martedì

il delitto di Sarzana e il risarcimento di Mussolini


4 gennaio 1937. È sera. Nel Collegio delle Missioni di Sarzana, in provincia della Spezia, il silenzio si aggira indisturbato per i bui corridoi. Tutti gli studenti sono nelle loro camere, qualcuno studia, qualcuno chiacchiera, qualcuno fuma di nascosto dai sorveglianti una sigaretta, in attesa della cena.
Sono le 18.18 quando 4 colpi di pistola squarciano improvvisi il silenzio. Due studenti che sono nel corridoio, per andare da un’ala all’altra dell’edificio, sentono i colpi, si guardano stupiti, si interrogano, accorrono all’ufficio di don Umberto Bernardelli, rettore del collegio per capire cosa sia successo. È da lì che gli spari sembrano arrivare. Mentre stanno arrivando in prossimità della stanza, un uomo, dal volto coperto con una sciarpa e con un grosso cappello sulla testa, li vede e non esista a sparare anche contro di loro. Uno cade a terra, ferito gravemente a un fianco. È Leonardo Bassano. L’altro, Alfredo Collini, rimane incolume. La fuga dell’uomo continua, mentre nei corrodi si diffonde il panico. Arrivato alla portineria incontra don Andrea Bruno, coadiutore del collegio. Lo sconosciuto incappucciato, nuovamente senza esitazione, esplode due colpi in direzione dell’uomo, che cade a terra ferito a morte. Fugge indisturbato con un bottino di L. 15.500, mentre urla e voci concitate sostituiscono il silenzio di pochi minuti prima.
Arrivano i soccorritori. Il rettore giace nel suo ufficio, riverso sulla scrivania senza vita. C’è sangue dappertutto. Lo studente ferito è subito soccorso, così come don Andrea, che ancora vivo, sostiene di aver riconosciuto il criminale ma di non ricordarne il nome. Durante il trasporto in ospedale perde conoscenza e dopo pochi minuti muore.


Cominciano le indagini, la stessa sera. Chi può essere entrato senza destare sospetti all’interno del collegio? A chi si riferiva don Andrea in punto di morte?
Nel frattempo a Sarzana si parla del delitto. Ognuno dice la sua. Al bar, per strada, in piazza davanti alla chiesa all’orecchio del vicino perché “spettegolare non sta bene, non si fa”, riuniti davanti al fuoco, a cena. Si parla molto e fra le tante cose dette, una su tutta risulta molto interessante per gli investigatori.
Sembra che il gentile ed irreprensibile don Bernardelli, il rettore, in realtà avesse una doppia vita. Se ci pensiamo, nulla di eccezionale per la cronaca di oggi, ma per quel tempo sicuramente un modus vivendi scandaloso. L’uomo tutto d’un pezzo di giorno, di sera non disdegna la compagnia femminile. Una donna per alcuni, per altri molte, con altrettanti mariti gelosi.
Ma le voci si sa, spesso non portano a nulla. La sola cosa che con certezza si può dire su quell’uomo, è che ha contribuito a rendere grande il collegio, triplicando il numero degli iscritti in pochi anni. Ecco allora che gli inquirenti decidono di far partire le indagini dalle ultime ore di vita del rettore. Scoprono che le ha passate in compagnia di due persone, don Andolfatto, parroco di Castelnuovo Piano, e Vincenzo Montepagani.
Vincenzo è uno studente di ingegneria di 24 anni, non molto capace, che cerca di guadagnare qualche soldo per poter convolare a nozze con la sua fidanzata. Il rettore, mosso forse da buone intenzioni, decide di assumerlo per fare ripetizioni pomeridiane di matematica agli studenti del collegio. Ma il ragazzo ha bisogno di aiuto, così chiede ad una professoressa sua amica per preparare le lezioni insieme a lui. Don Umberto lo scopre e rimprovera aspramente il giovane, più di una volta, e tra i due si crea una situazione di tensione.


