mercoledì

la tonnara



Si definisce tonnara l'insieme di reti particolarmente conformate che vengono usate per la pesca del tonno rosso; con lo stesso nome si indica in Italia, per estensione, il luogo in cui la si usa nella pratica con la mattanza. La mattanza è un antico, tradizionale metodo di pesca del tonno rosso, sviluppato nelle tonnare, e diffuso in particolare in tutta la Sicilia, prova ne sia che su tutto il suo litorale occidentale e orientale anticamente sorgevano tonnare. Una pesca che è stata praticata anche in Liguria, in Sardegna e in misura minore in Calabria e Toscana.

Le carni del tonno pescato sono più gustose e pregiate perché si tratta di esemplari oltre i 100 kg, questi vengono esportati in tutto il mondo, e sono diventati una prelibatezza ricercata soprattutto in Giappone, dove vengono portati con viaggi aerei in celle frigorifere, isolati uno dall'altro, per garantire l'integrità del sapore e dell'aspetto.

Il tonno preso nella mattanza viene venduto fresco ai mercati del pesce o avviato all'industria conserviera. Il tonno può subire vari processi di conservazione che vanno dall'affumicatura alla salagione. Molto più spesso viene cotto a vapore e conservato in scatola o sotto vetro sia al naturale che in olio. Molto pregiata è la bottarga e apprezzato anche il lattume.

La mattanza però va quasi scomparendo a causa della diminuzione della popolazione ittica dei tonni per l'inquinamento crescente del mare, ma soprattutto a causa della pesca di tipo industriale che intercetta i banchi di tonni molto prima che questi si avvicinino alle zone costiere; i pescatori ormai si passati al metodo delle tonnare volanti, che intercettano nell'oceano i tonni, riuscendo a catturare quelli più grossi.

Il modo di pescare è vario secondo il luogo e la stagione: in Francia, sulle coste della Linguadoca, si stabiliscono dei posti di guardia elevati che segnalano l'arrivo dei tonni e la direzione nella quale procede la formazione. Al segnale delle vedette prendono il mare molti battelli già approntati in precedenza, che, sotto la guida di un capo, formano un ampio semicerchio con le reti e spingono il pesce verso terra. Quando l'acqua è molto bassa, si getta l'ultima rete e si trae sul lido il bottino.

Le origini

La pesca del tonno ha origini antiche, con la nascita delle primi nuclei di umanità primitiva che si stabilirono lungo i litorali e si rivolsero al mare per trarre il loro sostentamento. L’uomo primitivo incominciò ad affinare le sue tecniche di pesca e incominciò ad ottenere i frutti del suo lavoro. L'oggetto della pesca erano in particolare le specie di pesci, che si radunavano in zone della costa dove l’acqua era più bassa per la deposizione delle uova. Queste specie di pesci sarebbero state quelle più facili da catturare con rudimentali attrezzi primitivi. L’attenzione dei pescatori sarebbe stata sempre rivolta verso quelle specie di pesci che erano caratterizzate da una spiccata gregarietà, che consentiva una più facile cattura nell'avvicendarsi presso la riva di raggruppamenti molto

compatti, il che riduceva di molto la possibilità di errore. Una specie che rispecchiava a pieno queste caratteristiche era il tonno rosso.

Già dalla civiltà mesopotamica di Ur, sono stati trovati grossi ami di rame, simili a quelli trovati a Tello, in Palestina ed a Tell Asman e sigilli cretesi, incisi intorno al 2.000 a.C, in cui oltre a delle navi alberate adibite con tutta probabilità alla pesca del tonno, si potevano osservare delle sagome di grandi pesci, che per taglia e per la grande coda lunata, rappresentavano senza dubbio grossi tonni da catturare con i riconoscibili attrezzi della stessa epoca.

J. Couch (1867) sosteneva, che i primi pescatori di tonni furono i Cananei delle città costiere, che catturavano grandi animali marini, indicati con il nome ebreo e/o fenicio di Than, perfezionando i sistemi di cattura ed allontanandosi sempre di più dalle coste per seguire gli ampi e periodici spostamenti di questi grandi pesci.

Omero e Plinio scrivono già sulla pesca del tonno di Sicilia. Gli antichi la praticavano su larga scala, soprattutto a Gibilterra e nell'Ellesponto.

Con il passare dei secoli la pesca del tonno incomincia ad essere praticata in tutto il Mediterraneo poiché si conosceva il percorso di migrazione, chiamato anche viaggio d’amore di questo grande pesce. I tonni entravano infatti dallo stretto di Gibilterra nel periodo di aprile/maggio grossi e carichi di uova, e le depongono sulle coste bagnate dal Mar Mediterraneo. Così la pesca del tonno diventò una vera e propria fonte di guadagno per i popoli delle coste, che si specializzarono nella pesca di questo grande pesce, che con le sue migrazioni molto frequenti e numerose assunse ben presto un valore rilevante nell'economia delle città costiere. La sapidità della loro carne si prestava a gustose manipolazioni ed a lunghe conservazioni.

Il Medioevo

Dalla metà del periodo imperiale romano, non si hanno indicazioni sulla pratica delle tonnare. Non se ne conosce le ragioni: alcuni pensano che questo sia dovuto ai costi delle pesca e alle tasse che lo stato imponeva e che probabilmente la pesca del tonno si effettuava ugualmente, ma non in maniera ufficiale e quindi non menzionata nelle fonti.

Nel periodo della dominazione bizantina, le marinerie godettero di più ampi spazi e libertà di appropriazione degli specchi d’acqua e sono pervenute alcune norme legislative che vietavano la pesca intorno agli impianti privati (quindi anche accanto alle tonnare).

Nel XII secolo Al Idrisi, l'importante geografo arabo, fu il primo a stilare e descrivere le sei zone siciliane, dove erano presenti delle tonnare: a Trabia e Caronia (tra Capo d’Orlando e Tusa)“si tendono le reti per la pesca dei grandi tonni”, a Oliveri “si pescavano tonni in abbondanza” , a Milazzo, e a Castellamare del Golfo “si pesca il tonno facendo uso di reti”, tra queste vi erano pure quelle della zona di Trapani, dove “la pesca è abbondante e superiore al fabbisogno, vi si pescano grandi tonni, usando grandi reti” [4]. Oltre a i luoghi menzionati dal geografo arabo si pensa che la tonnara si effettuasse anche nella zona di Nubia e San Giuliano (costiera tra il comune di Trapani e Erice); a Bonagia, e si pensa anche a Favignana, anche se, le prime notizie di una tonnara sull'isola sono più recenti: la tonnara di San Nicola risalente al primo decennio dell’Ottocento.

Nel medioevo vi erano diversi modi di pescare il tonno, tra cui: "la tonnara a sciabica" (il trascinamento di grandi reti fino alla costa cariche di tonni, dalle imbarcazioni), "la tonnara fissa" (reti posizionate lungo la costa, per attendere l'arrivo dei tonni), infine, il metodo più utilizzato per la sua praticità e abbondanza nel pescato era la tonnara di corsa.

Con l’arrivo dei Normanni in Sicilia (dal 1077 al 1194), viene regolamentato il “diritto di pesca che proibiva ai privati, fino alla distanza di un tiro di balestra per iactum balistae tutta l’estensione dei litorali idonei alla cattura dei tonni, la pesca di questo grande pesce”. Le grandi imprese di pesca erano amministrate direttamente dal un ufficio amministrativo reale, soprattutto attraverso gabelle e dazi.

Il feudatario riceveva la gabella, che comprendeva la gestione della tonnara; questa veniva ottenuta per meriti acquisiti in campo bellico, esso in oltre, doveva sostenere le Diocesi, i Santuari e i Monasteri che erano collegati per devozione alle tonnare, con donazioni di pescato e onerose. Sono soprattutto i Vescovi a beneficiare della munificenza reale, i quali ricevevano doni dalle tonnare, come ad esempio: il Vescovo di Patti (1090) poteva godere della rendita della tonnara di Oliveri e di un terzo della rendita di quella di Milazzo.

Dei doni delle tonnare fatti ai vescovi ne ha parlato, nel XI secolo, Gian Francesco Pugnatore: “ Pagano ben oggi i Trapanesi al Vescovo di Mazara le decime delle loro Tonnare, che sono certi spazi di mare da suoi termini litati, dentro i quali si può per solo privilegi da padroni loro far le pescagioni di Tonni; [...] Al Vescovo Mazarese loro Prelato di dargli la decima di tutti i pesci, che ogni anno prendessero, purché egli desse licenza di poter il dì delle feste far esercitare gli operai intorno al bisogno delle loro Tonnare; al che il Prelato di allora consentì”.

La pesca del tonno nel medioevo, quindi, fu un’attività di grande guadagno che necessitava però di grandi investimenti. Nel 1271, i Salernitani presero in concessione le tonnare di Castellamare del Golfo e di Trapani e successivamente, durante i Vespri siciliani, furono gli amalfitani Tagliavia ad amministrare le tonnare dell’intera Sicilia occidentale.

Intorno al XIV secolo, la pesca del tonno incominciò ad ampliarsi in tutto il Mediterraneo. Vennero costruite tonnare nello stretto di Gibilterra, nella costa spagnola, africana e francese. Le più tarde furono le tonnare francesi di Marsiglia e Roussillon.

Il primo a parlare della tonnara di San Nicola di Favignana è stato Raimondo Sarà, nella monografia "Dal mito all'aliscafo: storie di tonni e Tonnare":

"Era posseduta nel 1461 da Filippo Crapanzano ma non è citata nella lista delle tonnare di L. Barberi 1578. Nel 1577, compare però come “tonnara di nuova formazione” ed in quanto esentata, dal Procuratore Fiscale del Real Patrimonio, dal pagamento delle decime dalla Curia di Mazara."

Dal XVII secolo

Alla tonnara di Marsiglia, nel 1641 accadde un evento significativo, simbolo dell'incontro tra fede e tradizione. Ne fu protagonista Luigi XIII, che andò a visitare la tonnara con la regina Anna d'Austria, durante un pellegrinaggio ad un santuario, per invocare la grazia divina per aver un erede che ancora tardava a nascere. Il Re nel suo soggiorno assistette alla mattanza ed uccise un tonno con le sue stesse mani, da cui, sotto pressante invito del Rais, mangiò le gonadi, ritenute afrodisiache e di buon auspicio; dopo qualche anno nacque Luigi XIV.

Tutte queste tonnare sorte nel mar Mediterraneo avevano però sempre un legame con le tonnare siciliane dato che erano gli stessi tonnaroti siciliani ad essere sovente chiamati ad aprire nuove tonnare e a insegnare ai locali, i segreti di questa antica pesca.

Nel corso dei secoli sono sorte tonnare in Liguria (Camogli, Santa Margherita Ligure), in Sardegna (Carloforte, l'unica ancora attiva nel Mediterraneo e Portoscuso), sull'isola d'Elba, in Campania (Conca dei Marini sino al 1956), in Calabria (Palmi) e soprattutto in Sicilia (le più grandi), con le tonnare di Scopello, Trapani, Capo Granitola, Bonagia, San Vito Lo Capo, Porto Palo e a Favignana.

Il sistema di pesca

I metodi di pesca ancora oggi utilizzati sono: la tonnara di corsa, insieme di reti organizzate a camere, posizionate nella zona di passaggio dei tonni, e la tonnara volante, avviene con il posizionamento "volante" delle reti dopo aver intercettato dei banchi di tonno, con eco scandagli e radar.

Alla fine della mattanza il pescato veniva portato dalle imbarcazioni dentro lo stabilimento dove veniva lavorato e preparato per essere commercializzato. Come racconta Orazio Cancila: “la preparazione del prodotto sembra seguisse regole tradizionali, ma nel Quattrocento compaiono il taglum de Sibilia, cioè la preparazione della surra(parte grassa del tonno) alla sivigliana, e il tonno a la spagnola, [...] L’uovo di tonno, che era la qualità più pregiata, si confezionava attraverso un processo di essiccazione, così pure la musciama (filetto essiccato), i morsilli e i salsicciotti, mentre la surra, che dopo l’uovo di tonno era la qualità più pregiata, la tonnina netta e i grossami (occhi, bosonaglia, botana, cioè il collo, schinali, rispettivamente la schiena, spuntatura, spinelli, ecc.)si confezionavano sotto sale in barili del peso di kg. 60 o di kg. 40.”

I primi valori assoluti di produzione (in pesci e non solo in soldi) risalgono al 1598, anno in cui nelle tonnare del trapanese furono prodotti 21.140 barili di tonno, per circa 25.500 quintali utilizzati per l’esportazione e 24.700 quintali per il consumo locale, oltre alle ruberie e agli obblighi nei confronti dei monasteri e delle chiese. Grosso modo, si pescavano più di 35.000 tonni da 150 kg. di peso medio, per un fatturato annuo di 30/35 milioni di euro ai giorni nostri. Questo fa capire come la pesca del tonno sia diventata uno dei principali guadagni della Sicilia nel periodo medievale e moderno. Uno studioso che ci informa la produttività delle tonnare nella zona del trapanese è Orazio Cancila che scrive: “A fine secolo (1599), la tonnara di Favignana si rivela tra le più produttive del trapanese con 5.359 barili, ma non riusciva ancora a superare Bonagia, che nello stesso 1599 segnava una produzione di ben 8.186 barili, mentre Formica, appena impiantata, non andava oltre i 3.847 barili.”

Le tonnare sulle isole di Levanzo, Marettimo e Favignana, furono le più prolifere, nei dati di pesca del 1619 resero al Real Patrimonio ben 4375 scudi, praticamente la metà dei guadagni complessivi delle tonnare della zona del Trapanese.

Nel secolo successivo, la pesca del tonno subì un notevole tracollo, con stagioni che videro produzioni che spesso non superavano qualche migliaio di barili. Al principio del XIX secolo, il prodotto della pesca del tonno della marineria di Trapani si stabilizzò intorno ai 6.000 barili sino a scendere e diminuire sempre di più.

