nella Battaglia dell'Endertà:

« Si trattava di convertire in disastro la ritirata di un nemico già duramente sconfitto. Ecco che l'Aeronautica A.O., questa materia umana e meccanica atta ad assumere ogni forma, iniziò un altro fra i nuovi impieghi dell'aviazione di guerra. L'aviazione concepita come cavalleria d'inseguimento. Vere e proprie cariche di velivoli si avventarono lungo le carovaniere, incalzando i fuggiaschi ai guadi, dispersero le colonne, perseguitarono i dispersi con la mitragliatrice e la carabina. »

(Alessandro Pavolini in Disperata)

Nel corso delle medesime operazioni il nemico fu bombardato con 60 tonnellate di iprite, un'arma chimica il cui impiego era vietato dalla Convenzione di Ginevra: Pavolini non ne fa menzione. Il 27 febbraio iniziò la Seconda battaglia del Tembien che vide la rotta dell'esercito guidato da Ras Kassa Haile Darge. Pavolini dall'alto descrisse la situazione evolversi:

« Quando vedemmo le truppe che puntando sul rovescio dell'Amba Aradam avevano determinato il crollo di Mulugheta proseguire e sbloccare a Gaelà, anche la sorte di Cassa e Sejum apparve segnata. Erano ormai fra due Corpi d'Armata come fra due mandibole ben arcuate. E non restava che stringere. Quest'operazione finale, nelle selve, nelle forre e nelle caverne del Tembien, richiamava ancora una volta alla mente immagini di caccia grossa. Somigliò ad una gigantesca battuta.»

(Alessandro Pavolini)

Commentando la fine della battaglia nei pressi del lago Ascianghi Pavolini scrisse:

« Infinite altre ecatombi, spesso molto più vaste, ha visto la storia delle guerre. Ma di rado la strage si concentrò in un tempo e in uno spazio altrettanto ristretti. [...] Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell'altopiano. A bocca chiusa marciavano gli occupanti, attenti a non inciampare. Il fetore riduceva i comandi al minor numero possibile di sillabe. E finalmente fu la pianura, fu la prateria. »

(Alessandro Pavolini)

Il 15 aprile l'aereo su cui si trovava Pavolini ebbe un guasto pertanto si decise di puntare sulla città di Dessiè appena occupata dalle truppe eritree del generale Alessandro Pirzio Biroli. Ma quando si danneggiò anche uno dei due motori fu costretto ad effettuare un atterraggio di emergenza nel piccolo campo di aviazione di Quoram in territorio nemico. Da qui furono poi recuperati il giorno seguente.
Alcuni giorni prima dell'occupazione di Addis Abeba, per un Ciano desideroso di compiere un'impresa ardimentosa, Pavolini progettò un'incursione nell'aeroporto della città al fine di catturarne il comandante. Il 30 aprile, da Dessiè, Ciano accompagnato da Ettore Muti partì alla volta di Addis Abeba: l'impresa non ebbe però successo, in quanto la rapida reazione dei difensori abissini non permise all'aereo di atterrare. Ripresa quota, Ciano si accontentò di lanciare un gagliardetto della "Disperata" sulla piazza principale della città.
Pavolini rievocò la sua esperienza bellica nel libro di memorie di guerra Disperata edito dalla Vallecchi nel 1937, allo stesso modo di altri illustri reduci della conquista abissina. Il libro ha toni analoghi a quelli di altri memoriali redatti da altri illustri reduci sulla guerra d'Etiopia e rivela disprezzo verso il nemico, assenza di pietà nel suo sterminio ed esaltazione della bella morte, valori reputati - allora - positivi e degni di essere francamente proclamati e rivendicati.

Ministro della Cultura Popolare e la relazione con Doris Duranti

Dal 31 ottobre 1939 fu titolare del Ministero della Cultura Popolare (Minculpop), in sostituzione di Dino Alfieri, inviato a Berlino come ambasciatore. Per Montanelli, con la sua nomina "salì sul firmamento fascista una stella che avrebbe brillato di luce sanguigna durante il periodo repubblichino".
Ad ispirare la nomina di Pavolini fu l'amico Ciano che, già la sera del 19 ottobre, aveva annotato nel suo Diario: «... Il Duce si accinge a fare ministri tutti i miei amici, Muti, Pavolini, Riccardi, Ricci...». Tutti toscani, come lo stesso Ciano. Tale fu la percezione della sua influenza nel rimpasto ordinato da Mussolini, mentre la guerra europea divampava ormai da due mesi, che presso alcuni circoli il nuovo governo venne definito non ufficialmente "il primo gabinetto Ciano".
Nello stesso periodo l'attrice Doris Duranti, diva del cinema dei "telefoni bianchi", divenne sua amante e lo resterà sino all'ultimo, quando Pavolini, alla vigilia della sua tragica fine, la fece rifugiare in Svizzera.