Inoltre Vincenzo è altro e robusto come l’uomo che è stato visto sulla scena del crimine. La pista sembra portare a lui. Si difende, giura di non c’entrare nulla con i delitti, che la sera del duplice omicidio, dopo essere uscito dall’ufficio del rettore, è andato a casa per restarci, ma non ha testimoni che possano confermare le sue parole. Tre settimane dopo i tragici fatti, gli investigatori lo accusano ufficialmente di duplice omicidio.
Caso risolto?
Vincenzo Montepagani finisce alla sbarra degli imputati. Il processo inizia 18 mesi dopo il suo arresto. Spuntano dei testimoni a suo favore e grazie all’intervento dell’avvocato difensore Tamburi di Sarzana, il giovane viene assolto per “non aver commesso il fatto”. Interviene direttamente Benito Mussolini che decide di risarcirlo per il carcere scontato con un assegno di L. 25.000 e per mettere a tacere le voci che insistenti accusano gli investigatori di negligenza e inesperienza.
Ricominciano le indagini.
Tutto è rimesso in discussione quando a Ghiaia di Falcinello, vicino a Sarzana, il 2 agosto 1938, all’alba, sono ritrovati due cadaveri. Sono Livio Delfini, 20 anni di professione barbiere, e Bruno Veneziani, 35 anni di professione taxista. I due uomini sono ritrovati morti accanto al taxi del Veneziani, crivellati di colpi da due rivoltelle diverse, un calibro 9 e una 6.5. Ad occuparsi del caso è il commissario Paolo Cozzi, che segue la pista politico sovversiva, su consiglio del Duce, desideroso di chiudere il caso al più presto. Il Cozzi obbedisce, ma segue anche un’altra pista, una sua idea personale che mette in relazione questo duplice omicidio con quello dei sacerdoti del collegio di Sarzana di 2 anni prima. Secondo lui si tratta dell’operato di un killer isolato.
Le indagini continuano, per mesi, ma non portano risultati concreti fino al 29 dicembre 1939, quando viene chiamato all’Ufficio del Registro di Sarzana dal direttore, che all’apertura quella mattina ha trovato il custode, Giuseppe Bernardini, con un’ascia piantata in mezzo alla fronte. Il commissario accorre e nota alcune cose insolite. L’impugnatura dell’ascia è appiccicosa, come se chi l’avesse afferrata non si fosse reso conto di avere le mani sporche, inoltre la cassaforte è aperta, vuota ma non scassinata. Il direttore, Guido Vizzardelli è sconvolto, anche perché è l’unico ad avere la chiave per aprirla.


Come mai? Il direttore è un uomo giusto, retto onesto, non è di Sarzana, ma tutti lo conoscono, lo apprezzano. Non si può sospettare di un uomo così. Il commissario si fa consegnare le chiavi della cassaforte e con grande sorpresasi accorge che sono appiccicose, proprio come il manico dell’ascia usata per il delitto. Come mai?
I sospetti nascono spontaneamente. Cozzi da ordine ai suoi uomini di perquisire l’abitazione del Vizzardelli. Le stanze sono controllate scrupolosamente, ma nulla. Finalmente in cantina un indizio. Su uno scaffale ci sono delle bottiglie vuote, appiccicose. Il proprietario di casa si giustifica dicendo che sono del figlio, che per passatempo distilla liquore. Partono le indagini. Il commissario investiga sul giovane Vizzardelli e scopre cose molto interessanti. Innanzi tutto frequenta l’avviamento commerciale proprio al Collegio delle Missioni. Coincidenza? Inoltre, nel 1936, preso dalla foga giovanile, ha danneggiato proprio all’interno della scuola un ritratto del Re e uno di Benito Mussolini. Azione riprovevole prontamente punita da don Bernardelli. Che fosse nata dell’acredine fra i due?
Il ragazzo viene convocato per un interrogatorio. Nato a Francavilla nel 1922, Giorgio William Vizzardelli, risiede a Sarzana. Lo interrogano per poche ore e finalmente confessa. Ha ucciso don Bernardelli, per vendetta, non sopportava quel rimprovero. Durante la fuga ha pensato solo a mettersi in salvo, ha sparato senza riflettere, senza paura delle conseguenze o di lasciare a terra altre vittime. E Livio Delfini? Casualmente l’uomo ha saputo della sua colpevolezza e lo ha ricattato. Con una scusa il giovane assassino gli dà appuntamento fuori citta, dove lo uccide insieme al taxista, testimone casuale, che lo ha accompagnato.
La sua mente folle, ottenebrata da sogni grandiosi e irrealizzabili, lo spinge a rubare le chiavi della cassaforte del padre, per prendere i soldi contenuti che gli sarebbero serviti per fuggire negli Stati Uniti.
Inizia un nuovo processo. Giorgio William Vizzardelli, nel gennaio 1941 è condannato al carcere a vita. La sua giovane età lo risparmia dalla pena di morte, con grande disappunto del Duce che avrebbe voluto una punizione esemplare. La famiglia sconvolta dagli avvenimenti, si trasferisce. Resterà in custodia per 27 anni, fino al 1968 quando l’allora presidente della repubblica Saragat, gli concederà la grazia.
L’uomo che esce dalla prigione non ha più i sogni della gioventù, non riconosce quell’Italia che nel frattempo è tanto cambiata. Andrà a vivere dalla sorella a Carrara, dove nell’estate del 1973, incapace di ritornare alla vita di tutti i giorni, si toglierà la vita.

Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia




Annali della Casa della Missione di Sarzana 

L. delle Pere - La Casa della Missione di Sarzana e il Convitto dei Chierici 

L. Chierotti - Il delitto di Sarzana 26 anni dopo 

"Vita Cristiana” – Bollettino per le famiglie - Dicembre 1933


ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

giovedì

la strage del treno 8017, un disastro ferroviario dimenticato


Alle tre del mattino del 3 marzo 1944 un telegrafista di turno a Potenza trascrisse un messaggio: Tren0 8017 fermo in linea tra Balvano e Bella-Muro per insufficienza forza trazione, attende soccorso.
Sono le prime scarne informazioni di quello che diventerà il più grande disastro ferroviario della storia italiana. Una sciagura che pochi ricordano, accerchiata e vinta dalle notizie riguardanti gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale.
Ricostruiamo i fatti per comprendere cosa sia accaduto al treno 8017.
Il 2 marzo, nel pomeriggio, il treno merci 8017, creato per caricare legname da utilizzare nella ricostruzione dei ponti distrutti dal secondo conflitto mondiale, partì da Napoli con destinazione Potenza. Il treno era molto lungo, motivo per cui fu dotato di una locomotiva elettrica del gruppo E.626 che fu sostituita, a Salerno, da due locomotive a vapore poste in testa al treno. Le due locomotive a vapore furono necessarie per percorrere il tratto dopo Battipaglia, che all'epoca dei fatti non era elettrificato. Il treno giunse a Battipaglia poco dopo le sei del pomeriggio. La linea che conduceva i treni da Napoli a Potenza era utilizzata dai campani per giungere in Basilicata, in fuga dalla fame. Erano i mesi insanguinati dalla battaglia di Cassino, dalla borsa nera e dalla paura. Il tratto che dalla Campania conduceva in Basilicata era percorso sia dai treni passeggeri che dal treno 8017, destinato al trasporto di materiali per la ricostruzione. Il treno 8017 non viaggiava in giorni stabiliti, come i treni passeggeri che partivano due volte la settimana da Napoli in direzione Potenza. Il treno merci viaggiava ad orario libero. Partiva quando vi era occorrenza dei materiali che trasportava. 



Il treno 8017 partì vuoto da Napoli per caricare i materiali destinati alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dai bombardamenti. Nessuno sarebbe dovuto salire su quel treno. Nelle stazioni intermedie, Salerno ma soprattutto Battipaglia, fu preso d'assalto da persone che volevano trasportare beni da scambiare al mercato nero. Il treno ripartì da Battipaglia con il suo carico umano e di merci alle 19.00. Era composto da 47 carri merce ed aveva la ragguardevole massa di 520 tonnellate. La seconda locomotiva, non prevista in origine, fu necessaria per spostare il treno dalla Campania a Potenza, soprattutto per rendere più facile il valico tra Baragiano e Tito. Come tutte le locomotive delle Ferrovie dello Stato di quell'epoca le macchine avevano una cabina aperta ed un equipaggio formato da due persone: il macchinista per la conduzione ed un fuochista per spalare il carbone. Ad Eboli salirono altre 100 persone, tra cui un professore dell'Università di Bari che cercava di fare ritorno verso casa con una decina di studenti. Alla stazione di Romagnano salirono molte altre persone, tanto che il treno contava oltre 600 passeggeri. Molti di questi erano ragazzi provenienti dai grandi centri del napoletano che trasportavano beni, dal caffè ai maglioni, per scambiarli con zucchero, farina e pane al mercato nero di Potenza. Il treno giunse alla stazione di Balvano-Ricigliano verso la mezzanotte. La partenza fu ritardata di oltre mezzora per manutenzione alle locomotive. Il treno 8017 ripartì dieci minuti prima della una del 3 marzo del 1944. Il tratto dalla stazione di Balvano-Ricigliano alla successiva di Bella-Muro prevedeva una notevole pendenza con gallerie molto strette e poco aerate. Il treno 8017 avrebbe dovuto compiere quel tragitto in circa 20 minuti. Alle due e trenta del mattino non era ancora segnalato alla stazione di Bella-Muro. 