Sia nella I che nella II Guerra Mondiale le tonnare rimasero ferme. Perché i mari erano infestati da mine e da bombardamenti che spaventavano i pesci e non permettevano la calata in mare della tonnara; un altro motivo era la mancanza di personale chiamato alle armi. Anche dopo la II Guerra Mondiale la pesca del tonno tardava a riprendere la sua produttività, poiché i mari erano ancora infestati da mine che andavano ad impigliarsi con la corrente nelle reti delle tonnare: infatti molti tonnaroti nel secondo dopo guerra morirono per lo scoppio delle mine abbandonate.

Quando i mari ritornarono sicuri la pesca del tonno rosso riprese a pieno ritmo, ma non riuscì a raggiungere i numeri dei secoli passati. Così poco alla volta molte Tonnare dovettero chiudere, fino ai primi anni ’80, quando nella provincia di Trapani erano rimaste soltanto tre tonnare: quella di Bonagia, quella di Favignana e quella di San Cusumano. La più prolifica delle tre è stata sempre quella di Favignana.

La fine di una tradizione

In tempi recenti la produttività delle tonnare, si è notevolmente ridotta sia, per il poco pescato sia per il cambiamento del “viaggio d’amore” effettuato da questi pesci. Tutto ciò a portato alla chiusura di molte tonnare nel Mediterraneo tra cui quelle della costa francese e quelle della zona iberica, so invece aperte le tonnare nel Nord Africa e quelle della Sicilia Occidentale, più produttive.

I dati relativi alla mattanza del 1995, la Tonnara di Favignana ha catturato circa 750 tonni, di cui solo pochi esemplari erano adulti riproduttori di grandi dimensioni, il resto erano tonni di giovane età tra i tre e i cinque anni e il loro peso raggiungeva appena i 70 kg.

Le attuali tonnare si possono dividere in due tipi: “di andata” e “di ritorno”, in relazione al tipo di tonno che di passaggio. Nel primo caso si tratta di tonni che vengono dallo Stretto di Gibilterra, carichi di energia e uova, pronti per andare a depositarle nei mari più caldi; nel secondo caso si tratta dei tonni che tornano dalla deposizione delle uova, stanchi e mal nutriti dopo un lungo viaggio. Le tonnare “di andata” nella costa occidentale siciliana sono: Favignana, Formica, San Cusumano, Bonagia, Scopello, Castellammare, Trabia; mentre tonnare “di ritorno” sono: Capo Passero, Siculiana, Sciacca, Capo Granitola. Queste ultime hanno una minore produzione dovuta all'esiguo numero dei tonni che sono sfuggiti al loro viaggio d’andata.

I riti e le tradizioni legate alla tonnara rimasero immutati dai tempi del Medioevo, anche il modo di pesca, con il metodo delle tonnare “da corsa”. Gli stessi nomi, le stesse mansioni rimasero inalterate; la figura del Rais, colui che coordinava tutte le diverse fasi della pesca del tonno, con scrupolosa attenzione e dedizione, restò fondamentale, è diventato importante anche l’ausilio della tecnologia.

Le famiglie di Rais più importanti che si sono susseguite di generazione in generazione durante il ‘900 ,sono state la famiglia Barraco della tonnara di San Cusumano e la famiglia Cataldo della tonnara di Favignana.

Negli anni ’80 la pesca del tonno ebbe una diminuzione drastica nel numero dei tonni pescati. I motivi furono molteplici, e si ebbero varie teorie in proposito: la prima causa più importante è stata la nascita delle tonnare volanti.

Secondo l’ex Rais Leonardo Barraco è l’inquinamento acustico del mare, dovuto all'aumento delle imbarcazioni, ha provocato la diminuzione del pescato. L’ex Rais racconta un aneddoto della sua giovinezza sulla necessità di avere la massima quiete durante la pesca: nei primi anni ’30 il Rais della tonnara di San Cusumano era Domenico (detto Mommo) Barraco, padre di Leonardo, che a quei tempi era solo un ragazzino. Il giovane decise di andare con una piccola barca a motore a vedere da vicino la tonnara e i tonni intrappolati in essa. Mentre si avvicinava sentì una voce che gli urlava da lontano, era suo padre che gli ordinava di allontanarsi, poiché il rumore dell’imbarcazione avrebbe creato agitazione tra i tonni. Quindi se solo un motore di una piccola imbarcazione può disturbare il quieto vivere dei tonni, si pensi a tutti gli aliscafi che passano ogni giorno, per esempio tra l’isola di Favignana e Formica per motivi turistici, considerando anche il grande porto di Trapani con le numerose barche che vanno e vengono giornalmente.

L’ex Rais Leonardo Barraco propone quindi che nel periodo del passaggio dei tonni gli aliscafi e le imbarcazioni cambiano la loro rotta in altre zone, per non disturbare l’avanzare del grande pesce.

Un altro motivo per cui non si effettua più la mattanza è anche la mancanza di finanziatori che vogliano mantenere viva questa tradizione.

Per mantenere uno stabilimento con le sue tradizioni ci vogliono infatti molte risorse economiche. Ad esempio la tonnara di Favignana nell'ultimo secolo ha avuto molti proprietari: nell'Ottocento la tonnara apparteneva alla famiglia Florio, di origine calabrese, venuta in Sicilia per fare fortuna. Questo periodo fu il più importante per Favignana, che acquisì molta rilevanza per la tonnara. Col tempo i successori di questa grande famiglia incominciarono ad abbandonare la tonnara, fino ad arrivare al punto di venderla nel 1938 a una famiglia di imprenditori genovesi: i Parodi. Ma col passare degli anni il pescato continuava a diminuire e nel contempo le spese di gestione aumentavano, tanto che i Parodi dovettero vendere nel 1985 all'attuale proprietario della tonnara San Cusumano, Nino Castiglione. Nel 1991 lo stabilimento fu acquistato dalla Regione Siciliana, che lo ha recentemente ristrutturato.

Le ultime mattanze si sono effettuate a Bonagia nel 2003 e a Favignana nel 2007. Da allora gli stabilimenti sono in disuso e utilizzati in diverse attività: la tonnara di Bonagia è diventata un resort, la tonnara di Favignana è diventata un museo sulla pesca del tonno, lo stabilimento di San Vito Lo Capo invece è da tempo in disuso. L’unica che ancora si può considerare attiva è la tonnara San Cusumano che si è trasformata in fabbrica dove si produce il tonno in scatola “Auriga” e “Castiglione”, che arriva congelato dall'Atlantico della qualità pinna gialla.

Oggi la tradizione ha lasciato spazio all'industria e alla speculazione, al posto dei tonnaroti ci sono ora gli argani delle barche e l’arpione è stato sostituito dal fucile, per cui il sapere del Rais e le sue intuizioni sono state sostituite dai radar e dagli eco-scandagli. La mattanza non è più una ricorrenza antica basata sul rispetto per il grande pesce: ormai la pesca viene fatta tutto l’anno, con le tonnare volanti, in particolare dai giapponesi.

Fin dai primi anni novanta era possibile ai turisti assistere alla mattanza su delle imbarcazioni vicine alla rete. Ma non fu sufficiente questo ulteriore introito a proseguire nelle mattanze.

Oggi la mattanza resiste solo in Sardegna a Carloforte, nell'arcipelago del Sulcis.

Le Tonnare tradizionali

Nelle tonnare siciliane (Trapani, Favignana, Formica, Bonagia, Scopello, Castellammare del Golfo, San Vito Lo Capo, Porto Palo, Capo Granitola, Cefalù, Palermo, Mondello, Mazara del Vallo) e in quelle sarde (Sant'Antioco, Carloforte) nei secoli le più floride e importanti del Mediterraneo, la pesca avveniva attraverso la mattanza. L'ultima mattanza in Sicilia si è svolta nella tonnara di Favignana nel 2007.

Nelle isole Egadi, la più importante e prolifera tonnara si trovava nell'isola Formica, tra Trapani e Favignana, questa era una zona di transito per i tonni che entrando dallo stretto di Gibilterra si avvicinavano alle coste siciliane passando inizialmente tra le isole Egadi.

La tonnara di corsa

La tonnara di corsa, metodo di pesca più utilizzato dal Medioevo ai primi anni '90, per la sua praticità e l'abbondanza del pescato, si può installare in mare aperto o vicino la costa, ancorata al fondo marino con un numero imponete di ancore.

La posizione della tonnara è ben studiata dal Rais che deve trovare un luogo in cui le correnti non siano troppo forti e che sia protetta dal vento. Il complesso di reti e cavi viene chiamata isola che si estende per 5 km e larga 40-50 metri.

L’isola viene calata all'inizio di Maggio, periodo in cui inizia il passaggio dei tonni, e ritirata quando tutti i branchi di tonni hanno fatto il viaggio di andata.

La tonnara è composta da cinque camere, divise da reti chiamate porte che vengono aperte e chiuse dai tonnaroti per il passaggio del pesce da una camera ad un’altra.

Le cinque camere che compongono l’isola sono:

Camera grande: dove vengono ammassati i tonni prima della mattanza;

Camera Levante: si trova a destra della camera grande e serve per dividere i tonni se il pescato è abbondante e si vuole fare più di una mattanza;

Camera Bastarda: dove i tonni arrivati in questa camera vengono contati per sapere se il numero è adeguato per effettuare la mattanza;

Camera Ponente: è la camera più piccola che porta direttamente alla “camera della morte” ed è l’ultima a chiudersi prima della mattanza;

Camera della morte: l’unica ad avere sul fondo una rete chiamata “coppu” che viene issata dalle barche che si dispongono attorno ad essa, per far affiorare i tonni in superficie;

Il Rais prima di dare il consenso all'inizio della mattanza aspetta che il numero dei tonni imprigionati sia sufficiente per avere un buon pescato. A questo punto viene aperta la camera della morte. Così al comando del Rais incomincia la pesca, i tonnaroti che, guidati dalle Cialome, tirano sulle imbarcazioni il fondo della rete detta coppu diminuendo lo spazio ai tonni e costringendoli a salire in superficie. Incomincia così la fase più concitata della pesca con i tonni che ormai impazziti cercano una via di fuga; i tonnaroti armati di arpione li tirano sulle imbarcazioni. Date le grandi dimensioni del pesce, per tirare sulle barche un tonno vi è bisogno di otto tonnaroti armati di arpioni di diverse dimensioni, che permettono a tutti e otto di esercitare la stessa forza. Questa è la parte più pericolosa della pesca, dato che i tonni terrorizzati muovono velocemente la grande coda che potrebbe spezzare la schiena dei tonnaroti al momento della cattura. Quando tutti i tonni vengono tirati sulle imbarcazioni il Rais dichiara conclusa la pesca. Il Rais si toglie la coppola ed urla: "Sia lurato u nomi di Ggesù" e tutti risponderanno "Ggesù, Ggesù, Ggesù". Si festeggia il buon esito della pesca con un rituale antico, il bagno dei tonnaroti nel mare sporco di sangue dei tonni, che è di buon auspicio per le mattanze future.

È consuetudine trovare anche nella rete squali, pesce spada e delfini che sono i predatori dei piccoli tonni; essi possono portare anche gravi danni alle reti con la fuga dell’intero banco di tonni.

Successivamente il pescato veniva portato dalle imbarcazioni dentro lo stabilimento dove veniva lavorato e preparato per essere commercializzato.

Le imbarcazioni

Le imbarcazioni costituiscono l’elemento indispensabile per la pesca del tonno; il loro colore nero, dovuto alla pece, oltre a rispondere alla funzione pratica del calafataggio, fa loro assumere un aspetto simile a quello dei tonni, quasi a caratterizzare una continuità nell'ambito della loro funzione. Ogni barca ha una forma e funzione ben precisa a seconda del loro utilizzo durante la mattanza.

L’ambiente all'interno dello stabilimento dove vengono conservate e sistemate le imbarcazioni si chiama “mafaraggio” o "marifaràtico", è il luogo in cui oltre alle imbarcazioni sono conservate anche le reti, gli ormeggi e tutto ciò che forma la dote della tonnara.

Le imbarcazioni utilizzate all'interno della tonnara erano:

Vasceddu o Parascalmi, imbarcazione di 12 metri, con il fondo quasi piatto e poppa a specchio, trasportava le ancore nelle operazioni di “cruciatu”,gettava le reti e sollevava i tonni a bordo, durante la mattanza. Non era autonoma nella navigazione, pertanto veniva rimorchiata.

Muciara del Rais, lunga 9 metri, era addetta alle operazioni di sopravento. L’armamento era costituito da sei remi, otto scarmi,due lunghe aste per abbassare il "summu" durante gli spostamenti, e i "napi" (corde che servivano per aprire e chiudere le porte). Questa piccola barca era dove il Rais, durante la mattanza, dava gli ordini ai tonnaroti.

Bastarda, imbarcazione con poppa a specchio, lunga 10 metri, era adibita a vari usi che, a seconda delle operazioni che compiva, prendeva nomi diversi: ''Muciara i suari'', serviva per la disposizione dei galleggianti;

Varchi a guatari'', con il compito di segnalare il passaggio dei tonni lungo le camere, facilitato da un vetro di ispezione sul fondo;'' Vinturera bastarda'', aveva il compito di manutenzione della tonnara; Varchi i guardia'', adibite alla guardia della tonnara, sia di giorno che di notte.

Rimorchi, o anche chiamate Varcazze della lunghezza di quattro metri, con la poppa a specchio; autonome nella navigazione, venivano spinte da sei coppie di remi. Usate per il trasporto di "rusazzi", e dei "cavi di summu", ma il compito principale delle varcazze era rimorchiare tutte le imbarcazioni che non erano autonome.