Le veline

Tra i principali compiti quotidiani del Ministero assegnato a Pavolini v'era la redazione delle "note di servizio", le cosiddette "veline" del Minculpop (tecnicamente denominate "note di servizio"), che imponevano ai media italiani cosa dire e come dirlo. L'arrivo di un uomo colto come Pavolini alla guida del dicastero, tuttavia, non portò alcun miglioramento - al contrario - nello stile e nella sostanza di tale attività, tesa a sostituire interamente la propaganda ai fatti ed alle notizie Già una settimana dopo l'inizio del mandato, infatti, la velina del giorno della gestione Pavolini assume toni perentori:

« Nelle cronache delle partite di calcio e negli articoli sul campionato non attaccare gli arbitri; ... Assoluto divieto di abbinare altri nomi alle acclamazioni all'indirizzo del Duce »

(Nota di servizio del Minculpop del 6 novembre 1939)

Nel febbraio del 1940 viene emessa una velina che rappresenta egregiamente il culto della personalità dedicato a Mussolini, cui Pavolini non cessa di dare impulso:

« Tenere sempre presente che tutto quanto si fa in Italia attualmente: lo sforzo produttivo del Paese, la preparazione militare, la preparazione spirituale, ecc., tutto promana dal Duce e porta la sua sigla inconfondibile »

(Nota di servizio del Minculpop del 22 febbraio 1940)

La foga con la quale la propaganda promossa sotto la supervisione di Pavolini viene prodotta porta anche ad infortuni linguistici, che contribuiranno all'ironia che si va diffondendo in modo sotterraneo nel Paese all'indirizzo del "colto" ministro e del suo ministero:

« È inutile continuamente parlare, in questa fase del conflitto, della non-belligeranza italiana: ma si può parlare invece che ci troviamo [sic!] in un periodo di intensissima preparazione, con le armi al fianco, e osserviamo con la più vigile attenzione gli avvenimenti che si svolgono intorno a noi. »

(Nota di servizio del Minculpop del 15 aprile 1940)

Con l'Italia ormai coinvolta nel conflitto mondiale, le veline aumentano il proprio distacco dalla realtà sino a specificarlo, a volte, esse stesse in modo esplicito, come quando, nell'anniversario della Marcia su Roma, il Minculpop non esita ad emettere una nota tutt'altro che bellicosa ma alquanto surreale, destinata probabilmente a tacitare i pettegolezzi che si vanno sempre più facendo intensi circa la relazione sentimentale tra Pavolini e Doris Duranti, che per questo viene popolarmente schernita come "l'artista per (sua) eccellenza":

« Tra i presenti alla "prima" del film "Bengasi" dare anche il ministro Pavolini (anche se non ci sarà). »
(Nota di servizio del Minculpop del 28 ottobre 1942)

Allo scopo di stigmatizzare la rivista fascista "Il Primato", che aveva pubblicato in copertina un'illustrazione raffigurante alcuni soldati seduti in un bivacco, durante la guerra Pavolini emise un messaggio che recitava:

« In Italia i soldati devono stare sempre in piedi. »
(Alessandro Pavolini)

Nel gennaio del 1941 fu inviato sul fronte greco, col grado di capitano, sempre al seguito di Ciano. La polizia politica registrò un'azione riservata di attacco compiuta con ardore, ma senza fortuna, dai due gerarchi: la "vittima" era un'attricetta di passaggio a Bari, che ne uscì indenne.
Pavolini perse l'incarico di ministro a seguito di un rimpasto governativo voluto da Mussolini l'8 febbraio 1943, nel tentativo di controllare il fronte interno mentre la guerra appariva ormai perduta: i pesanti bombardamenti alleati sulle città italiane ed il diluvio di feriti e di caduti, che né la propaganda di Pavolini né la censura militare riuscivano più ad occultare, avevano ormai reso chiaro a tutti ciò che da tempo era chiaro anche ad alcuni membri della Casa Reale.
Forse consapevole del fallimento di una propaganda alla Starace, Mussolini, secondo una interpretazione dei fatti, tentò di risalire la china con un cambio di ministri nell'ambito del quale la testa più illustre a cadere fu proprio quella del ministro della Cultura Popolare, il cui ruolo sarebbe stato perciò visto come ormai inefficace, se non dannoso, ai fini della sopravvivenza del regime.
Pavolini fu così privato del ministero (sostituito da Gaetano Polverelli) e nominato direttore del quotidiano romano Il Messaggero. Secondo altre interpretazioni il rimpasto fu invece dovuto al conflitto sotterraneo tra le più alte cariche dello Stato, che andava aprendosi tra Monarchia e Fascismo: Mussolini intendeva sollevare dalle poltrone più delicate gli uomini sospetti di maggiore fedeltà alla monarchia che al fascismo, per rendere più difficili possibili iniziative politiche avverse al regime avallate da Casa Savoia.
Quello impostogli da Mussolini costituì un arretramento - seppure momentaneo, in quanto conservò la carica di consigliere nazionale del PNF - nel prestigio di Pavolini ed un altrettanto momentaneo allontanamento dalla politica attiva di alto livello, sebbene a Pavolini fosse stata comunque offerta una tribuna, quella di direttore di un importante quotidiano, che gli consentiva inoltre di tornare a coltivare la sua vecchia passione per il giornalismo. Continuò l'attività letteraria con la pubblicazione di memorie come Disperata (1937) e racconti o romanzi come Scomparsa d'Angela (1940).