Cos'era accaduto tra le due stazioni?
Nella galleria chiamata delle Armi, a causa dell'eccessiva umidità, le ruote iniziarono a slittare. Il treno perse aderenza, rallentando sino a rimanere bloccato. La galleria delle Armi è lunga poco meno di 2 km con un pendenza media di quasi il 13%. Il treno si arrestò 800 metri dopo l'ingresso. Solo gli ultimi due vagoni non erano entrati in galleria. Dato che poco prima un altro treno era transitato su quel percorso, all'interno della galleria, dotata di scarsissima aerazione, vi era una significativa concentrazione di monossido di carbonio. Gli sforzi delle locomotive per riprendere la marcia svilupparono grandi quantità di monossido di carbonio, facendo perdere i sensi al personale in cabina. In brevissimo tempo anche la maggioranza dei passeggeri, che stava riposando, fu asfissiata dai gas tossici che non potevano uscire dalla stretta galleria se non attraverso un piccolo condotto di aerazione. Il fuochista che sopravvisse alla disgrazia, Luigi Ronga, dichiarò che il macchinista, prima di svenire, tentò di dare potenza per superare lo stallo e trascinare il treno, con tutto il suo carico umano, fuori dalla galleria. Luigi Cozzolino, che dormiva accanto al figli dodicenne, si svegliò per le urla e si accorse che il ragazzo era morto. Il diciannovenne Ciro Pernace si addormentò sotto una mantella militare, svegliandosi all'ospedale di Potenza. 



Molti altri non furono così fortunati. Alcuni passeggeri morirono senza rendersene conto. Altri cercando di scaraventarsi fuori dalle carrozze. Altri ancora schiacciati dalla folla impazzita. Gli operatori della seconda locomotiva, Matteo Gigliano ed il fuochista Rosario Barbaro, cercarono di invertire la marcia per retrocedere. Nel momento critico i due macchinisti agirono in modo opposto: il primo cercò di avanzare e il secondo di tornare indietro. Inoltre, a complicare ulteriormente la situazione, accadde che il frenatore del carro di coda, Giuseppe De Venuto, rimasto fuori dalla galleria, applicò alla lettera il regolamento che gli imponeva di manovrare il freno manuale per bloccare la marcia. Il frenatore, insieme al fuochista della locomotiva di testa, si salvò e camminando lungo i binari riuscì ad avvisare, alle 5.10 del mattino, il capostazione di Balvano che nella galleria delle Armi era presente un treno con numerosi cadaveri a bordo. Il capostazione di Balvano, alle 5.25, fece sganciare la locomotiva del treno 8025 e dispose una ricognizione alla galleria indicata. I soccorsi appena giunti sul posto si resero conto della gravità della disgrazia. Riuscirono a soccorrere 90 superstiti delle vetture più arretrare, tutti recanti sintomi di intossicazione da monossido di carbonio. Alle 8.40, con l'arrivo di uno seconda squadra di soccorsi, la linea fu liberata e il treno recuperato. 



Il bilancio della tragedia fu impossibile da accertare con chiarezza, e fu oggetto di controversie: la stima ufficiale parlava di 501 passeggeri, 8 militari e 7 ferrovieri morti; alcune ipotesi considerano oltre 600 le vittime del disastro. Non tutti i passeggeri furono riconosciuti. I cadaveri furono allineati sulla banchina della stazione di Balvano e sepolti, senza funerali, nel cimitero del paese, in quattro fosse comuni. Gli agenti ferroviari furono sepolti a Salerno. Molti dei sopravvissuti riportano lesioni psichiche e neurologiche.
La disgrazia del treno 8017 è la più grave sciagura ferroviaria italiana ed una delle più gravi al mondo.
Nell'immediatezza degli eventi, come fu raccontata la sciagura?
Il Corriere della Sera parlò “500 italiani periti per asfissia e 49 superstiti in ospedale”. Il consiglio dei Ministri, riunitosi a Salerno, parlò di 517 morti. Aggiunse: “Tutto il personale addetto al treno è deceduto, all'infuori di un fuochista. Tutti gli altri erano viaggiatori di frodo”. Lo stesso consiglio dei Ministri azzardò che la disgrazia era da “attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dagli alleati”. Anche gli anglo-americani fecero un'inchiesta concludendo che le persone erano decedute a causa di un “avvelenamento da combustione di carbone di pessima qualità”. La Stampa di Torino, pubblicata in quella che ancora era la Repubblica di Salò, scrisse: “le notizie, finora trasmesse con il contagocce dagli inglesi, bastano ad inquadrare il tragico episodio nei sistemi usati dai liberatori nei riguardi dei nostri disgraziati connazionali caduti sotto il loro dominio”.