Muciara del Rais, della Tonnara di Favignana
Questi tipi di imbarcazioni sono rimaste in uso fino con gli stessi nomi e le stesse mansioni ai primi anni novanta del secolo scorso, con modifiche dovute all'avanzare della tecnologia navale, tra cui l'applicazione del motore; successivamente i tipi tradizionali ebbero qualche cambiamento dovuto alla diversa potenza applicata, o, alla stessa installazione della propulsione meccanica (poppa a specchio, dritto di poppa con elica, cabine).

L'equipaggio

Il numero dell’equipaggio della pesca del tonno era in passato molto elevato, data la grande affluenza dei tonni nei mari siciliani. L’organico stagionale di una tonnara era normalmente composto da 90/100 tonnaroti (coloro che si occupavano delle pesca del grande pesce), decine di retaioli, di maestri cordai e di carpentieri. Sono da considerare addetti alla tonnara anche coloro che si occupavano della manutenzione delle imbarcazioni degli strumenti da pesca. Tutto il personale aveva i propri alloggi all'interno della struttura della tonnara o nei paesi circostanti.

La gestione del personale era assegnato dai feudatari o dalle diocesi a una figura particolare: il Massaro, uomo fidato che si occupava della gestione economica e strutturale dello stabilimento.

Il Rais è il dominus della tonnara (il capo assoluto), scelto dal proprietario della tonnara e dai tonnaroti più anziani, di solito è uno straniero, cioè un uomo che non aveva residenza nel luogo dove costruiva la tonnara e non aveva avuto nessun rapporto con gli altri tonnaroti. Egli portava sulla sua barca dieci uomini fidati che formava la sua scorta. il Rais dalla sua Muciara, nella camera della morte impartiva gli ordini durante la mattanza: questi ordini dovevano essere chiari, perentori e mai gridati. Il titolo si tramandava per generazioni. Egli si faceva guidare dall'istinto, dalle notizie e da appunti segreti trasmessi da padre a figlio e, inoltre doveva saper fare il “crociato” della tonnara, cioè riuscire a mettere in acqua le reti e i cavi che componevano la le varie camere della tonnara. Questo procedimento doveva essere molto accurato, dato che un minimo errore di centimetri potrebbe portare alla fuga del banco di tonni catturato. Rais è parola che in arabo significa capo o direttore e rivela come gli arabi abbiano avuto la loro importanza nell'insegnare la tecnica della pesca. Uomo sempre di specchiata fedeltà, il Rais deve avere grandi cognizioni sul fondo del mare e sui costumi del tonno, deve provvedere ad edificare la costruzione delle reti in modo che la burrasca non le danneggi e deve altresì sorvegliarle continuamente. È necessario perfino che sia un buon meteorologo e che sappia presagire le condizioni del tempo e, finalmente, il giorno della pesca, egli deve assumere il comando generale. Generalmente questi Rais hanno una lunga esperienza e sono trattati con grande rispetto.
Dopo il Rais, vi erano i Capoguardia,che potevano essere tre o quattro, a seconda della grandezza della tonnara; essi venivano ingaggiati con le loro barche complete di equipaggio e dovevano sovrintendere alla ciurma ad e ai turni di guardia in mare lungo la rete.
Gli operai che lavoravano sulle imbarcazioni erano i Mastri d’ascia, che si occupavano delle riparazioni sulle imbarcazioni, e i Calafati che si occupavano del calafataggio (passare la pece sulla chiglia dell’imbarcazione per rinforzarla).
Gli addetti alla lavorazione e salagione e al confezionamento del tonno sotto sale.
I Viddani (contadini), la gente dell'entroterra. Essi arrivavano numerosi per partecipare a questa pesca, non certo per il misero salario, ma per la garanzia della durata del lavoro che poteva proseguire per quattro mesi. I lavori a loro assegnati erano i più pesanti e al limite delle capacità umane, e tutto fatto con le loro braccia, come ad esempio mettere in acqua 300 o 400 ancore.
Tutto il personale aveva i propri alloggi all’interno della struttura della tonnara o nei paesi circostanti.

I tonnaroti avevano un salario molto misero a cui si aggiungeva però, una "gghiotta" (intesa come quantità necessaria al bisogno di una famiglia), un pesce minuto. Si può anche considerare una retribuzione, le varie parti del tonno che i tonnaroti rubavano dal pescato: la "tunnina" (tonno ucciso intero o affettato), gli "nchiumi" (intestini e parti interne) il "lattume" (gonadi maschili del tonno) e la "bottarga" (il sacco ovarico delle femmine). Le ruberie rientravano nella norma e nella mentalità tutti i lavoratori e tutti coloro che partecipavano alla tonnara, e quindi erano quasi accettate dai proprietari.

La tonnara volante

La tonnara volante è costituita da reti da circuizione che vengono lanciate in mare nel momento in cui i tonni si trovano nelle immediate vicinanze; così esse arrivano sui banchi di tonno, catturandoli con grande facilità, questo avviene grazie all'utilizzo di eco scandagli e radar.

Oggi, una flotta di grossi pescherecci attrezzati per la cattura del tonno rosso scandaglia il mar Mediterraneo pescando questo pregiato pesce e poi imprigionandolo in gabbie, ancorate al largo della costa o rimorchiate nei porti, dove il pesce viene tenuto all'ingrasso. Questo, consente di catturare anche il tonno "di ritorno"  cioè quando compie il suo viaggio a ritroso dal Mediterraneo all'Atlantico, dopo aver deposto le uova, ma con la permanenza nelle gabbie il peso viene recuperato facilmente ed il tonno diventa commercializzabile.

Successivamente viene poi ucciso molto velocemente, con un  colpo di fucile, e smistato sui vari mercati, principalmente in quello giapponese, dove la carne cruda del tonno rosso è molto apprezzata per la preparazione del sushi e del sashimi.

La flotta delle tonnare volanti nel Mediterraneo è molto numerosa, composta da barche italiane, francesi e spagnole. La campagna di pesca inizia a Malta a febbraio e le barche rimangono in quella zona fino ad aprile, catturando tonni dai 100 ai 300 Kg., poi si sposta lungo le coste della Calabria da maggio fino a metà luglio, per arrivare alle Baleari, dove si trovano soprattutto barche francesi e spagnole. La campagna in Liguria è l'ultima, inizia normalmente a metà agosto e si svolge in quello che viene chiamato il santuario dei cetacei, la zona al largo della Riviera Ligure di Ponente in cui è facile avvistare anche balene di passaggio. La pesca continua fino ad inverno inoltrato, almeno finché le acque non diventano troppo fredde, poi le gabbie con il pescato da allevamento vengono rimorchiate in Spagna.

La stagione di pesca per queste tonnare dura praticamente tutto l'anno a differenza delle tonnare di corsa.

Riti e tradizioni

Fin dall'antichità si effettuavano sacrifici, in favore alle divinità del mare; nel mondo greco era abitudine donare il primo tonno pescato a Poseidone. Col passare dei secoli questi riti si fortificano e con l’avvento del Cristianesimo la mattanza acquisì contorni rituali e sacrali in cui fede e pesca si intrecciavano per permettere un buon esito della mattanza.

Se il pescato per anni era sotto delle medie sperate, venivano coinvolti alle vicende tonnarote i Papi; si benediva il mare chiedendo il permesso a Sua santità, come quando nel 1706, Papa Clemente VI autorizzò la solenne benedizione e grandi processioni per implorare la grazia richiesta.

In ogni tonnara di trovavano piccole chiese e cappelle, dove erano costruiti degli altari, i cui venivano, di norma, esposte raffigurazioni: di Madonne, con alla destra San Giovanni Battista e a sinistra Sant'Antonio (SantAntuninu); in cui, ogni mattina le donne dei tonnaroti portavano dei fiori. Le donne, con il capo ricoperto, di fronte alla cappella della Madonna, per tutto il periodo della pesca, eseguivano litanie cantilenanti. Mentre il Rais elevava all'apertura della tonnara, sullo spicu du mastru, un crocifisso ricoperto d'immagini devozionali. Per tradizione il periodo di pesca più proficuo è dal 1 al 13 giugno, e, coincide con il ciclo di preghiere dedicate a Sant'Antonio, perciò, ogni mattina, il Rais seguito da una breve processione di tonnaroti, per tutto il periodo delle celebrazioni in favore del Santo, imbarcava sulla sua muciara, la statua, di norma posta davanti o dietro il ripostiglio di poppa. E ogni sera la raffigurazione del Santo veniva aspettata rientrare in chiesa, dalle donne, ed il tutto si concludeva con un'animata festa.

A Favignana, oltre ai rituali in favore di Sant'Antonio, veniva posta sullo spicu cu mastru della tonnara oltre alla palma votiva, una statua di San Pietro. Gli isolani per tradizione all'uscita del porto, dedicavano una preghiera recitata dal Rais al Santo:

"... nu Patri Nostru a San Petru chi pria u Signuri ppi na bbundanti pisca" (un Pater per San Pietro che preghi il Signore che ci mandi un'abbondante pesca), alla quale tutti i tonnaroti rispondevano : "chi lu faccia" (che lo faccia).

Ciascun canto di tonnara nella spontaneità delle parole e delle rime, nel susseguirsi di un augurio, di una preghiera. di lodi e di una superstizione viene tuttora inteso come Cialoma o Sciamola, termine che certamente deriva dall'ebreo Shalom. La più famosa è “Ajamola… Ajamola…” di chiarissima derivazione araba, da “aja, aja, Maulay” (… suvvia, o mio creatore, aiutaci….. orsù, o mio protettore, Sostenici.), questa preghiera viene cantata da tutti i tonnaroti nel momento di tirare la rete della camera della morte per darsi un ritmo.

Anche durante la preparazione e la costruzione della tonnara, il Rais, compiva dei riti e invocava la grazia divina con preghiere; mentre era intento a costruire le varie camere, nel momento dei primi incroci dei cavi, quando prendeva forma lo spicu cu mastru, l’angolo della tonnara, sul quale sarà innalzata la palma votiva, punto di incontro con il pedale che convoglierà i tonni nella grande camera di ingresso della trappola. Egli si fermava a ripetere per tre volte la seguente preghiera:

Umirmente umiliati

a’ Santa Crucis emu arrivati

Umirmente umiliati

Santa Cruci nn’aiutari

Diu, Gesù e Vergini Maria

Aviti cura ill’anima mia

Prodotti di tonnara

Bottarga
Ventresca
Buzzonaglia
Scapece
Lattume
Musciame
Tarantello
Ficazza
Polmonello
Cuore

Media

La Cinematografia sulla mattanza

La cinematografia etnologica sulla pesca del tonno ha ascendenze che risalgono agli albori della stessa storia del cinema: già nel 1910 fu girato un breve documentario dal titolo "La tonnara di Favignana"[20]. E nel 1913, Giovanni Vitrotti, un operatore-regista attivo nell'ambito documentario, girò alcuni spezzoni sulla pesca del tonno, purtroppo oggi andati persi.

Nel secondo dopoguerra è alla "scuola siciliana" che si debbono alcuni documentari come "La Mattanza" di Francesco Alliata (1948), durata di 9 minuti, che documenta la pesca del tonno e la vita della tonnara,(appartenente ai cataloghi Italian Films Export); nel 1954, lo stesso Francesco Alliata, in collaborazione con Quintino di Napoli e Pietro Moncada realizzarono il documentario "La pesca del tonno", con durata di 11 minuti, che descrive le varie fasi della pesca del tonno sulle coste siciliane, oggi conservato nel catalogo della Cineteca scolastica italiana del Ministero della Pubblica Istruzione; nel 1955 fu realizzato "Tempo di tonni" di Vittorio Sala che descrive la vita della tonnara e le varie fasi della pesca del tonno sulle costiere siciliane e a Favignana in particolare, oggi negli archivi cinematografici dell'Istituto Luce di Roma; e infine si trova materiale utile nell'Archivio di Folco Quilici con raccoglie, 11 scene sulla vita dei pescatori, ambientate a Trapani e 1082 scene su tutte le fasi di pesca del tonno praticata con la tonnara, girate sull'isola di Favignana.

La cinematografia sulla tonnara e sulla mattanza si è poi arricchita ulteriormente grazie al contributo significativo di un antropologo visuale statunitense, Philip Singer, che nel 1997 realizzò il film "L'ultima tonnara-mattanza?", con durata di 1 ora 53 minuti, un lavoro documentaristico che coinvolse 63 tonnaroti ripresi nei contesi della vita quotidiana: a casa, barca, piazza e cantiere, per 22 giorni in cui avvenne la preparazione e realizzazione della tonnara, precisamente dal 4 al 26 maggio 1996. Questo documentario è il più completo nel suo genere, al suo interno si trovano delle narrazioni storiche sulle tonnare, epiloghi per ciascun giorno ripreso (22), le riprese dal vivo della mattanza con i canti della tradizione tonnarota e le acclamazioni dei turisti che assistono.

fonte: Wikipedia

danza orientale


in arabo raqs al sharqi, رقص شرقي, danza orientale, è praticata in molte varianti, tra cui il Baladi, una danza del ventre da cabaret esclusivamente egiziana, l'Arabiya (l'orientale), anche noto come danza del ventre, e il Saidi, anch'esso esclusivamente egiziano. Quest'ultimo comprende il Tahtib, praticato solo da uomini, e il Raks Al Assaya, lo stile maschile che viene insegnato alle ballerine occidentali.

Storia

La danza orientale è una danza originaria del Medio-Oriente e dei paesi arabi, eseguita soprattutto, ma non esclusivamente, dalle donne. È considerata come una delle più antiche danze del mondo[senza fonte], soprattutto nei Paesi del Medio-Oriente e del Maghreb, come Algeria, Tunisia, Libano, Irak, Turchia, Marocco, Egitto.

In senso stretto, il termine indica la danza classica orientale che si è sviluppata nelle corti principesche del Medio-Oriente ma non solo. In un senso più vasto, può indicare tutte le forme che si conoscono al giorno d'oggi.