La fine del fascismo-regime

Il 25 luglio 1943 Pavolini venne a conoscenza della destituzione e del conseguente arresto di Mussolini dal ministro Zenone Benini. Pavolini, tornato a casa, mise al sicuro la famiglia facendola ospitare da uno zio, l'architetto Brogi, poi si rifugiò presso l'amico Pierfrancesco Nistri in via Tre Madonne, temendo di poter essere ucciso dalla polizia di Badoglio come era già avvenuto con Ettore Muti. Nel corso dei due giorni lì passati maturò la decisione di recarsi in Germania al fine di continuare a combattere al fianco dei tedeschi.

« Dal regime ho avuto tutto e intendo restituirgli tutto. C'è una sola strada possibile per salvare almeno il nostro onore di fascisti. »

(Alessandro Pavolini confidandosi all'amico Pierfrancesco Nistri il 26 luglio 1943)

Cinque minuti prima della mezzanotte del 27 luglio a bordo di un'auto munita di targa diplomatica giunse a Villa Wolkonsky, all'epoca sede dell'ambasciata tedesca a Roma e l'indomani mattina dallo scalo aereo di Ciampino, partì per Königsberg raggiungendo Vittorio Mussolini.

Segretario del Partito Fascista Repubblicano

La ricostituzione del partito fascista

A seguito del tracollo del regime, Pavolini si rifugiò in Germania, da qui svolse opera costante di propaganda mostrandosi ai tedeschi oltre che fedelissimo del Duce, anche fascista intransigente. Infatti ancor prima dell'armistizio dell'8 settembre, insieme a Vittorio Mussolini, da Königsberg sviluppò i piani politici per la restaurazione del fascismo in Italia e pronunciò comunicati via radio in italiano che preannunciavano il ritorno del Duce al governo. Quando questi fu liberato dalla prigionia sul Gran Sasso e condotto in Germania, Pavolini fu tra coloro che a Monaco sostennero la necessità di dare al centro-nord Italia un "Governo Nazionale Fascista" dopo la fuga da Roma del Re e di Badoglio, insistendo con Mussolini affinché ne assumesse la guida.
Così Pavolini si rivolse a Mussolini al loro primo incontro dopo la liberazione da Campo Imperatore:

« Il governo provvisorio nazionale fascista attende la ratifica dal suo capo naturale: solo così si potrà annunciare la composizione del governo. »

(Alessandro Pavolini rivolgendosi a Mussolini)

Dopo alcuni tentennamenti, Mussolini si risolse ad accettare la guida della nuova entità statale. La scelta di Mussolini, per la quale spingeva Hitler stesso che voleva nuovamente dare dignità al proprio maestro ed amico, indispettì parte dei gerarchi nazisti che avrebbero preferito una figura più malleabile.

La Repubblica Sociale Italiana

Costituita la Repubblica Sociale Italiana fu nominato segretario provvisorio del neonato Partito Fascista Repubblicano (PFR). Il 17 settembre si recò con Guido Buffarini Guidi a Roma, dove aprì la sede del Partito a palazzo Wedekind riorganizzandone la struttura e l'organizzazione. Da qui lanciò un appello radiofonico agli italiani:

« Facile è l'entusiasmo nelle vittorie, più arduo ma più degno è tener fede nei giorni avversi con i denti stretti e col pugno duro. Chi oggi si arrende si rassegna alla perpetua vergogna e alla miseria per sé e per i suoi. Fascisti e cittadini romani e italiani, riaccendete l'intimo fuoco delle speranze e della volontà, stringetevi intorno a Mussolini e alla bandiera d'Italia. Non tradiamo i Caduti d'Italia e l'Italia non cadrà. »

(Alessandro Pavolini, dal discorso radiofonico del 17 settembre 1943)