Molti dei parenti delle vittime intentarono causa alle Ferrovie dello Stato, le quali declinarono ogni responsabilità, sostenendo che su quel treno non avrebbero dovuto trovarsi passeggeri di alcun tipo. Le Ferrovie dello Stato dissero inoltre che non era nemmeno possibile risalire a chi avesse responsabilità della gestione della tratta nella quale si era consumata l'orrenda tragedia.
Per spegnere sul nascere le proteste dei familiari, che avrebbero potuto causare una vertenza che si sarebbe trascinata per anni, il Ministero del Tesoro sancì l'emissione di un risarcimento come se si trattasse di vittime di guerra.
Il risarcimento fu erogato dopo oltre 15 anni dalla tragedia.
Nel 1951 la rivista americana Time scrisse: “il governo alleato si sforzò di occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani”.



Alla fine quello che conta è quanto riportato nella lapide scolpita nel cimitero di Balvano, ovvero che la disgrazia causò 509 morti, 408 uomini e 101 donne.
Forse 509 morti.
Forse furono oltre 600, molti dei quali senza nome, senza possibilità che qualcuno possa un giorno ricordarsi di loro.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Gianluca Barneschi, Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso, Gorizia, LEG Libreria Editrice Goriziana, 2014

Salvio Esposito, Galleria delle Armi, Napoli, Marotta & Cafiero, 2012

Vincenzo Esposito, 3 marzo'44. Storia orale e corale di una comunità affettiva del ricordo, Salerno/Milano, Oèdipus edizioni, 2014

Gigi Di Fiore, Il treno della morte, Focus storia, Storie d'Italia

Gennaro Francione, Calabuscia, Roma, Aetas Internazionale, 1994

Gordon Gaskill, La misteriosa catastrofe del treno 8017, in Le 33 storie che hanno commosso il mondo, XXIX, nº 166, Selezione dal Reader’s Digest, luglio 1962 

Alessandro Perissinotto, Treno 8017, Palermo, Sellerio Editore, 2003

Patrizia Reso, Senza ritorno. Balvano '44, le vittime del treno della speranza, Maiori, Terra del Sole, 2013


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

lunedì

amami stanotte

Love Me Tonight, è un film del 1932 diretto da Rouben Mamoulian.

Il film è un adattamento dell'omonima opera teatrale di Paul Armont e Léopold Marchand. Nel film compaiono alcune delle classiche musiche di Richard Rodgers e Lorenz Hart, come Love Me Tonight, Isn't it Romantic?, Mimi e Lover.

Nel 1990 è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, in quanto film di particolare importanza storica, culturale ed estetica.

Trama

Maurice Courtelin è un giovane e affascinante sarto parigino. Uno dei suoi clienti, il visconte Gilbert de Varèze, gli deve 40000 franchi, decide perciò di seguirlo nel castello di famiglia. Qui il visconte Gilbert vive con un gruppo di parenti che conducono una vita secondo i modi della nobiltà di un tempo. Tutti dipendono economicamente dal patriarca, il duca d'Artelines.

Quando Maurice arriva al castello, il visconte Gilbert, per non dover spiegare il debito allo zio duca, lo presenta come il barone Courtelin. Maurice inizialmente vuole sottrarsi alla messa in scena e prendere il denaro che gli spetta, ma cambia idea quando vede la principessa Jeanette, di cui subito s'innamora. Maurice sfodera modi affascinanti e galanti con tutta la famiglia, di cui diventa il beniamino, in particolar modo del duca, e dopo vari tentativi il suo amore viene ricambiato dalla principessa Jeanette.