Durante la Campagna d'Egitto di Napoleone, i soldati francesi vennero a contatto con questa danza: provenendo da una società relativamente puritana, il movimento sinuoso dei corpi delle danzatrici veniva percepito come un potente afrodisiaco. È da questo motivo, ancora oggi associato alla danza, che dipende il termine "danza del ventre".

Danza Orientale

La danza orientale è tradizionalmente praticata dalle donne, perché esprime interamente la femminilità, la vitalità e la sensualità. La danza orientale è unica nel suo genere: esistono diversi stili, che cambiano a seconda del Paese d'origine, come la danza col velo. In generale, questa danza è caratterizzata dalla sinuosità e dalla sensualità dei movimenti: è di effetto sia con musiche ritmate che lente. Di solito è praticata da danzatrici professioniste.

La pratica della danza orientale è giunta in Europa e in America grazie ai cabaret degli anni trenta e quaranta: è da questo periodo, ma soprattutto dagli anni novanta, che questa danza è diventata famosa in tutto il mondo.

La danza orientale è particolarmente adatta al corpo femminile, perché aumenta la flessibilità e la tonicità del seno, delle spalle, delle braccia, del bacino, ma soprattutto della pancia: gli addominali sono coinvolti profondamente nei movimenti, modellando la linea e giovando agli organi interni. Tonifica le cosce, migliora l'agilità delle articolazioni e sembra ritardare l'osteoporosi, migliora la postura e rafforza il pavimento pelvico. Inoltre, la danzatrice orientale ha il diritto di essere in carne - le danzatrici formose sono le più apprezzate - e può mostrare le proprie forme, come una statua di Maillol. Quello che importa non è la rotondità ma la sensualità, la grazia e la sinuosità dei movimenti.

Le danze popolari

Nei villaggi algerini, la danzatrice professionista è CHATTAHA. Dei popoli nomadi di Oulad Nail, Qui abbiamo grande nomi El Hasnawia, Jamila Atabou, Warda Chawuiya, Saliha , Taous, Khoukha Che hanno avuto un successo notevole in Siria e soprattutto in Egitto. La maestra di Samia Gamal è stata Khoukha di origine algerina in preciso da Orano la città di Cheikha Rimiti.

La bibliografia di riferimento, si basa prevalentemente sulle opere redatte dai "visitatori" occidentali che nel secolo scorso esplorarono, avidi di sapere un mondo straordinario ed a loro quasi sconosciuto. L'opera che a mio avviso costituisce la pietra miliare sulle "riscoperte" per uno studio delle tradizioni culturali dell'Egitto è sicuramente quella dell'inglese Eduard W. Lane. In questa opera un vero spaccato di vita sociale sono riportate utilissime informazioni sulla vita quotidiana in Egitto ai primi dell'Ottocento. Relativamente alla specifica trattazione, sulle danzatrici Ghawazee, esistono però diverse interpretazioni che, messe in relazione con altri testi dello stesso periodo, creano non poca confusione. Il punto in questione è rappresentato dalla confusione che nasce dalle due contemporanee ma ben distinte figure professionali quali le Almeh e le Ghawazee. Le prime, come già ampiamente descritto nella sezione a loro dedicata "Musica, canto e danza delle Almeh d'Egitto" a differenza delle Ghawazee, come appartenenti ad una più elevata classe sociale non erano solite esibirsi in rappresentazioni pubbliche e di strada. Cosa questa invece ampiamente frequente nelle narrazioni e gli incontri spesso riportati nelle bibliografie classiche di riferimento. Le Ghawazee

Senza approfondire troppo l'argomento vista la complessità, le contraddittorie e poco certe fonti di provenienza credo sia più logico accennare solo per grandi linee alle ipotesi formulate in merito alla presenza delle Ghawazee, come di altre popolazioni nomadi sia nel bacino del Mediterraneo che in Europa. Alcune teorie formulano l'ipotesi di una grande migrazione costituita da un possibile unico ceppo etnico ma linguisticamente diverso che abbandonando le regioni dell'Asia centrale mosse su direttrici diverse. Uno in direzione della penisola Arabica, con la successiva penetrazione nel territorio Nord Africano e forse attraverso questo proseguì l'accesso in Europa attraverso la Spagna.(Il nome inglese "Gipsy" e quello Spagnolo "Gitano", hanno infatti per lungo tempo fatto pensare alla possibile provenienza degli "zingari" dal territorio Egiziano - cosa anche questa ancora da dimostrare)

Un altro flusso, spostandosi invece verso le coste dell'Anatolia, risalì i Balcani per raggiungere il cuore dell'Europa Centrale. In questo caso la presenza di Zingari detti "Cingene" in territorio Turco è databile intorno al XII secolo e le successive migrazioni verso l' Europa centrale vengono indicate intorno al 1300.

A differenza di altre popolazioni zingare quali i cingene dei quali esistono ben documentate tracce della loro presenza durante la originaria espansione dell'Impero Ottomano, in quanto oltre che ad essere presentii nella vita sociale, facevano anche parte delle regolari truppe militari impegnate contro gli eserciti Cristiani, delle citate Ghawazee si hanno invece notizie molto più tarde e documentate solo a partire dalla fine del XVII secolo. Dal periodo della spedizione Napoleonica (1798) in poi, la presenza delle "Ghawazee" diviene sempre più ricorrente ed a loro si attribuisce la più viva tradizione popolare Egiziana nel settore della Danza.

Con l'arrivo delle truppe Napoleoniche al Cairo, come gia ampiamente illustrato, l'altra categoria di Danzatrici-musiciste, le Almee, abbandonò i luoghi di origine per non esibirsi alla presenza di un pubblico invasore e principalmente maschile. Questa condizione invece non turbò affatto le Ghawazee che contrariamente alle prime e per tradizione artiste di strada, familiarizzarono con le truppe Francesi. Lo stretto contatto con le truppe militari fu anche segnato da terribili episodi che portarono al conseguente allontanamento delle troppo "disponibili" danzatrici dalla città del Cairo.

Quattrocento Ghawazee furono "giustiziate" (decapitate e gettate nel Nilo) allo scopo di dare un esempio al fine di sedare i ripetuti incidenti che si verificavano tra le truppe. Questo atto di terribile "barbarie" legittimato dai generali francesi portò gradualmente tali personaggi, ritenuti scomodi ed indecorosi, agli occhi dell'invasore occidentale, verso l'allontanamento dai grandi centri. La "sorte" delle Ghawazee, ed il loro definitivo allontanamento dalla vita e le rappresentazioni nei grandi centri urbani quali Il Cairo, venne segnata dall'allora reggente Muhammed Ali, che nel 1834 ne ordinò l'allontanamento immediato verso le campagne e le città del sud, infliggendo pene severissime a chiunque contravvenisse al divieto imposto.

Di questa particolare condizione, creatasi assai fortunosamente, a trarne gran vantaggio furono i "Kocek (danzatori uomini, che in abiti femminili interpretavano danze e ruoli destinati alle donne), banditi anche loro nello stesso periodo per motivi di ordine pubblico dalla vicina Turchia dal Sultano Mahmut II. Quando, gli esuli "Kocek" arrivarono in Egitto si integrarono con un'altra schiera di danzatori "simili" e già presenti in Egitto, conosciuti con il nome di "Khawals". La presenza dei Khawals egiziani è stata anche documentata dallo scrittore E. W. Lane nel suo già citato testo. Questi nuovi "particolari" soggetti, i Kocek, furono rapidamente accettati, in quanto assai raffinati nel vestire, dai modi gentili e padroni nell'arte della danza, si integrarono ed a volte sostituirono le danzatrici Ghawazee allontanate dalle aree metropolitane. Non è poi affatto raro che in questo stesso periodo alcuni dei numerosi visitatori occidentali abbiano assistito a spettacoli di danza eseguiti da uomini credendoli delle "autentiche" danzatrici egiziane. Una analoga circostanza è anche descritta nel libro del 1929, The Woman of Cairo, dallo scrittore G. de Nerval che fu incredulo e stupefatto spettatore di uno spettacolo simile.

La condizione sociale delle Ghawazee, risulta dalle informazioni in nostro possesso, simile a quella di tutte le popolazioni "zingare", una vita prevalentemente relegata ai bordi delle società così dette più evolute. Anche in questo caso vale a dire nell'Egitto del XVIII secolo valeva la stessa regola e le Ghawazee appartenenti alla schiera delle tribù nomadi, viveva al di fuori dei grandi centri urbani in accampamenti provvisori. Distinguendosi dall'atra più "rispettabile" categoria quella delle Almee, le rappresentazioni delle Ghawazee, spontanee manifestazioni di strada, si avvalevano spesso,della collaborazione dei componenti maschile della tribù per l'accompagnamento musicale.

La discutibile "cattiva" reputazione di cui godevano tali danzatrici, malviste anche dagli esponenti religiosi, impediva loro l'accesso ai riservati Harem ed era ritenuto sconveniente, ospitare una "zingara" nella propria abitazione. Anche se in molte celebrazioni, quali matrimoni, circoncisioni ecc, veniva loro concesso di esibirsi ma quasi sempre in luoghi all'aperto. La reputazione delle Ghawazee non è di molto dissimile da quella che accomuna le Ouled Nail al pari di Danzatrici-prostitute.

La presenza iconografica di cui siamo in possesso, permette come già accennato, di porre l'attenzione anche su quelle che sono le caratteristiche sia del vestiario che della danza. In merito all'abbigliamento, anche in questo caso minuziosamente descritto da Lane e molti altri coevi autori e riccamente illustrato da grandi artisti quali Prisse e David Roberts nelle sue dettagliatissime litografie , risulta evidente la stretta somiglianza con l'abbigliamento dello stesso periodo in uso presso le Cingene Ottomane rappresentate nelle splendide miniature dell'artista Levni.

Il vestiario, prevedeva nelle sue diverse combinazioni l'uso variabile sia di un lungo che un corto abito. Quello lungo,detto "Yelek", che generalmente stretto in vita e dall'ampia scollatura era indossato lasciato aperto dalla vita sino ai piedi.Il più corto, più simile ad un coprpetto era lungo sino al giro vita e sempre dalla profonda scollatura era aderente in vita.

In quest'ultimo caso una gonna (Tob) veniva indossata in mancanza dell'abito lungo.Una aderente "camicetta" dalle ampie lunghe maniche era generalmente indossata sotto i due precedenti indumenti. Comune alle possibili varianti era sempre l'uso dell'ampio ed a volte decorato pantalone "shintyan" (harem pants). Immancabile naturalmente l'uso della fascia annodata sui fianchi, ricordo forse ancestrale degli antichi costumi rituali, emblema simbolico della dea Ishtar, le ricche decorazioni tra i capelli e la ricorrente mancanza di veli sul volto

Monili, bracciali, cavigliere e orecchini completavano insieme alle immancabili decorazioni con l'henna e l'antico e sapiente uso del khol, usato sia per il trucco che per la stessa protezione degli occhi, l'abbigliamento delle originarie danzatrici Ghawazee del Diciannovesimo secolo.

Secondo la descrizione riportata da Wendy Buonaventura nel suo libro "Il serpente e la sfinge", nell'Egitto del IX secolo, al tempo di Harun al Rashid, periodo questo considerato come l' età d'oro della musica e delle arti nel mondo Arabo, la presenza di danzatrici non aveva confronti con l'esiguo numero di cantanti. Si scelse quindi di istruire alcune di queste danzatrici anche nell'arte della musica e del canto. Il risultato fu quello di avere avuto sino alla metà del XX secolo delle superbe interpreti abili sia nella danza, nel canto e nella musica.

Il nome Almeh o Almee, al plurale Awalim, deriva dalla parola Araba "Alema" e sta a significare "una donna istruita". È proprio la ricevuta "istruzione" che rendeva questa categoria estremamente raffinata e privilegiata a cui era consentito l'ingresso agli ambiti sociali più ristretti e primo tra tutti il riservatissimo Harem.

Esiste purtroppo, in merito a questo argomento, molta confusione in quanto nelle descrizioni riportate da molti autori del XVIII e XIX secolo la figura della Almeh viene confusa con quella delle famose interpreti Ghawazee.

La grande differenza tra queste due distinte categorie di interpreti si basa sul fatto che le Ghawazee sono da considerarsi come interpreti "popolari" di bassa estrazione sociale, che si esibivano prevalentemente in spettacoli di strada, al pari degli ambulanti alla presenza di un qualsiasi pubblico "pagante".

Le Almeh, sicuramente più raffinate ed appartenenti ad una classe sociale più elevata avevano libero accesso ed erano assai gradite presso i ranghi sociali più elevati, esibendosi prevalentemente in presenza di un pubblico femminile nelle arti del canto e della danza con eleganza ed estrema raffinatezza. Altra particolarità che distingueva questa specifica categoria, era la rigida consuetudine di portare sempre, a differenza delle ghawazee, il velo nei luoghi pubblici.

Le prime notizie documentate sull'esistenza negli harem Egiziani di "donne musiciste" abili sia nella danza che nel canto si devono attribuire agli scritti del Francese Savary risalenti al 1785. Da questa data in poi, come già accennato, la limitata documentazione di cui disponiamo confonde spesso queste due differenti ma ben distinte "figure professionali".

Anche avvalendoci del supporto visivo, quello che per intenderci è stato rappresentato nelle opere degli esponenti della corrente degli orientalisti, non permette una chiara distinzione di queste due ben distinte interpreti. Due tra dipinti più noti, "The Dance of the Almeh" e "Almeh with pipe" entrambi eseguiti dal grande Jean-Leon Gerome, raffigurano tutti e due una "ipotetica" quanto forse improbabile Almeh.