Il 23 settembre Pavolini convinse il maresciallo Rodolfo Graziani ad aderire al PFR dopo un burrascoso colloquio. Successivamente convocò gli ufficiali del Presidio Militare di Roma e, annunciato loro che "il partito che io guido sarà un partito totalitario", ordinò alla divisione Piave di deporre le armi, consegnarle ai tedeschi e mettersi in marcia verso il nord in attesa di ulteriori ordini. Il 24 settembre fece celebrare la prima cerimonia funebre in onore di Ettore Muti, ucciso in maniera misteriosa durante il suo arresto notturno a Fregene ad opera di Carabinieri inviati da Badoglio.
L'idea di Pavolini di creare un esercito prettamente fascista per la Repubblica Sociale Italiana lo portò a vari scontri con Graziani, che desiderava che il nascente Esercito Nazionale Repubblicano fosse apolitico, e con l'amico Ricci che era al comando della Guardia Nazionale Repubblicana. Pavolini riuscì poi a ottenere soddisfazione con la creazione delle Brigate Nere.
Fu aperta la campagna tesseramenti al nuovo Partito Fascista Repubblicano. Secondo le direttive di Pavolini si negò aprioristicamente la tessera a coloro che avevano appoggiato il Governo Badoglio ed ai fascisti pentiti che chiedevano la reintegrazione. Il tesseramento fu poi chiuso per il sospetto che potessero giungere richieste strumentali da parte di "avventurieri ed opportunisti". Abolì inoltre l'uso del termine gerarca ed i fronzoli che adornavano le divise militari, rendendole il più possibile spartane. A fine ottobre erano già state raccolte circa 250.000 richieste di iscrizione al Partito Fascista Repubblicano.
Questo dato portò al congresso costituente di Verona (novembre 1943)raccontando: «ci siamo impadroniti dei ministeri mandando un camerata accompagnato da due, massimo da quattro giovani fascisti armati di mitra».
In realtà i due gerarchi erano nella capitale, seguendo un progetto discusso a Monaco con Mussolini, per riunire la Camera dei Fasci ed il Senato per far loro dichiarare decaduta la monarchia, ma si avvidero che era eccessivamente rischioso, avendo le Camere già votato in modo apertamente antifascista. Il 5 novembre, a seguito dell'omicidio di diversi fascisti nel corso di imboscate (colpì in particolar modo l'uccisione del console della Milizia Domenico Giardina), Pavolini emanò la seguente ordinanza che comminava la pena di morte ai responsabili:

« Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico, il segretario del P.F.R. ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassini. Previo giudizio dei tribunali speciali, detti esecutori o mandanti siano passati per le armi. Per mandanti morali intendo i nemici dell'Italia e del fascismo, responsabili dell'avvelenamento delle anime. »

Il Manifesto di Verona

Alessandro Pavolini partecipò con Benito Mussolini e Nicola Bombacci alla stesura del Manifesto di Verona, che fu poi posto ai voti ed approvato al Congresso del Partito Fascista Repubblicano del 14 e 15 novembre 1943.

L'assise di Verona

Pavolini, chiamato a presiedere il primo ed unico Congresso del Partito Fascista Repubblicano (PFR) in qualità di segretario, aveva aperto l'assise leggendo un messaggio di Mussolini in cui si invitava ad adoperarsi per dare alla nuova repubblica un esercito. Pavolini proseguì la propria relazione paventando il pericolo costituito dagli attentati partigiani e richiamandosi al fascismo delle origini:

« Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno.... Lo squadrismo è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre. »

(Alessandro Pavolini, 14 novembre 1943)

per poi concludere:

« E' l'antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemmi sulla sua parte bianca, là dove noi idealmente iscriviamo, come su una pagina tornata vergine, una sola parola: "Onore". »

In seguito furono poi approvati i 18 punti del Manifesto di Verona. Mussolini descrisse a Dolfin il congresso come:

« E' stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qualcuno, infatti ha chiesto l'abolizione, nuda e cruda, del diritto di proprietà. »

(Mussolini a Dolpin)

Sostanzialmente il Congresso di Verona segnò la vittoria dei fascisti più intransigenti a scapito della corrente moderata, come dimostrò anche l'avvenuta rappresaglia di Ferrara.