Sorge però il problema di confessare la sua vera identità e soprattutto le sue non nobili origini, che infatti vengono accolte con sorpresa dalla principessa Jeanette e con scandalo dal resto della famiglia. Proprio mentre Maurice è già sconsolato sul treno per tornare a Parigi, la principessa Jeanette decide di raggiungerlo e di dichiarare senza remore il suo amore.

fonte: Wikipedia

VIDEO

venerdì

il controllo della mente è reale

il brevetto statunitense conferma che il sistema nervoso può essere manipolato attraverso i campi elettromagnetici

Il controllo della mente è stato inizialmente considerato come semplice teoria della cospirazione. Il pensiero umano sappiamo che in molti (non funziona con tutti) può essere “manipolato” attraverso la diffusione di messaggi propagandistici per adattarsi alle persone già predisposte di suo a riceverli in quanto in linea con il proprio credo, che li diffondono a loro volta. Anche i media possono incorniciare una notizia è spingere le persone a pensare in una certa direzione. Con il costante bombardamento di un determinato messaggio o di un’idea specifica per esempio, nel corso del tempo, le persone lo accettano come realtà. Naturalmente, se questo accade, significa che le facoltà di pensiero delle persone sono state alterate.
Tuttavia, dopo alcune rivelazioni sconvolgenti, il controllo della mente è passato da semplici messaggi di comunicazione a qualcosa di più elaborato. Nel 1999 lo psicologo forense Dick Anthony ha rivelato che l’agenzia di intelligence centrale degli Stati Uniti (CIA) ha ideato tecniche dannose come il lavaggio del cervello contro il comunismo durante la guerra in Corea. Più tardi è emerso che il governo degli Stati Uniti aveva sperimentato come controllare la mente umana subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1945, il governo ha reclutato segretamente molti scienziati nazisti, alcuni dei quali sono stati perseguiti come criminali di guerra durante il processo di Norimberga. L’assunzione è stata denominata Operation Paperclip. L’obiettivo dell’operazione Paperclip era quello di sfruttare la conoscenza di questi scienziati nazisti. I nazisti hanno accettato e lavorato per il governo degli Stati Uniti in cambio della loro “protezione” durante il processo, anche se di tale protezione oggi non rimane nessuna prova.
Dopo averli reclutati negli Stati Uniti, il governo ha usato i nazisti in molti esperimenti del tutto clandestini. Uno di questi esperimenti è stato come controllare la mente umana attraverso la tecnologia e la scienza. Con l’aiuto dei nazisti, negli anni Cinquanta, la CIA e il Dipartimento della Difesa hanno condotto una ricerca segreta codenamed MKULTRA. Il progetto è stato successivamente rinominato Project ARTICHOKE. Lo scopo era quello di studiare il controllo delle menti, l’interrogazione, la modifica del comportamento e argomenti correlati.
Quando questi segreti sono stati resi pubblici, la CIA non li ha mai contestati, salvo per dire che ha interrotto i programmi riguardo il controllo mentale. Ma la grande domanda qui è: possiamo fidarci della CIA?
Nel 2013, la BBC ha pubblicato un articolo intitolato “Siamo vicino a rendere il controllo mentale umano una realtà? “ Nell’articolo, è stato detto che Rajesh Raoa, ricercatore presso l’Università di Washington, era riuscito a giocare a un gioco per computer solo utilizzando la sua mente, senza usare controllore fisico.
L’invenzione di Raoa ha convinto molti ricercatori che il controllo mentale non è più una teoria di cospirazione, ma è reale. Alcuni ricercatori hanno espresso seri preoccupazioni circa l’invenzione di Raoa, dichiarando che potrebbe portare ad un’apocalisse di Zombie.
“Se possiamo controllare attraverso gli impulsi elettrici del cervello qualcosa come un robot, allora possiamo affermare che ci sono seri problemi”, ha detto il dottor Ian Pearson, un futurologo con un background scientifico e ingegneristico.
Sulla rete è possibile trovare tutto sulla ricerca scientifica a riguardo, basta scrivere su qualsiasi motore di ricerca il codice del brevetto US 6506148 B2 . È intitolato “Manipolazione del sistema nervoso da campi elettromagnetici dai monitor”.
L’estratto del lavoro: “Gli effetti fisiologici sono stati osservati in un soggetto umano in risposta alla stimolazione della pelle con campi elettromagnetici deboli che sono pulsati con determinate frequenze vicino a ½ Hz o 2,4 Hz, in modo da eccitare una risonanza sensoriale. Molti monitor di computer e tubi TV, quando visualizzano immagini pulsate, emettono campi elettromagnetici pulsati ad ampiezze sufficienti per causare tale eccitazione. È quindi possibile manipolare il sistema nervoso di un soggetto pulsando le immagini visualizzate su un monitor di computer o da un televisore nelle vicinanze. Per quest’ultimo, l’impulso dell’immagine può essere incorporato nel materiale del programma o può essere sovrapposto modificando un flusso video, sia come segnale RF che come segnale video. L’immagine visualizzata su un monitor di computer può essere impulsata in modo efficace da un semplice programma di computer.
Secondo la pubblicazione su Google , Hendricus G. Loos è il proprietario del lavoro. Ha presentato il lavoro nel giugno 2001, ma è stato pubblicato nel gennaio 2003. Quando abbiamo cercato di trovare ulteriori dettagli su Mr Loos, abbiamo capito che non è popolare su Internet, nemmeno menzionato in Wikipedia. Sono stati scritti pochi articoli su di lui . Quello che abbiamo trovato, tuttavia, è il suo lavoro sulla manipolazione del sistema nervoso con dispositivi elettronici avviati nel 1978, pubblicando nove opere da allora.
Ora, per mettere il lavoro in un contesto semplice, consideriamo una semplice definizione del sistema nervoso. Secondo i neuroscienziati, il sistema nervoso umano controlla tutto dal respiro e dalla produzione di enzimi digestivi, alla memoria e all’intelligenza. Infatti, la parte centrale del sistema nervoso è il cervello .
Se il brevetto US 6506148 B2 afferma che il sistema nervoso può essere manipolato da campi elettromagnetici da monitor, non è giusto dirvi che la mente è manipolata con i monitor?
Soprattutto i televisori, sono diventati delle armi a doppio taglio. Dalla recente pubblicazione di WikiLeaks Vault 7, infatti è emerso che la CIA ha utilizzato Samsung smart TV Samsungper spiare la gente.
Non vi è alcun dubbio, il governo degli Stati Uniti (e non solo) usa tecnologie segrete. Le tecnologie segrete sono sempre più incorporate nella maggior parte delle tecnologie che usiamo ogni giorno. Questo aiuta a mantenere la sua egemonia su ogni essere umano di questo pianeta. La conoscenza segreta che i nazisti avevano sotto Adolf Hitler è ora nelle mani degli Stati Uniti e viene messa in uso.