Le due raffigurazioni, ovviamente simili tra loro differiscono fortemente dalle seppur esigue informazioni di cui siamo in possesso. L'abbigliamento, l'assenza del velo e la rappresentazione di fronte ad un pubblico "esclusivamente" maschile lascia pensare ad una interpretazione più vicina alle caratteristiche di una Ghawazee piuttosto che ad una Almeh. Anche il solo confronto visivo con la prima immagine "Almee ou danseuse egyptienne" mette in evidenza la netta discrepanza con un abbigliamento fondamentalmente diverso e decisamente più "castigato". La diversità di informazioni in nostro possesso è quindi molto contraddittoria e non permette una valutazione effettiva sull'argomento. Si deve forse alla originaria danza delle Almeh l' attuale Raqs Sharqi che trova nella raffinata esecuzione e nella elegante gestualità delle braccia la sua forse più possibile erede.

La figura delle Almee, rinomate nelle arti canore, musicali e della danza, ha il suo inevitabile declino intorno agli anni 30. Epoca questa di cambiamenti che contrariamente ad una propria origine culturale mirata allo straordinario connubio tra canto e danza, si sposta esclusivamente verso l'intrattenimento visivo ed esibizionistico sviluppandosi secondo direttrici prettamente occidentali che portarono a quella particolare esecuzione della danza comunemente detta stile "cabaret".

Il cinema egiziano ha reso note grandi danzatrici come Tahia Carioca, Samia Gamal, Neima Akif.

Gli stili

Per una maggior conoscenza della danza orientale, occorre classificare i numerosi stili in alcune categorie principali.

Stile danza orientale autentica con danza Hawzi Caratterizzato da movimenti eleganti, ampi e dolci, la danza viene resa fluida grazie al coinvolgimento armonico del corpo della danzatrice.

Stile Šarqī Lo stile Šarqī, inizialmente legato alla tradizione di danze ballate nelle corti islamiche, si evolve nei primi decenni del Novecento. Le interpreti dei cabaret egiziani iniziarono a ricorrere a coreografie e all'utilizzo di strumenti quali il velo, il candelabro e le scarpe col tacco, introducendo inoltre passi derivanti dal balletto classico come l'arabesque e lo chassé.

Stile Baladī

È uno stile caratterizzato dalla movenza del bacino carica di intensità. I movimenti delle braccia sono meno ampi e svolazzanti rispetto a quelli dello stile Šarqī. Si prediligono le camminate con il piede a terra e non in mezza punta come nello stile classico. Lo stile Baladī è una danza popolare cittadina che nasce dall'incontro della popolazione rurale con quella urbana.

Stile Ša'abī

La danza Ša'abī è legata alla terra, caratterizzata dalla spontaneità, semplicità e allegria. Lo stile Ša'abī è lo stile popolare egiziano. Le danze popolari comprendono repertori zingari (ġawāzī) e delle campagne (fellahī). La variante egiziana è quella interpretata con il bastone, chiamata sayydī.

Stile Danza di Iaset: La Danza del Ventre dell'Egitto Faraonico

Questo stilo è stato creato nel 1993 in Brasile dall'insegnante di ballo Regina Ferrari come una rappresentazione artistica della danza dell'Antico Egitto, con simbolismo fittizio e immaginario. Non è una danza con finalità esoterica, da essere utilizzata nei riti di magia. Questa danza è composta con i movimenti della danza del ventre arabo, mescolati con i passi del balletto classico e una interpretazione fittizie per ogni movimento. Ci sono diverse coreografie con l'uso di vari veli, fino a nove, che portano la sensazione di mistero, però non c'è nessun legame tra le coreografie create e la vera danza praticata nei riti di magia nell'Antico Egitto.

La proposta è di promuovere gioa, e il benessere delle donne, portando la bellezza e la femminilità verso questa arte.

Gli accessori

La danza orientale viene spesso accompagnata da numerosi accessori tra i quali troviamo: doppio Velo Chiamata Danza Hawzi Danza Hawzi considerata nel mondo arabo è la più raffinate delle danze orientali di tutti i tempi, origine dall Algeri

Velo

La prima ballerina ad interpretare questo tipo di danza fu Hanan El Jazairiya, che negli anni venti , conquistò il pubblico avvolgendosi nel trasparente velo per poi farlo volteggiare nell'aria.

Sagat

Sono dei cimbali, piccoli strumenti a percussione in ottone che vengono tenuti sul pollice e sul medio di entrambe le mani.

Bastone

La danza del bastone deriva dal tahtīb, un'arte marziale che si tramutò in danza maschile folcloristica. Questa danza è caratterizzata da gioiosi saltelli.

Tamburello

Alcune danzatrici accompagnano la loro danza suonando un tamburo Grande - Bandir. Soprattutto in Neili e Sidi Bel Abbas.

Candelabro

La danzatrice si esibisce tenendo in equilibrio sulla testa un candelabro con tanto di candele accese, nelle feste di matrimonio.

Spada

Due Spade La danzatrice Tuareg di Tamanrassette esegue durante la danza esercizi di equilibrio con la spada.

Karkabou

Ali di Iside Sono un'introduzione moderna, come i fan veils, si possono considerare un'evoluzione del velo.

C'è da specificare che molti degli stili sopra elencati non sono di origine medio orientale ma molti sono stati importati dall'occidente come le ali di iside e la spada.

fonte: Wikipedia

Chicco e Spillo


domenica

il disastro aereo delle Ande avvenuto nel 1972


Con l'espressione "disastro aereo delle Ande" ci si riferisce all'incidente aereo avvenuto sulla Cordigliera delle Ande il 13 ottobre 1972 e ai drammatici avvenimenti che ne conseguirono, conclusisi con il salvataggio dei sopravvissuti entro la vigilia di Natale dello stesso anno. Nell'incidente e nelle settimane seguenti persero la vita 29 persone, mentre ne sopravvissero 16.

Inizio del viaggio

Negli anni 1970 l'aeronautica militare uruguayana (Fuerza Aérea Uruguaya), per incrementare i propri introiti, affittava alcuni dei propri aeroplani ed equipaggi per operare voli charter su diverse rotte nel Sudamerica

Tra questi voli vi era anche il numero 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall'aeroporto "Carrasco" di Montevideo, in Uruguay, diretto all'aeroporto "Arturo Merino Benitez" di Santiago del Cile. A bordo si trovava l'intera squadra di rugby degli Old Christians Club del Collegio Universitario "Stella Maris" di Montevideo, che si stava recando con i rispettivi allenatori, parenti e amici a disputare un incontro al di là della Cordigliera delle Ande; ad essi si era aggiunta una persona estranea (la signora Graciela Mariani, che si doveva recare a Santiago per il matrimonio della figlia), la quale si era imbarcata sull'unico posto rimasto libero. Il volo era operato con un Fokker Fairchild FH-227D, pilotato dal copilota, tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, sotto la supervisione del comandante, colonnello Julio César Ferradas.

La nebbia fitta e le perturbazioni che interessavano le Ande in quelle ore costrinsero però l'aereo ad atterrare in serata all'aeroporto "El Plumerillo" di Mendoza, in Argentina; i passeggeri dovettero quindi pernottare nella città argentina, per concludere il viaggio il giorno successivo.

L'indomani, 13 ottobre, le condizioni meteo non erano ancora migliorate a sufficienza; in aggiunta, i regolamenti aeronautici argentini vietavano agli aerei militari stranieri di rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale, sicché i piloti si trovavano nella necessità di dover partire, col rischio di essere costretti a rientrare a Montevideo. Tuttavia, dopo essersi consultati con altri piloti provenienti dal Cile, si risolsero a partire.

La quota di tangenza del Fokker (28,000 piedi/8,540 m) non permetteva all'aereo di attraversare con margine di sicurezza le Ande (che in quel tratto raggiungono altezze superiori ai 6000 metri) direttamente ad alta quota; l'aereo doveva quindi necessariamente attraversare la catena in corrispondenza di un passo tra i monti. In quella zona, si potevano seguire due rotte: la prima, più veloce, prevedeva l'attraversamento del passo Juncal, situato in linea d'aria circa 200 km a ovest di Mendoza, per poi raggiungere San Felipe e virare a sud verso Santiago; la seconda prevedeva una lunga discesa verso sud fino a Malargue, seguita da una deviazione verso ovest per superare le Ande in corrispondenza del passo Planchón, seguita infine da una deviazione verso nord, una volta raggiunta la città di Curicó, in direzione di Santiago. Il tenente colonnello Lagurara, sebbene fosse stato rassicurato sulla praticabilità di ambo le rotte, optò per quest'ultima, più lunga ma più sicura, giacché presentava montagne di quota più bassa e la copertura del sistema di navigazione VOR (assente al Juncal).

Le prime fasi del volo si svolsero regolarmente, fino a quando l'aereo si accinse all'attraversamento del passo Planchón; dopo aver raggiunto Chilechito ed essersi immesso nella rotta Amber 26, alle 15.08 (circa due minuti in ritardo rispetto alla tabella di viaggio stilata prima del decollo) l'aereo arrivò a Malargue e virò verso ovest, in direzione del passo del Planchón, seguendo la rotta Green 17. Il Fokker viaggiava a un'altitudine di 18 000 piedi (5486 metri), dove il cielo era sgombro di nubi, mentre al disotto le montagne erano coperte, a parte alcuni picchi più alti, da un tappeto uniforme. Ciò significava che l'equipaggio poteva rendersi conto di aver oltrepassato il passo solo mediante un calcolo che tenesse conto della velocità stimata dell'aereo (in rapporto al vento) e del tempo trascorso dalla deviazione su Malargue, oltre che tramite il controllo degli strumenti di navigazione del velivolo.

Alle 15.21, 13 minuti dopo il passaggio su Malargue, Lagurara comunicò a Santiago che si trovava sul passo del Planchón, a circa 5400 metri di quota, e che secondo i suoi calcoli sarebbe arrivato su Curicó dopo 11 minuti, cioè alle 15.32. Probabilmente anche questa valutazione di Lagurara era errata: poiché il vento soffiava verso est a una velocità superiore ai 60 km/h la velocità effettiva dell'aereo era minore e probabilmente sarebbero occorsi altri tre minuti al Fokker per raggiungere il passo.

A questo punto avvenne l'errore fatale da parte del pilota: infatti, inspiegabilmente, alle 15.24 Lagurara chiamò la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere arrivato sopra Curicó, che avrebbe deviato verso nord lungo la rotta Amber 3 e poi iniziato l'avvicinamento all'aeroporto di Santiago per atterrare. Santiago autorizzò la deviazione verso nord per iniziare la discesa.

Ma erano passati solo tre minuti, invece degli undici previsti dal momento in cui Lagurara aveva comunicato (erroneamente, tra l'altro) di essere sopra il passo, cioè un tempo insufficiente non solo per raggiungere Curicó, ma anche per il completamento del tratto di rotta comprendente l'attraversamento delle montagne. Pertanto, al momento della deviazione verso nord, l'aereo si trovava all'incirca sopra il passo del Planchón: siffatta virata fece quindi infilare il velivolo dritto nel mezzo della Cordigliera.

Ipotesi sull'errore di rotta

Certamente l'errore fatale si sarebbe potuto evitare se i piloti avessero prestato una corretta attenzione ai tempi del volo. Tuttavia non è stato chiarito quanto abbia eventualmente potuto contribuire all'errore un ipotetico guasto strumentale dell'apparato di radiolocalizzazione e gestione della rotta. Di fatto, il Fokker era dotato di due apparati per la radiolocalizzazione e il tracciamento della rotta; quello normalmente in uso, e utilizzato anche durante il volo del 13 ottobre, era il moderno sistema VOR (VHF Omnidirectional Range), che ha costituito, fino all'avvento del GPS, lo standard di navigazione aerea per voli a corto e medio raggio.

I VOR operano su frequenze VHF che viaggiano solo in linea retta e non vengono influenzate dagli agenti atmosferici, permettendo quindi di calcolare molto accuratamente gli angoli. Questo però implica anche che i VOR possono operare solo a distanze inferiori ai 240 km, altrimenti perdono la loro efficacia. Le stazioni VOR sono usate come intersezioni lungo le aerovie. Una tipica aerovia è costituita da linee rette che collegano fra loro diverse stazioni VOR. Durante un volo, l'aereo viaggia quasi sempre in linea retta e ogni tanto effettua delle virate: queste virate avvengono quando nella rotta viene cambiato il VOR di riferimento. Nel volo in questione le tre aerovie erano Amber 26 e Amber 3 in direzione nord-sud, Green 17 in direzione est-ovest.

Il tipico strumento del VOR è formato da un disco a bussola (solitamente chiamato compass card) sovrastato da un ago verticale e da un indicatore cosiddetto To/From (da/a). All'esterno del disco c'è una manopola chiamata Omni Bearing Selector (OBS), che ruota il disco. Tutti gli angoli sono riferiti al nord magnetico per permettere un facile confronto tra il VOR e la bussola. Il nord magnetico differisce dal nord reale per una quantità detta variazione magnetica, la cui variazione dipende dalla posizione sul globo e può essere trovata nelle carte e negli indici aeronautici. Se il pilota vuole avvicinarsi a una stazione VOR in direzione est dovrà volare in direzione ovest per raggiungerla. Il pilota pertanto adopererà la regolazione OBS per ruotare il disco della bussola finché il disco non recherà il numero 27 (270 gradi) allineato col puntatore in cima al disco.

Quando il velivolo intercetterà la radiale a 90 gradi (direzione est della stazione VOR) l'ago sarà centrato e l'indicatore To/From mostrerà "To". Si noti che il pilota imposta il VOR per indicare il reciproco: l'aereo seguirà la radiale dei 90 gradi mentre il VOR indicherà che la rotta per la stazione VOR (indicata con "to") è 270 gradi. Il pilota pertanto dovrà solamente tenere l'ago centrato per seguire la rotta verso la stazione VOR. Se l'ago si sposta fuori centro il pilota vira solidalmente all'ago per ricentrarlo. Dopo aver sorvolato la stazione VOR l'indicatore To/From indicherà "From" e il velivolo si troverà pertanto sulla radiale di 270 gradi. L'ago generalmente oscilla da tutte le parti sorvolando le pertinenze della stazione VOR per poi tornare centrato una volta raggiunta una certa distanza dalla stazione.