La rappresaglia di Ferrara

Mentre il congresso era in corso, giunse a Verona la notizia dell'uccisione di Igino Ghisellini, pluridecorato  reggente la Federazione di Ferrara (Ghisellini dopo l'armistizio, aveva aperto trattative con gli antifascisti rifiutate però dal Partito comunista). Pavolini comunicò subito la notizia all'assemblea:

« Il commissario della federazione di Ferrara che avrebbe dovuto essere qui con noi, il camerata Ghisellini, è stato ucciso con sei colpi di pistola. Noi eleviamo a lui il nostro pensiero. Egli sarà vendicato!. »

(Alessandro Pavolini il 14 novembre)

Alla notizia i partecipanti all'assise cominciarono a gridare: "A Ferrara, a Ferrara". Pavolini, assecondando le richieste di rappresaglia disse: «lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile» e disponendo l'invio solo degli squadristi ferraresi e di Verona e Padova aggiunse:

« Non si può gridare in presenza del morto; si agisce in modo disciplinato. I lavori continuano. I rappresentanti di Ferrara raggiungano la loro città. Con essi vadano le formazioni della polizia federale di Verona e gli squadristi di Padova. »

(Alessandro Pavolini il 14 novembre)

In seguito alle disposizioni date da Pavolini, diverse squadre si recarono a Ferrara per eseguire la rappresaglia nel corso della quale settantacinque antifascisti furono prelevati dalle loro abitazioni e dalle locali carceri. Undici di essi furono sommariamente fucilati la notte stessa del 15 novembre, mentre alcuni altri morirono successivamente in carcere. La rappresaglia di Ferrara fu criticata da Mussolini per la sua ferocia e la sua inopportunità politica: in quel momento egli cercava di riunire quel che restava del Paese sotto la RSI, non precipitarlo ulteriormente in una guerra fratricida.

« Un atto stupido e brutale. »

(Benito Mussolini)

Tuttavia, da quel momento il dado fu definitivamente tratto. Roberto Farinacci commentò così l'episodio su "Il Regime Fascista": «La parola d'ordine è stata: occhio per occhio, dente per dente. Si è creduto forse che noi non avessimo la forza e il coraggio di reagire. I fatti ora hanno parlato».
Da quel momento la stampa di Salò prese ad impiegare largamente il neologismo "ferrarizzare" quale sinonimo di analoghe operazioni di liquidazione del nemico interno reputate "esemplari". Secondo Indro Montanelli:

« Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura »

(Indro Montanelli)

Il processo di Verona

La vittoria dell'ala dura del fascismo repubblicano al congresso di Verona sancì un sentimento comune a tutte le federazioni del nord Italia, desiderose di vendetta su coloro che nel Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943 avevano sfiduciato Mussolini apponendo la propria firma sull'Ordine del giorno Grandi. I membri del Gran Consiglio che vennero arrestati furono processati e cinque di essi condannati alla pena capitale, gli altri tredici condannati a morte in contumacia.
In serata tutti e cinque i condannati a morte compilarono la loro domanda di grazia, compreso Ciano che la firmò dopo numerose sollecitazioni; per decisione di Pavolini le richieste di grazia non furono mai inoltrate a Mussolini. Esse, dopo un procedimento assai contorto, furono formalmente respinte dal console Italo Vianini.
Fu in questo contesto che Pavolini si guadagnò la definizione di "irriducibile" ed a tal proposito lo si ricorda come "il Superfascista". Secondo Mack Smith, la sua prima fama sarebbe stata quella di un uomo "intelligente e sensibile", ma oramai "il fascismo ne aveva fatto un fanatico privo di scrupoli, un uomo spietato e vendicativo che credeva nella politica del terrore". A Ferdinando Mezzasoma, suo "successore" al Ministero della Cultura Popolare, ordinò che i giornali evitassero appelli "per la pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani".
Carolina Ciano, madre dell'ucciso, attribuì in un suo scritto la responsabilità della sua fucilazione a Pavolini insieme a Buffarini, Cosmin e donna Rachele, la moglie di Mussolini.

I franchi tiratori di Firenze

Nel giugno 1944, alla caduta di Roma, Pavolini era a Firenze per organizzare al meglio la resistenza della città e permettere quindi agli alleati tedeschi di organizzare le difese sulla Linea Gotica. In una relazione a Mussolini scrisse:

« Particolare cura dedico all'organizzazione dei gruppi di attivisti da lasciare sul posto o eventualmente da irradiare al Sud. Iniziative ben consistenti sono state prese per Terni, Arezzo, Grosseto, Firenze, Livorno, Pisa: radio clandestine, tipografie, bande, movimenti politici. »

(Alessandro Pavolini nella sua relazioni a Mussolini del 19 giugno 1944)

Nell'agosto 1944 prese parte ai primi combattimenti nella sua Firenze a capo dei fascisti fiorentini, riuscendo a resistere in armi per molti giorni dopo l'arrivo degli Alleati, e ritardando la conquista della città organizzando i franchi tiratori (dei quali fecero parte anche donne e ragazzini). Il 18 agosto il "Corriere Alleato "diede notizia dei primi scontri con i franchi tiratori fascisti a Firenze:

« Le camicie nere repubblicane di Mussolini sono state viste, per la prima volta, in combattimento contro i patrioti nei sobborghi settentrionali di Firenze. »

(Il "Corriere Alleato" del 18 agosto 1944)

L'attività dei Franchi tiratori fascisti terminò soltanto il 1º settembre quando la città fu definitivamente conquistata dagli Alleati appoggiati da nuclei di partigiani.