Fonte tratta dal sito .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/

martedì

jeans


una affascinante storia dal tessuto denim al capo d'abbigliamento

Il mondo cambia
i blue jeans no...
... e se non esistessero, bisognerebbe inventarli

(Jean Baudrillard) [1]


Un segno universale

Universali, transazionali, indipendenti dalla razza, dalla nazione, dallo status politico e sociale (si pensi, negli anni sessanta, al movimento studentesco i cui giovani indossavano il jean "made in USA" pur ispirandosi a Mao e alla Cina), adatti a tutti e da tutti utilizzati: dall'avvocato quando va alla partita, al giovane professionista che li indossa assieme alla giacca ed alla cravatta, quando vuole sottolineare di non essere (ancora) completamente integrato; ed ancora li indossa la ragazza che ha il piacere di mostrare le gambe lunghe e il sedere alto; e naturalmente li indossa lo studente e l'operaio, l'immigrato e il gitante. Insomma proprio tutti.

Qui, brevemente, si narra la storia di un successo quotidiano [2] che qualcuno ha chiamato cult objects. Gli usi, i costumi e gli oggetti che rendono tangibili le culture degli uomini sono oggi più o meno simili dappertutto; la gente si comporta in maniera analoga e tende a spostare le differenze dal piano della geografia a quello della storia, dallo spazio al tempo, dall'esotico alla moda. Fra New York e Mosca, fra Tokio e Pechino, tra Parigi e Rio de Janeiro, perfino gli umori sono sempre più simili, e soprattutto in via di ulteriore omologazione. Osservare tale diffusione planetaria nel caso dei jeans è accessibile, tanto che normalmente non ci si fa caso. In un mondo così arbitrario e simbolico come quello dell'abbigliamento il jean rappresenta una grande rivoluzione ...