È stato quindi ipotizzato che Lagurara possa essere stato indotto in errore da un possibile malfunzionamento del VOR (forse originato da alcune interferenze magnetiche dovute alle perturbazioni sulle Ande), che avrebbe erroneamente fatto scattare la scritta e segnalato il passaggio sulla verticale di Curicó. Purtroppo non si potrà mai sapere cosa sia realmente successo perché le apparecchiature del Fokker, che non erano bensì state danneggiate durante l'incidente, furono poi rimosse e rese inutilizzabili dai sopravvissuti nel tentativo di estrarre la radio di bordo per un infruttuoso tentativo di cercare soccorsi via etere.

L'incidente e i primi giorni

Come già detto, la deviazione di 90 gradi verso nord impressa all'aereo lo fece infilare nel mezzo delle Ande, in direzione delle alte cime site a nord del passo. L'aereo iniziò la manovra di discesa mentre si trovava nella zona successivamente identificata tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca); qui incontrò una immane turbolenza, che gli fece perdere improvvisamente quota di qualche centinaio di metri.
A questo punto le nuvole si erano diradate, e sia il pilota che i passeggeri si accorsero dell'errore: stavano volando a poco più di tre metri dai crinali rocciosi delle Ande. Per rimediare all'errore, Lagurara spinse al massimo i motori e cercò di prendere quota, ma ormai era troppo tardi: alle 15.31, a circa 4200 metri di altitudine, l'aereo colpì la cima di una montagna con l'ala destra, che nell'urto si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo, all'altezza della cambusa; la coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri, mentre l'elica del motore destro perforò la fusoliera.

Priva di un'ala e della coda, la fusoliera precipitò, colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l'ala sinistra e toccò infine terra di piatto su una ripida spianata nevosa, di pendenza simile alla sua traiettoria. L'aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi improvvisamente nella neve. La coda terminò invece la sua corsa più in basso lungo lo stesso pendio. Il Fokker si era fermato alla quota, successivamente verificata, di 3657 metri; tuttavia l'altimetro, sfasato dall'incidente, segnava invece un'altitudine di 2133 metri.

Ciò fu determinante nello svolgimento degli avvenimenti successivi, insieme alle informazioni date dal pilota Lagurara prima di morire a causa delle ferite riportate nello schianto: le sue ultime parole, ripetute più volte, furono infatti: «Abbiamo superato Curicò». Quindi, basandosi su queste due informazioni (posizione e quota), errate, ma convergenti, i sopravvissuti credettero di trovarsi oltre la cresta della Cordigliera, nella zona pedemontana già in Cile. Si trovavano invece a est dello spartiacque andino, ancora in Argentina, e per la precisione nel territorio municipale di Malargüe (Dipartimento di Malargüe, Provincia di Mendoza). Di qui la speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti.

Delle 45 persone a bordo, dodici morirono nell'impatto: Gaston Costemalle, Julio Ferradas (pilota), Alexis Hounié, Guido Magri, Ramon Martinez (equipaggio), Esther Nicola, Francisco Nicola (medico della squadra), Eugenia Parrado, Ovidio Ramirez (equipaggio), Daniel Shaw, Carlos Valeta, Fernando Vazquez. Alcuni furono catapultati fuori dopo il distacco della coda (Martinez, Ramirez, Costemalle, Hounié, Magri e Shaw), altri morirono per la violenza dell'impatto (Ferradas, i coniugi Nicola, Eugenia Parrado), uno per le gravi ferite (Vazquez). Uno di loro (Valeta), sbalzato dall'aereo durante la scivolata, scendendo a piedi il pendio nel tentativo di raggiungere gli altri sopravvissuti, scivolò sulla neve fresca e ruzzolò a valle. Altri cinque morirono nel corso della notte e del giorno successivo (Panchito Abal, Julio Martinez-Lamas, Felipe Maquirriain, Graciela Mariani e il co-pilota Dante Lagurara).

Alcuni sopravvissuti avevano gambe rotte e ferite di vario genere e nessuno disponeva di vestiti adatti per resistere a quelle temperature. I primi soccorsi vennero prestati da Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, studenti universitari di medicina, rispettivamente al secondo e al primo anno di corso, senza alcun materiale medico, che poterono quindi solo consigliare ai feriti di mettere gli arti fratturati nella neve, per alleviare il dolore e limitare il gonfiore, e medicare come potevano gli altri. Incredibile quanto accadde a uno degli eroi della vicenda (che avrebbe partecipato alla spedizione in ricerca di aiuto) Nando Parrado: creduto morente, venne lasciato tutta la prima notte all'addiaccio verso lo squarcio della fusoliera (il punto più freddo), per poi scoprire il giorno dopo che era ancora vivo.

Ripresosi, rimase accanto alla sorella Susana fino a quando lei non spirò, otto giorni dopo l'incidente, a causa delle gravi lesioni interne. Per sopravvivere al freddo della notte (la temperatura poteva arrivare anche a -30), i sopravvissuti alzavano ogni sera una precaria barriera di valigie per chiudere la fusoliera dell'aereo nella parte posteriore squarciata, volta verso la salita del pendio.

Le ricerche

Non appena la torre dell'aeroporto Benitez ebbe perso i contatti con il Fokker, i controllori telefonarono alla sede del Servicio Aereo de Rescate (SAR - servizio di soccorso aereo cileno), presso l'aeroporto di Los Cerrillos. Riascoltando le registrazioni delle comunicazioni con la torre di controllo di Santiago, i comandanti del SAR Carlos García e Jorge Massa ipotizzarono correttamente l'errore di rotta commesso dal pilota e delinearono come sito di ricerca un'ampia zona delle Ande, a nord del passo del Planchón, ove le vette delle montagne toccavano finanche i 5000 m. In tale area era compreso anche il punto ove l'aereo era precipitato; purtroppo, i velivoli da ricognizione dei soccorritori non fu possibile localizzare il luogo dell'incidente, a causa del fatto che la fusoliera bianca si mimetizzava nella neve; in aggiunta, le condizioni meteorologiche nella zona permanevano pessime. La morfologia del luogo rese altresì vani i tentativi di ricerca effettuati dai Carabineros cileni e dal Cuerpo de socorro andino. Passata una settimana senza risultati, i vertici del SAR si convinsero che nessuno fosse sopravvissuto allo schianto e alle bassissime temperature dell'alta montagna; in aggiunta, le ricerche mettevano a repentaglio la vita degli uomini del corpo e facevano consumare carburante costoso. Ragion per cui, il 21 ottobre seguente, le autorità interruppero le ricerche del velivolo.

Anche i familiari fecero il possibile per cercare l'aereo, in alcuni casi con metodi non proprio ortodossi: alcuni di loro si rivolsero a un rabdomante il quale, davanti a una carta delle Ande, segnalò che l'aereo era precipitato a est del vulcano Tinguiririca. Informarono di ciò Carlos Paez Vilarò (pittore, padre di Carlitos), che era andato in Cile per organizzare gruppi di ricerca per verificare le segnalazioni sull'aereo, il quale però disse che tale zona era già stata controllata dal SAR. La sua ex suocera decise però di insistere nel campo della chiaroveggenza e si rivolse all'astrologo uruguagio Boris Cristoff, domandandogli chi fosse il miglior chiaroveggente al mondo. Cristoff li indirizzò all'olandese Gerard Croiset, che tuttavia in quei mesi era degente in ospedale; i suoi collaboratori girarono la richiesta al figlio, Gerard Croiset junior (che si supponeva avesse ereditato le doti divinatorie del padre); costui, a più riprese, comunicò loro di aver "visto" l'aereo precipitato a circa 60 km dal Passo del Planchon (a nord o forse a sud), con il muso schiacciato, senza ali e percepiva vita all'interno di esso. Riferì altresì che l'incidente era stato causato dall'assenza del pilota ai comandi, e che nei pressi del relitto si trovava un cartello con la scritta pericolo ed un villaggio di case bianche in stile messicano, oltre a vari altri aneddoti, per esempio il fatto che all'aeroporto di Carrasco vi erano stati problemi con i documenti dei passeggeri.

Nei mesi seguenti, Croiset jr. cambiò più volte versione, facendo esasperare i familiari che si erano rivolti a lui, sicché essi infine troncarono i rapporti. Tuttavia, ad una verifica fattuale, molte sue asserzioni si rivelarono vere: l'aereo aveva effettivamente perso le ali e il muso schiacciato, vi furono davvero problemi con i documenti dei passeggeri all'aeroporto di Carrasco, "il pilota" (il comandante Ferradas) non era ai comandi del velivolo, che era condotto dal primo ufficiale Lagurara. Alcuni mesi dopo il ritrovamento del relitto, una spedizione partita dall'Argentina scoprì che, a poca distanza dal sito dell'incidente, si trovava il villaggio di Minas de Sominar, formato da case bianche messicane, e un cartello con la scritta pericolo.

Le ricerche di Paez, con l'aiuto di alcuni genitori, si concentrarono a sud del Planchon, dalla parte opposta rispetto a dove giaceva il Fokker. A mano a mano che passavano i giorni, i familiari cominciarono a rassegnarsi all'idea che nessuno fosse sopravvissuto e quindi poco alla volta abbandarono le ricerche, tranne Paez Vilarò, che continuò ostinatamente a cercare per oltre un mese, percorrendo sentieri in auto, a cavallo, a piedi, organizzando ricerche con piccoli aerei messi a disposizione da ricchi cileni. In Cile ormai era conosciuto come "il matto che cercava il figlio", ma anche lui dovette rinunciare alle ricerche e tornare in Uruguay.

Tra le tante piste battute da Paez vi fu anche quella che lo portò a poche decine di km da suo figlio, sulla strada che portava alle Termas del Flaco e a Los Maitenes (in quel momento irraggiungibile per la neve), proprio dove i due sopravvissuti partiti verso ovest sarebbero stati ospitati dopo il loro avventuroso viaggio. Infatti Paez contattò il possidente terriero Joaquin Gandarillas, proprietario di vasti territori nella zona intorno al vulcano Tinguiririca, il quale lo condusse nella casa del soprastante, che era cognato di Sergio Catalan (il mandriano che, circa due mesi dopo, avrebbe ritrovato due dei superstiti). Anche questo tentativo, tuttavia, fu infruttuoso.

Cibo e acqua

Nei primi giorni successivi alla sciagura, i pasti dei sopravvissuti consistevano in un sorso di vino versato in un tappo di deodorante e un assaggio di marmellata per pranzo e un quadratino di cioccolato per cena; le razioni erano rigidamente distribuite dal capitano della squadra Marcelo Perez, per far durare il più a lungo possibile il cibo disponibile. Il cibo e le bevande presenti sull'aereo erano stati acquistati dai passeggeri all'aeroporto di Mendoza, prima dell'imbarco. Constatato che masticare la neve non dissetava ma gelava la bocca, Fito Strauch ebbe l'idea di utilizzare le lamiere di alluminio recuperate dall'interno dei sedili come specchi ustori, per incanalare il calore del sole e sciogliere la neve.

Canessa e Maspons riuscirono a creare delle amache sospese nella fusoliera, utilizzando cinghie e aste metalliche non comodissime, ma di grande aiuto per i feriti agli arti inferiori, come Rafael Echavarren e Arturo Nogueira, anche se tale soluzione li riparava dagli urti involontari degli altri compagni, ma non dal freddo, che comunque entrava nella fusoliera, nonostante la barriera di valigie. I sopravvissuti si divisero in gruppi "di lavoro": Canessa Zerbino e Liliana Methol facevano parte del gruppo medico; il secondo gruppo era assegnato alla fusoliera, da tenere pulita e gestire le fodere dei cuscini utilizzate come coperte, far tenere fuori le scarpe dall'interno ecc.

Di questo gruppo facevano parte Harley, Paez, Storm e Nicolich; il terzo gruppo era dei fornitori d'acqua, che dovevano trovare neve incontaminata e trasformarla in acqua. Terminate le ultime razioni, e dopo aver appreso da una radiolina a transistor trovata a bordo dell'interruzione delle ricerche, i sopravvissuti furono costretti dalle circostanze, non senza dubbi, eccezioni e ripensamenti, a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni morti, che erano stati sepolti nella neve vicino all'aereo.

Non fu una decisione facile, né immediata: se all'inizio tale pensiero fu solo di qualcuno, a poco a poco la discussione si allargò a tutto il gruppo. Quando tutti i sopravvissuti ne parlarono apertamente, la discussione si protrasse dalla mattina fino al pomeriggio inoltrato, dibattendo tra questioni morali, religiose e laiche, fino a quando alcuni di loro riuscirono a reprimere la ripugnanza e a sormontare un tabù primitivo. A poco a poco, nelle ore successive quasi tutti accettarono di rompere tale tabù, esclusivamente per spirito di sopravvivenza.

La valanga e i giorni successivi

Altri otto dei sopravvissuti allo schianto morirono la notte del 29 ottobre, quando una valanga travolse la fusoliera nella quale dormiva il gruppo: Daniel Maspons, Juan Carlos Menendez, Gustavo Nicolich, Marcelo Perez, Enrique Platero, Carlos Roque (equipaggio), Diego Storm. Morì anche Liliana Methol, l'unica donna del gruppo rimasta e l'ultima a infrangere il tabù, solo perché col marito aveva fatto progetti per il futuro: non solo rivedere i quattro figli, ma anche averne un altro.

La fortuna assistette Roy Harley, l'unico a non essere seppellito dalla valanga, insieme a Echavarren e Nogueira, che però non poterono essere d'aiuto. Harley, infatti, si alzò in piedi non appena sentì un forte rumore all'esterno e subito dopo si trovò la neve fino alla vita; cominciò freneticamente a scavare per liberare la persona più vicina (la neve in pochi minuti si trasformò in una sottile lastra di ghiaccio), che a sua volta fece la stessa cosa non appena fuori dalla neve. Purtroppo, alcuni di loro vennero raggiunti troppo tardi. Harley fu doppiamente fortunato, perché quella sera aveva cambiato il proprio posto con Diego Storm.