La creazione delle Brigate Nere

La costituzione delle Brigate Nere fu un disegno lungamente inseguito da Pavolini, sin da quando a Roma, nei primi giorni del suo lavoro di ricostituzione del partito fascista, aveva inteso farne un'organizzazione intransigente e totalitaria, esclusivista e combattente su ispirazione delle vecchie squadre d'azione dello squadrismo. Il progetto vide l'opposizione di Rodolfo Graziani e Renato Ricci contrari alla creazione di un esercito politicizzato.
Scrisse a proposito Pavolini:

« Gli italiani non temono il combattimento e quelli che sono fedeli al Duce lo sono per davvero. Non amano però essere rinchiusi in caserma, inquadrati, irreggimentati... Il movimento partigiano ha successo perché il combattente nelle file partigiane ha l'impressione di essere un uomo libero. Egli è fiero del suo operato perché agisce indipendentemente e sviluppa l'azione secondo la sua personalità e individualità. Bisogna quindi creare un movimento antipartigiano sulle stesse basi e con le stesse caratteristiche. »

(Alessandro Pavolini)

L'idea fu apprezzata dai tedeschi (in particolare da Wolff e da Rahn), quando ormai gli Alleati premevano verso la linea Gotica ancora in costruzione, facendo loro balenare la possibilità di creare, usando le strutture e gli uomini del partito, un nuovo corpo armato più efficiente, agile e deciso della GNR, in grado davvero di "distruggere la piaga del ribellismo" e di assicurare la tranquillità delle retrovie germaniche.
Il 22 giugno 1944 Pavolini consegnò le armi agli iscritti del PFR di Lucca costituendo di fatto quella che sarà la prima Brigata nera, denominata "Mussolini" il cui comando fu assegnato ad Idreno Utimpergher. La nascita ufficiale delle Brigate Nere fu annunciata dallo stesso Pavolini alla radio il 25 luglio 1944, nel primo anniversario del "tradimento" del Gran Consiglio. Discorso che concluse con queste significative parole:

« [...]Forze della riscossa saranno le Brigate Nere in cui fiammeggierà, in una seconda primavera, il vecchio fuoco dello squadrismo. A noi, camerati! Nonostante ogni fallace apparenza l'avvenire ci appartiene, perché noi apparteniamo ad una Europa eroica, le cui luci, necessarie al mondo, non possono spegnersi! »

(Alessandro Pavolini nel discorso radiofonico del 25 luglio 1944)

Il 30 giugno 1944 completò la costituzione delle Brigate Nere. Esse furono costituite nel numero di 41 brigate, una per ogni provincia della RSI, ed intitolate ciascuna ad un caduto del fascismo. Ad esse si affiancavano sette brigate autonome e otto brigate mobili per un totale di 110.000 unità.
Nel contesto dello stesso annuncio, Pavolini rese noto che i brigatisti già "saldamente inquadrati" erano ventimila, una cifra destinata a crescere in numero, ma non in efficienza: questo sia per la mancanza di materiali sia in quanto i quadri del partito, spesso privi di esperienza ed istruzione militare, vennero trasformati istantaneamente in comandanti di formazioni militari.
Le Brigate Nere dovevano essere impiegate, secondo le parole pronunciate in giugno da Mussolini e riprese da Pavolini, per dare corpo alla "marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea", riferendosi al Piemonte, dove i partigiani erano particolarmente attivi sin dal settembre 1943 e, guidati da comandanti esperti (spesso ufficiali del Regio Esercito che avevano deciso di dare vita alla resistenza dopo l'armistizio), erano riusciti a strappare larghe porzioni di territorio al controllo nazifascista anche per estesi periodi di tempo.
Fu durante queste prime operazioni svolte dalle Brigate Nere in Piemonte che Pavolini il 12 agosto 1944 nella valle dell'Orco fu ferito dalla deflagrazione di una bomba nel corso di un attacco partigiano della 77ª brigata "Garibaldi". Pavolini fu ricoverato all'ospedale di Cuorgné, ove rimase un mese prima di poter far ritorno, ancora aiutandosi con un bastone, a Maderno dove risiedeva. A seguito del ferimento, su proposta di Wolff, Pavolini fu insignito da Hitler della Croce di Ferro per i suoi "meriti nella guerra antiribellistica".
Più tardi partecipò sempre in prima persona, alla guida delle Brigate nere, alle operazioni di riconquista della Repubblica partigiana dell'Ossola che avvennero tra il 10 e il 23 ottobre. Il 16 dicembre Pavolini accompagnò Mussolini nell'auto scoperta che fece il giro di Milano prima del discorso del Teatro Lirico, di piazza San Sepolcro e del Castello Sforzesco, l'unica uscita pubblica del duce dopo il 25 luglio del 1943.

La missione in Venezia Giulia

A fine gennaio 1945 Pavolini fu inviato da Mussolini in Venezia Giulia per rimarcarne l'italianità. Nei territori orientali i tedeschi, fin dal 1943 avevano costituito la Adriatisches Kustenland, sottraendo di fatto quei territori al regno d'Italia e non restituendoli poi nemmeno all'autorità della Repubblica Sociale Italiana. Pavolini si recò a Udine, Gorizia, Fiume, Trieste intrattenendosi con i rappresentanti del Partito Fascista Repubblicano, di cui raccolse le lamentele circa l'ingombrante alleato tedesco che favoriva l'elemento croato a discapito degli italiani.
Pavolini pronunciò, al Teatro Verdi di Trieste, un discorso improntato sulla difesa dell'italianità della città che strappò l'applauso dei convenuti:

« Talvolta in questa vostra trincea avanzata che è Trieste, all'estremo di lunghe strade isolate dal bombardamento nemico, per le comunicazioni scarse e per altri motivi che conoscete, vi è accaduto di sentirvi lontani. Ebbene, io posso dirvi una cosa sola: nessuno più di voi triestini e gente della Venezia Giulia è vicino ogni ora al cuore di Mussolini. »
(Alessandro Pavolini al teatro Verdi di Trieste)


Il Ridotto alpino repubblicano

Mussolini e Pavolini ripresi a Milano in occasione dell'ultima uscita pubblica del primo al Teatro Lirico, il 16 dicembre 1944; il secondo ripeteva spesso che loro due erano gli italiani più odiati in assoluto.

« Un'idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana. »

(Alessandro Pavolini)

Fu sostenitore, o forse proprio ideatore, della proposta del Ridotto alpino repubblicano (RAR), che prevedeva di ritirare in Valtellina tutte le truppe ancora teoricamente disponibili (in particolare: le sue Brigate nere) onde poter opporre un'estrema resistenza contro gli Alleati. Con certezza ne fu comunque il principale organizzatore, tant'è che alcuni mesi prima della fine fu costituita su iniziativa di Mussolini una commissione di coordinamento dei lavori del RAR e Pavolini ne fu nominato presidente: ne aveva scelto come comandante (generale Onorio Onori), vi aveva destinato ed accasermato le truppe (squadristi toscani con rispettive famiglie) e programmava un concentramento di circa 50.000 uomini. Dette queste notizie a Mussolini durante la riunione del 14 aprile 1945 a Villa Feltrinelli a Gargnano, alla presenza dei massimi esponenti della RSI: Graziani, Filippo Anfuso (nuovo viceministro degli esteri), il generale delle Allgemeine SS Wolff, il ministro dell'interno Zerbino, il colonnello Dollmann e diversi altri generali sia italiani che tedeschi. Consegnò inoltre programmi di trinceramento come l'escavazione di caverne (bunker) e la traslazione nel ridotto delle ceneri di Dante.
Fra le altre idee di Pavolini vi era la costruzione di una stazione radio di propaganda e di una tipografia per la stampa di un giornale che avrebbe dovuto essere distribuito lanciandone le copie da un aereo in volo. Essendo tutti i convenuti, Pavolini compreso, già convinti dell'imminente fine, concluse gridando che "in Valtellina si consumeranno le Termopili del fascismo". La proposta, tuttavia, non ebbe concreto seguito.
Per i fascisti che avevano seguito il loro Duce, Pavolini dispose però premi in denaro e la possibilità di scegliere tra il rifugio in Germania o la "mimetizzazione", fruendo di documenti falsi e di tessere annonarie; con Mezzasoma, ministro del Minculpop, preordinò la distribuzione di fondi segreti fra quei fascisti che avessero voluto proseguire in clandestinità la lotta nell'Italia del dopoguerra e la disseminazione di "talpe" in istituzioni ed organismi cruciali. Con una nota riservata, suggerì a Mussolini di organizzare in Svizzera una centrale fascista di una trentina di elementi fidati, costituendovi un fondo monetario speciale in valuta straniera per le occorrenze future.