Anche in questo caso Parrado rischiò di morire sepolto dalla neve fresca e fu tra gli ultimi a essere liberato, parecchi minuti dopo la valanga. Parrado trasse allora l'incrollabile convinzione di essere predestinato a rimanere in vita per portare in salvo i compagni: era sopravvissuto alla valanga e allo schianto, in quanto pochi attimi prima dell'incidente aveva cambiato il proprio posto in aereo con Abal, che voleva vedere il panorama. Si convinse maggiormente che l'unico modo di sopravvivere sarebbe stato attraversare le Ande e andare in cerca di aiuto. Tale idea gli era balenata in testa subito dopo il decesso della sorella.

I superstiti della valanga dovettero rimanere all'interno della fusoliera per ben tre giorni, perché vi era in corso una tormenta, come scoprirono quando riuscirono a fare un largo foro di uscita attraverso la cabina dei piloti, dal quale potevano verificare le condizioni esterne e soprattutto avere ossigeno. In quei tre giorni furono obbligati a rimanere all'interno della fusoliera quasi piena di neve, costretti a muoversi pochissimo, dormire quasi in piedi, a fare i bisogni fisiologici sul posto e a nutrirsi con i corpi dei compagni morti nella valanga.

Una seconda valanga colpì la fusoliera, ma essendo già coperta dalla precedente, non provocò nessun danno. Al quarto giorno la tormenta cessò e i sopravvissuti finalmente uscirono, cominciando così a "sistemare" la fusoliera, portando fuori i deceduti, togliendo la neve, cercando di ripulirla, ovviamente con dispendio di energie preziose. Impiegarono otto giorni a rendere ancora "abitabile" la fusoliera. La valanga aveva certamente rafforzato e accelerato l'idea di organizzare una spedizione che si sarebbe diretta verso il Cile: i ragazzi, infatti, erano convinti che una volta scalato la montagna a ovest della fusoliera, avrebbero visto le verdi vallate del Cile e trovato civiltà e quindi i soccorsi.

Cominciarono così a scegliere i candidati per la spedizione, eliminando le persone ritenute più deboli (es. Methol non vedeva da un occhio, già da prima dell'incidente, Eduardo Strauch era molto debole perché si nutriva pochissimo, etc.). Parrado non fu neanche candidato: era talmente risoluto che se non fosse stato scelto, se ne sarebbe andato da solo. Per alcuni altri, anche se fisicamente erano idonei, dovevano essere sicuri che la loro forza d'animo non venisse meno. Quindi organizzarono delle spedizioni esplorative nei dintorni, per poter valutare i candidati, che fecero in diversi giorni. François e Inciarte si fermarono ogni dieci passi per fumare. Turcatti e Algorta riuscirono ad arrivare all'ala, ma quest'ultimo era molto indebolito. Paez, Harley e Vizintin riuscirono a reperire vari pezzi dell'aereo, senza trovare alcunché di utile, ma il ritorno, da fare in salita, fu molto duro, e solo dopo il tramonto riuscirono a raggiungere i compagni.

Alla fine di queste prove, i componenti della spedizione furono Parrado, Canessa, Vizintin e Turcatti, ai quali vennero concessi privilegi quali mangiare di più, dormire dove, come e quanto volevano, essere esenti dai lavori quotidiani, anche se Parrado e Canessa li eseguivano, sebbene in minor misura. Inoltre, Parrado e Turcatti non abusarono mai della posizione acquisita. La spedizione sarebbe partita dopo il 15 novembre: i sopravvissuti erano convinti che dopo tale data il clima sarebbe migliorato, visto che l'estate si avvicinava ogni giorno di più.

In quei giorni, Arturo Nogueira morì: le ferite alle gambe e alle caviglie peggiorarono e il suo fisico debilitato, in quanto si nutriva pochissimo, non resse. Fu un duro colpo per i ragazzi, persuasi che chi si era salvato dallo schianto e dalla valanga fosse destinato a tornare a casa. L'itinerario di viaggio fu contrastante: dalle informazioni in loro possesso il Cile si trovava a ovest, ma la bussola dell'aereo, rimasta intatta, e la posizione del sole nel cielo indicavano che la valle dove si trovavano era orientata a est, così la loro ipotesi fu che la valle incurvasse intorno alle montagne verso nord-est e poi si orientasse verso ovest, mentre invece, trovandosi essi dal lato argentino delle Ande, la valle era giustamente orientata verso lo spartiacque atlantico. Quindi decisero di andare verso est.

Il 15 la spedizione fu pronta a partire: Parrado portò con sé una scarpetta rossa da bimbo, lasciando l'altra nella fusoliera con la promessa di ritornare a prenderla (le scarpette erano state acquistate dalla madre a Mendoza per il nipotino, figlio di Graciela, sorella di Parrado). La spedizione durò solo tre ore, a causa di una forte nevicata che aumentò di intensità, costringendo la spedizione a tornare indietro. Dovettero aspettare due giorni e nel frattempo, la salute di Turcatti peggiorò: qualcuno, inavvertitamente, gli aveva calpestato una gamba prima della partenza, lasciando un livido. Il livido si infettò e nonostante Canessa incidesse i foruncoli pieni di pus, Turcatti rimase con una gamba dolorante e zoppicante. Non poté più partecipare alla spedizione.

Il 17 novembre Canessa, Parrado e Vizintin ripartirono e i ragazzi rimasti nella fusoliera fecero scommesse e previsioni su quanto tempo avrebbero impiegato a raggiungere la civiltà e quindi la salvezza di tutti loro. Dopo circa due ore di cammino, i tre ragazzi raggiunsero casualmente la coda dell'aereo (che essi avevano sempre pensato trovarsi lungo la rotta dell'incidente) e per loro fu come trovare un tesoro: abiti puliti e un poco di cibo (zucchero, cioccolatini, pasticci di carne, rum, coca-cola). Quella notte, dormirono all'interno di essa. Il giorno dopo ripartirono dirigendosi sempre verso est. Ma in montagna le distanze sono ingannevoli e nel pomeriggio la piega della valle che essi avevano valutato verso ovest sembrava sempre più lontana; inoltre, Canessa aveva la sensazione che si stavano addentrando sempre più tra le montagne.

La seconda notte la dovettero trascorrere all'aperto, scavando una buca nella neve, con temperature sempre più gelide col trascorrere delle ore, con il cielo sereno e mancanza di vento, coprendosi con le coperte che si erano portati e scaldandosi a vicenda, dormendo a malapena. Sapendo che un'altra notte come quella non l'avrebbero superata, soprattutto se il tempo si fosse guastato, decisero di tornare alla coda, recuperare le batterie che avevano trovato e portarle alla fusoliera, in quanto il meccanico Roque (poi morto durante la valanga) nei primi giorni aveva detto loro che con esse si poteva far funzionare la radio. Non riuscirono a portare le pesanti batterie alla fusoliera, visto che il ritorno era tutto in salita, per cui decisero di fare l'opposto: ritornare alla fusoliera, smontare la radio e portarla alla coda. Nella valigia che usarono come slitta misero vestiti, sigarette, medicinali da portare ai compagni.

Durante la spedizione, nella fusoliera il morale era alto, perché pensavano che la salvezza fosse molto vicina. Inoltre, erano contenti di avere più spazio per dormire e soprattutto non avevano contatti con Canessa e Vizintin, in quel periodo irritanti e prepotenti. L'atmosfera allegra, però, scomparve, in quanto Rafael Echavarren spirò, a causa della gangrena alle gambe e della forte denutrizione. Inoltre, il giorno dopo, la spedizione tornò e Canessa, Parrado e Vizintin raccontarono la loro avventura, dell'impressione che la direzione fosse sbagliata, delle batterie e del materiale che avevano trovato nella coda. Il 23 novembre Canessa e Parrado si accinsero a togliere la radio dalla cabina di pilotaggio, convinti che con l'aiuto di Harley avrebbero potuto farla funzionare. Harley era considerato l'esperto, perché aveva aiutato un amico ad assemblare un impianto stereo, ma lui era convinto che non sarebbe mai riuscito a farla funzionare; anche Algorta lo pensava, anche se non disse niente, mentre Canessa e altri, invece, erano certi che Harley sarebbe riuscito a farla funzionare.

Una volta estratta la radio e l'antenna e nonostante i tentennamenti di Harley e di Canessa (molto titubante a riprendere a camminare nella neve), la spedizione ripartì alla volta della coda. La ripartenza della spedizione portò ancora una ventata di buon umore, per gli stessi motivi della precedente partenza. Non poterono però rimanere passivi in attesa degli eventi: il cibo cominciava a scarseggiare. Ossia, il problema non era avere le provviste, ma trovarle: le persone decedute nello schianto erano state seppellite da uno spesso strato di neve in seguito alle due valanghe, e rimanevano una o due vittime della valanga a disposizione. Inoltre, il disgelo era realmente iniziato, per cui i cadaveri in superficie, appena coperti da un lieve strato di neve, comiciarono a imputridire, soprattutto nelle ore più calde della giornata.

I quattro ragazzi, una volta arrivati alla coda, passarono la giornata a riposare e a frugare nelle valigie che il disgelo a poco a poco riportò alla luce e che nel giro precedente non videro. In una valigia Parrado trovò una macchina fotografica, che sarà usata per le fotografie che hanno immortalato i drammatici momenti vissuti. Dopo tre giorni di lavoro intorno alla radio, Parrado e Vizintin dovettero tornare alla fusoliera, perché il cibo che avevano portato con sé non era sufficiente. Una volta alla fusoliera dovettero cercare loro di disseppellire un cadavere, perché gli altri stavano diventando sempre più deboli. Dopo due giorni tornarono alla coda, dove constatarono che Canessa e Harley erano riusciti a fare i collegamenti tra radio e batterie e radio e antenna, ma non captarono nessun segnale.

Pensando che l'antenna fosse difettosa, ne crearono una artigianale. Quando collegarono tale antenna a una radio a transistor che avevano con loro riuscirono a captare alcune stazioni del Cile, dell'Argentina e dell'Uruguay. Ma quando provarono a collegarla alla radio del Fokker, non captarono nulla. Nel ricollegarla alla radiolina a transistor, udirono anche un notiziario che comunicava che un Douglas C-47 avrebbe ripreso le ricerche del Fokker (erano le ricerche personali di Carlitos Paez e di alcuni genitori). Harley e Canessa erano felicissimi, Vizintin non ebbe particolari reazioni, Parrado disse che anche se le ricerche erano riprese non era certo che li avrebbero trovati. Rimase sempre dell'idea che se la radio non avesse funzionato, sarebbe partito per l'ovest, direzione Cile. Vizintin staccò il materiale intorno a quello che era stato l'impianto di riscaldamento del Fokker; era un materiale leggero che tratteneva il calore e pensò di farne una specie di sacco a pelo, che sarebbe servito per le notti che avrebbero eventualmente dovuto affrontare.

Dopo otto giorni passati nella coda, visti gli inutili tentativi, decisero di tornare alla fusoliera, anche perché il disgelo stava creando dei problemi di stabilità della coda. Harley diede sfogo a tutta la sua frustrazione prendendo a calci e facendo a pezzi la radio che avevano così faticosamente costruito. Il percorso per tornare alla fusoliera era tutto in salita e Harley, molto demoralizzato e fisicamente più debole (non aveva ricevuto lo stesso trattamento degli altri), fece sempre più fatica al punto tale da volersi fermare e lasciarsi andare. Fu Parrado che non lo abbandonò, incitandolo, esortandolo, insultandolo e sorreggendolo con molta fatica, riuscendo a portarlo fino alla fusoliera.

C'è da dire che comunque i ragazzi non avrebbero avuto alcuna possibilità di far funzionare la radio perché questa non era compatibile con la tensione delle batterie. Infatti i giovani non sapevano (e non potevano sapere) che la radio dell'aereo non poteva essere alimentata con la corrente continua a 24 volt delle batterie, ma richiedeva un sistema di alimentazione a due stadi più complesso, basato sull'uso di alternatori azionati dal movimento dei motori dell'aereo, a una tensione alternata di 115 volt; le batterie servivano solo per la fase di avviamento dell'aereo e per l'alimentazione elettrica a motori spenti.

Parte la spedizione decisiva per raggiungere il Cile a piedi

Canessa rimase colpito dallo spettacolo che si presentò al ritorno: i suoi compagni emaciati, deboli, stanchi e sfiduciati. Il caldo dell'estate in arrivo li portava a passare la parte centrale della giornata all'interno della fusoliera e i compiti attribuiti erano svolti sempre più con lentezza, non solo per i fisici debilitati. Addirittura, Canessa notò il "disordine" che ormai regnava all'esterno della fusoliera. Inoltre, la frustrazione e la tensione continuavano ad aumentare: i battibecchi erano quotidiani ma non si protraevano a lungo, perché solo l'unità del gruppo avrebbe dato loro la possibilità di salvarsi. Anche i rosari recitati tutte le sere non per tutti avevano ancora lo stesso significato: se all'inizio del disastro era un modo per chiedere l'intercessione divina per la salvezza, per alcuni di loro era diventato un modo per prendere sonno, per altri un modo per passare il tempo, anche se per la maggioranza il rosario rimase un gesto religioso cui non potevano rinunciare.

Ciò nonostante, Canessa fu molto titubante a riprendere il discorso della spedizione, sperando che il C-47 li trovasse. Gli altri, però, furono irremovibili, anche perché convinti che dopo tanti giorni, le ricerche erano orientate al ritrovamento di corpi, non di persone vive. Cominciarono così a cucire il sacco a pelo (con il materiale portato da Vizintin dalla coda) che li avrebbe protetti durante le notti. Tuttavia, una volta terminato il sacco, Canessa continuò a prendere tempo: la situazione era drammatica, ma la fusoliera era una "certezza" rispetto all'incognita della spedizione. Continuò a trovare scuse puerili, tanto che Fito Strauch ne parlò con Parrado, dicendo di essere disposto a partire lui al posto di Canessa.