Le ultime giornate di Salò

Dopo il fallimento delle trattative di resa con il CLN, Mussolini, dopo una riunione al palazzo della Prefettura a Milano, decise di accettare la proposta di Pavolini ed impartì l'ordine di dirigersi verso il Ridotto alpino repubblicano, ordine mascherato nella formula "Precampo a Como", ma tuttavia ben chiaro. Pavolini ordinò alle Brigate Nere della Liguria e del Piemonte di muovere verso la Valtellina e stimò in circa 25.000 le unità in movimento. Prima di partire ebbe un violento scontro con Graziani, che lo accusò di mentire e di illudere il Duce, e con Junio Valerio Borghese, il quale gli disse che la Xª Flottiglia MAS non sarebbe andata in Valtellina[74] e che si sarebbe arresa "a modo nostro".
Alla partenza di Mussolini, Pavolini spintonò Carlo Borsani, cieco di guerra pluridecorato e Medaglia d'oro al valor militare, che supplicava il Duce di trattenersi a Milano dove stava trattando la resa con i partigiani.
Mussolini partì la sera del 25 aprile; il giorno dopo Pavolini insieme a Idreno Utimpergher, Comandante della Brigata Nera di Lucca, si mise alla testa di una colonna di 178 veicoli, che contavano 4.636 uomini e 346 ausiliarie. Una volta giunto a Como non vi trovò Mussolini, il quale aveva proseguito sino a Menaggio. Il 27 aprile da Menaggio proseguì verso Dongo, in direzione dell'Alto Adige.
Pavolini si unì quindi all'autocolonna di Mussolini, che a propria volta si unì ad un'autocolonna della FlaK (contraerea) tedesca in ritirata verso la Germania. Pavolini portò sul suo autoblindo in testa al corteo sia quello che diverrà noto come l'oro di Dongo che gli archivi documentari, forse contenenti anche il presunto carteggio Churchill-Mussolini. Dopo circa un'ora di viaggio Pavolini fermò la colonna, chiedendo a Mussolini (della cui sicurezza si autoproclamò responsabile) di scendere dalla sua auto per viaggiare sul suo autoblindo.
Poco più avanti incapparono nel posto di blocco improvvisato dalla 52ª Brigata Garibaldi, agli ordini del conte Pier Luigi Bellini delle Stelle. I partigiani, consultato il loro comando di zona, accettarono qualche ora dopo di far passare i tedeschi, mentre a Mussolini furono fatti indossare un pastrano ed un elmetto da sottufficiale tedesco, nel tentativo di farlo in tal modo passare inosservato e consentirgli di superare il blocco partigiano. Pavolini lo scongiurò drammaticamente di non partire, di non abbandonare i suoi fedeli, ma Mussolini lo spintonò, chiedendogli conto delle divisioni di Brigate Nere che gli aveva millantato ("Voi e le vostre fantomatiche Brigate Nere, dove sono finiti tutti gli uomini che mi avevate promesso?"). Poi salì sull'autocarro tedesco lasciandosi dietro Pavolini. Questi, incitato da un giovane legionario della Ettore Muti, studiò la possibilità di attaccare i partigiani, ma Birzer, che della vita di Mussolini rispondeva direttamente a Hitler (ignorando che questi era nel frattempo circondato dai sovietici a Berlino e sul punto di suicidarsi), riuscì a farlo desistere.
Raggiunto un accordo col conte Bellini, gli autocarri tedeschi partirono e poterono proseguire con Mussolini. Gli italiani, dopo la partenza dei tedeschi, avrebbero dovuto invece tornare indietro: l'autocarro di Pavolini partì bruscamente e, per superare una cunetta, fece una manovra scomposta con una repentina accelerata, equivocata come un tentativo di forzare il blocco. Ne nacque una sparatoria. Mentre Barracu proponeva di arrendersi, Pavolini gridava "Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi": preso il mitra si lanciò quindi verso il lago, correndo e sparando. Inseguito dai partigiani e ferito in modo piuttosto grave da schegge di proiettile ai glutei. A seguito di un'ampia battuta di ricerca fu catturato a notte, indebolito da una ferita dai pallini da caccia ricevuti nella ferita, fu poi portato a Dongo, nella Sala d'Oro del palazzo comunale, dove poi fu condotto brevemente anche Mussolini, anch'egli nel frattempo riconosciuto e catturato.
Insieme a Paolo Porta e Paolo Zerbino Pavolini fu processato per collaborazionismo con il nemico, passibile per il CLN di fucilazione immediata secondo la sua ordinanza del 12 aprile precedente. Furono fucilati anche gli altri 12 arrestati che erano con loro. Pavolini ebbe per ultimo vanto quello di guidare la fila indiana dei condannati che dall'edificio del comune si avviò verso il lago, nei pressi del quale (dopo diversi incidenti procedurali) furono schierati di schiena per l'esecuzione. Il cadavere di Pavolini fu esposto il giorno dopo a Milano, a Piazzale Loreto, appeso con quello di Mussolini.

fonte: Wikipedia

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