La situazione si sbloccò il 10 dicembre, quanto Turcatti morì: l'infezione alla gamba peggiorò ed era terribilmente debilitato, perché una volta rinunciato alla spedizione si nutrì pochissimo e si erano formate piaghe da decubito. Decisero così di preparare la spedizione finale e, la sera prima della partenza, Parrado disse ai cugini Strauch di utilizzare anche i corpi della madre e della sorella, se fossero rimasti senza viveri. La speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti si fondava sulle indicazioni errate dell'altimetro e del pilota Lagurara.

Ritenendo di trovarsi in Cile, nella zona pedemontana oltre le cime delle Ande, credevano che il ripido pendio visibile verso ovest fosse l'ultima salita oltre la quale si trovavano le pianure del Cile. Era invece il fianco est di uno dei monti dello spartiacque tra Cile e Argentina; ciò significava che oltre quel pendio c'erano in realtà ancora montagne e montagne. Se i sopravvissuti lo avessero saputo, credibilmente avrebbero cercato la salvezza camminando in direzione est, verso le valli dell'Argentina; il cammino in quella direzione sarebbe stato tutto in discesa e molto meno ripido. Inoltre, e anche questo i sopravvissuti non potevano saperlo, a meno di 10 km a est dal luogo del disastro si trovava l'hotel rifugio estivo Termas; pur essendo chiuso in quel periodo, conteneva viveri e legna da ardere.

Così, il 12 dicembre 1972, circa due mesi dopo il disastro, Parrado, Canessa e Vizintín diedero il via alla nuova spedizione per raggiungere il Cile a piedi. Per l'occasione, era stato appositamente cucito uno speciale "sacco", ricavato dal materiale isolante della coda dell'aereo, per ripararsi dal freddo notturno. Impiegarono quasi tre giorni (invece di uno solo previsto) per raggiungere la cima del pendio (ad un'altitudine di 4600 m, paragonabile a quella del Monte Rosa). Il primo ad arrivare fu Parrado, seguito da Canessa: si accorsero allora che la realtà era diversa da quella che avevano immaginato: al di sotto della vetta si stendeva una sterminata selva di picchi montuosi coperti di neve. Resisi conto che la distanza da percorrere sarebbe stata molto superiore a quanto preventivato, Canessa e Parrado decisero quindi che Vizintín sarebbe tornato all'aereo, perché i viveri che si erano portati appresso sarebbero bastati solo per due persone.

Il viaggio di Parrado e Canessa

Fernando Parrado e Roberto Canessa a Los Maitenes vicino al mandriano Sergio Catalán che incontrarono dopo dieci giorni di camminata.
Dopo la separazione da Vizintin, Parrado e Canessa camminarono per altri sette giorni. Dalla prima cresta era sembrato loro di vedere in lontananza, a più di dieci chilometri di distanza, una valle tra le montagne; si diressero quindi in quella direzione sperando di trovare il corso di un fiume che li avrebbe condotti più in fretta verso zone abitate. Riuscirono effettivamente a scendere, con enorme difficoltà, nella valle scavata tra le montagne dal Rio Azufre; percorsero l'ultimo tratto verso il fiume lasciandosi scivolare a mo' di slitta. Raggiunto il corso d'acqua, Parrado e Canessa ne seguirono per alcuni giorni la riva sinistra, prima nella neve e poi, man mano che scendevano di quota, tra le rocce.

Incontrarono i primi segni di presenza umana: i resti di una scatoletta di latta e poi, finalmente, alcune mucche al pascolo. Pur sapendo di essere ormai vicini alla salvezza, si fermarono, esausti e con Canessa che ormai non sembrava più in grado di proseguire. Quella sera, mentre riposavano sulla riva del fiume, a Parrado sembrò di scorgere in lontananza, al di là del Rio Azufre ingrossato dallo scioglimento delle nevi, un uomo a cavallo. Urlarono per richiamarne l'attenzione, ma l'uomo si allontanò dopo aver gridato qualcosa che non riuscirono a comprendere. Tuttavia, il giorno dopo videro tre uomini a cavallo che li guardavano sorpresi dall'altra parte del fiume; i due giovani tentarono di urlare chi erano e da dove arrivavano ma, a causa del rumore dell'acqua del torrente, non riuscirono a farsi capire. Allora uno dei tre uomini, il mandriano Sergio Catalán, scrisse su un foglio di carta:

(ES)
« Va a venir luego un hombre a verlos. ¿Que es lo que desean? »

(IT)

« Più tardi arriverà un uomo a incontrarvi. Cosa desiderate? »

(Sergio Catalán)

Il mandriano arrotolò il biglietto attorno a un sasso e lo lanciò dall'altra parte del fiume.

Parrado a sua volta vi scrisse con un rossetto da labbra il seguente messaggio:

(ES)

« Vengo de un avión que cayó en las montañas. Soy uruguayo. Hace 10 días que estamos caminando. Tengo un amigo herido arriba. En el avión quedan 14 personas heridas. Tenemos que salir rápido de aquí y no sabemos como. No tenemos comida. Estamos débiles. ¿Cuándo nos van a buscar arriba?. Por favor, no podemos ni caminar. ¿Dónde estamos?. »

(IT)

« Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo? »

(Fernando Parrado)

Parrado aggiunse inoltre sul retro del foglio un'ultima nota: ¿Cuando viene?, (Quando arriva?). Scritto il biglietto, Parrado lo riarrotolò intorno a un sasso e lo lanciò a Catalán. Raccolto il sasso e letto il biglietto l'uomo sobbalzò e fece il gesto di aver capito e che avrebbe cercato aiuto. Prima di lasciarli, il mandriano lanciò loro alcune pagnotte che aveva con sé, che Parrado e Canessa divorarono immediatamente. Catalán si diresse allora a cavallo verso ovest per raggiungere il posto di polizia (tenuto dai Carabineros cileni) del paese di Puente Negro. Poco dopo notò sul lato sud del fiume un altro dei mandriani che, come lui, tenevano il bestiame al pascolo in una malga nella località di Los Maitenes. Catalán lo informò della situazione e gli chiese di raggiungere Parrado e Canessa e di portarli a Los Maitenes, mentre lui sarebbe andato a Puente Negro.

Mentre finalmente Parrado e Canessa venivano soccorsi e portati nella malga di Los Maitenes, dove furono curati e nutriti, Catalán percorse il Rio Azufre fino alla confluenza con il Rio Tinguiririca; attraversato un ponte sul fiume, si trovò sulla strada che collegava San Fernando e Puente Negro alla località di villeggiatura delle Termas del Flaco; si fece dare un passaggio da un autocarro fino a Puente Negro dove avvertì i carabineros, che a loro volta avvertirono il Colonnello Morel, comandante del reggimento di truppe da montagna Colchagua (che era il nome della provincia) di stanza a San Fernando.

Il salvataggio

Il 23 dicembre, il colonnello Morel avvertì le autorità che esistevano dei superstiti al disastro del 13 ottobre; lo stesso giorno partì da Santiago una spedizione di soccorso con due elicotteri Bell UH-1 Iroquois. Dopo aver fatto tappa a San Fernando, i soccorritori si diressero verso Los Maitenes, nelle cui vicinanze incontrarono gli uomini a cavallo che portavano Parrado e Canessa verso San Fernando. Parrado decise di salire sull'elicottero per dirigere i soccorsi fino alla carcassa dell'aereo e portare in salvo i suoi compagni. Era già pomeriggio e le condizioni atmosferiche proibitive perché proprio in quelle ore del giorno i venti nelle Ande soffiano con maggiore violenza, e fu solo grazie alla maestria dei piloti (tra cui il comandante Massa, pilota del presidente cileno Salvador Allende) che i due elicotteri resistettero alle forti raffiche e alle micidiali correnti ascensionali.

Il problema, una volta arrivati sul luogo del disastro, era come caricare i superstiti: la ripidità del pendio non consentiva l'atterraggio, i due elicotteri dovettero attendere in volo stazionario orizzontale e rasenti al suolo per il tempo necessario affinché una parte dei superstiti potesse salire a bordo. Non fu possibile portare in salvo tutti i sedici sopravvissuti; alcuni alpinisti e un infermiere rimasero sul posto fino alla mattina seguente, quando vennero tutti raccolti da una seconda spedizione di soccorso. Gli alpinisti, oltre ai mandriani di Los Maitenes, furono i primi a conoscere dalla bocca dei superstiti come erano riusciti a sopravvivere.

Vennero tutti ricoverati in ospedale con sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione, ma si trovavano comunque in condizioni di salute migliori di quanto si sarebbe potuto prevedere, nonostante alcuni avessero perso fino a 40 kg. I sopravvissuti sono ritornati più volte sul luogo della loro disavventura, che è diventato meta di escursioni (con partenza dall'Argentina) da parte di curiosi, affascinati da un'avventura che ha pochi precedenti. In una di queste escursioni, nel 2005, venne ritrovato un sacco contenente gli effetti personali e persino il passaporto di uno dei sopravvissuti.

« L'involontario protagonista di questa storia è uno scalatore americano che la scorsa settimana ha partecipato a una spedizione sui luoghi dove è stato girato il film «Alive» con un'agenzia che si occupa di queste particolari escursioni. Camminando in compagnia di altri scalatori, a circa 4500 metri di altezza, ha notato un sacco azzurro. All'interno un maglione, alcuni rullini fotografici, un portafoglio con 13 dollari e mille pesos uruguayani, un passaporto, una patente, un libretto sanitario e un voucher «per ritirare il bagaglio a destinazione». Il nome sui documenti è quello di Eduardo José Strauch Uriaste, uno dei sopravvissuti della tragedia avvenuta nel 1972 narrata nel film «Alive», in cui i sopravvissuti allo schianto aereo si cibarono di alcuni dei propri compagni per non morire. »

Lista passeggeri

Sopravvissuti

José Pedro Algorta, 21 anni
Roberto Canessa, 19 anni
Alfredo "Pancho" Delgado, 24 anni
Daniel Fernandez, 26 anni
Roberto "Bobby" François, 20 anni
Roy Harley, 20 anni
 
José Luis "Coche" Inciarte, 24 anni
Alvaro Mangino, 19 anni
Javier Methol, 38 anni
Carlos "Carlitos" Páez, 18 anni
Fernando Parrado, 22 anni
Ramon "Moncho" Sabella, 21 anni
 
Adolfo "Fito" Strauch, 24 anni
Eduardo Strauch, 25 anni
Antonio "Tintin" Vizintin, 19 anni
Gustavo Zerbino, 19 anni

Morti

Tra parentesi le cause del decesso

Francisco "Panchito" Abal, 21 anni (postumi dell'incidente)
Gastón Costemalle, 23 anni (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Rafael Echavarren, 22 anni (postumi dell'incidente)
Colonnello Julio César Ferradás, 39 anni, comandante dell'aereo (sul colpo)
José Guido Magri, 23 anni (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Alexis "Alejo" Hounié, 20 anni (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Tenente Colonnello Dante Héctor Lagurara, 41 anni, copilota (postumi dell'incidente)
Felipe Maquirriain, 22 anni (postumi dell'incidente)
Graciela Mariani, 43 anni (postumi dell'incidente)
Julio Martínez Lamas, 24 anni (postumi dell'incidente)
 
Tenente Ramón Martínez, 30 anni, ufficiale di rotta (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Daniel Maspons, 20 anni (valanga)
Juan Carlos Menéndez, 22 anni (valanga)
Liliana Methol, 34 anni (valanga)
Esther Nicola, 40 anni (sul colpo)
Francisco Nicola, 40 anni (sul colpo)
Gustavo "Coco" Nicolich, 20 anni (valanga)
Arturo Nogueira, 21 anni (postumi dell'incidente)
Eugenia Parrado, 50 anni (sul colpo)
Susanna Parrado, 20 anni (postumi dell'incidente)
 
Marcelo Pérez (il capitano della squadra di rugby), 25 anni (valanga)
Enrique Platero, 22 anni (valanga)
Sergente Ovidio Ramírez, 26 anni, assistente di volo (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Sergente Carlos Roque, 24 anni, meccanico di bordo (valanga)
Daniel Shaw, 24 anni (risucchiato fuori dall'aereo nella caduta)
Diego Storm, 20 anni (valanga)
Numa Turcatti, 24 anni (denutrizione)
Carlos Valeta, 18 anni (caduto dal fianco della montagna)
Fernando Vásquez, 20 anni (emorragia dalla gamba)

Film

Alive - Sopravvissuti (Alive), regia di Frank Marshall (1993)[6]
I sopravvissuti delle Ande (Supervivientes de los Andes), regia di René Cardona (1976)[7]
Yeti (Yeti: Course of the Snow Demon), regia di Paul Ziller (2008), ispirato all'evento, ma trasformato in una versione fantastica aggiungendo lo Yeti e ambientandolo sulla catena dell'Himalaya.

Trasmissioni TV

Il 30 marzo 2008 è stato ospite al programma "Il senso della vita" di Paolo Bonolis uno dei 16 sopravvissuti al disastro, Roberto Canessa, raccontando quei drammatici 73 giorni di sofferenza, speranza e angoscia che i sopravvissuti passarono prima che lo stesso Canessa e Nando Parrado attraversassero le Ande per raggiungere la salvezza in territorio cileno.

Bibliografia

Clay Blair Jr, Sopravvivere! L'incredibile storia di sedici giovani rimasti isolati sulle Ande per settanta giorni, Sugar Editore, 1973
Piers Paul Read, Tabù, Sperling & Kupfer, 1974, ristampa 2006
Fernando Parrado e Rause Vince, Settantadue giorni. La vera storia dei sopravvissuti delle Ande e la mia lotta per tornare, Piemme, 2006

fonte: Wikipedia