[1] Filosofo francese, citazione tratta dal breve saggio "Il mondo cambia, i blue jeans no". Secondo Baudrillard, i jeans hanno si cambiato la vita, "ma se hanno potuto registrare un tale sfolgorante successo, è perché la vita era già cambiata". "I jeans sono il grado zero dell'abito, o il non-abito universale, senza bisogno di abbinamenti né accessori". E dove quel grado zero, avverte il filosofo, "non è una definizione peggiorativa" ma l'esatto contrario. "Se i contadini portano i jeans - continua il filosofo - è perché non sono più contadini. Se le donne portano i jeans è perché il loro corpo non è più lo stesso, è meno aderente alle costrizioni dell'essere donna, alla messa in scena della loro femminilità". Solo una questione di unisex? No, approfondisce Baudrillard, "i jeans, dopo aver livellato le caratteristiche sessuali, possono ridiventare un oggetto sensuale, sottolineando fino all'oscenità le forme del corpo".
[2] Oggi nel mondo si vendono un miliardo e 800 milioni di jeans all'anno (dato al 2009) ...


1. La storia

1.1. L'antenato del tessuto denim è il fustagno. 

Nel fustagno, che conosciamo dal XIII al XVI secolo, la trama (cioè il filo orizzontale) era di cotone, mentre l'ordito (il filo verticale) poteva essere di lino, di canapa, e talvolta di entrambi. Il tessuto era prodotto un pò ovunque, e ci si riferiva ad esso con un'infinità di nomi: pignolato, bambagina, terlice, ecc. Nel Cinquecento l'industria del fustagno, in Italia, va in crisi: inizia una corsa al ribasso del prezzo e le produzioni si spostano. Fu proprio intorno alla metà del Cinquecento che comparve, sui moli del porto di Londra e negli empori inglesi, un nuovo termine: jeans. L'Inghilterra era ormai diventata un importatore di fustagno: quello tedesco, proveniente dalla Svevia e quello genovese. In effetti, posti di fronte alla crisi generale, i mercanti di Genova si erano rapidamente ripresi, organizzando un efficace traffico internazionale, del «fustagno rurale» proveniente soprattutto dall'entroterra della Repubblica (Novi Ligure, Serravalle, Voltaggio, Alessandria, Asti). Non si trattava di un prodotto d'élite (il cotone importato dalla Turchia e dall'Italia meridionale veniva mescolato con la canapa locale). Così nell'Inghilterra di fine Cinquecento le balle di fustagno che si ammucchiavano sulle banchine venivano segnate dai portuali con scritte grossolane, che ne definivano la provenienza: «holmes» era il tessuto di maggiore qualità prodotto a Ulm, in Svevia; e «jeans» (da Gènes, alla francese) era il tessuto che arrivava da Genova.

I mercanti nel '700 conoscevano già il tessuto: una stoffa proveniente da Nimes, utilizzata per coprire le mercanzie navali. Si trattava di un ruvido tessuto di cotone che veniva fino ad allora fabbricato in un area molto ben individuata, vale a dire la bassa valle del Rodano, in Francia (Tissus de Nimes), ed il comprensorio marittimo della Riviera ligure italiana (Bleu de Gènes) [1], con lo scopo di fornire in particolare i marinai liguri e della costa francese.

Madre che cuce con due bambini (1670-1709 - Maestro della Tela Jeans [2] - 
olio su tela, cm. 102 x 193 - Fondazione Cariplo - Milano

1.2. Il 14 marzo 1853 Morris Levi Strauss, [3] un mercante bavarese (fallito), arrivò in California (proveniente da New York e dal Kentucky, dove aveva fatto per qualche anno il venditore ambulante), intruppandosi nella moltitudine di avventurieri disperati, coraggiosi, ribaldi che costituivano la massa di individui attratti irresistibilmente dalla "febbre dell'oro", per aprirvi un commercio di tessuti. La leggenda vuole che Levi Strauss avesse venduto quasi tutta la sua mercanzia prima di sbarcare a terra [4], e gli fossero rimasti solo dei teli da tenda; sicché quando, il giorno stesso dello sbarco, uno dei "prospectors" (cioè dei cercatori d'oro) gli chiese di vendergli dei pantaloni, il commerciante poté farglieli fabbricare solo con quel telo da tenda che gli era rimasto, che era di colore cachi e non blu.


L'aspetto più importante dell'invenzione dei jeans, nei loro primi decenni di vita, non riguarda la loro forma o il taglio, che erano variabili, ma il processo di produzione. Levi Strauss nel bel mezzo della corsa all'oro che portò alla colonizzazione del Far West, intuì che i vecchi metodi artigianali per confezionare gli indumenti non erano adeguati ai ritmi di crescita della nuova società e propose un sistema di manifattura in serie, che magari sacrificava l'eleganza e l'adattamento individuale, per garantire prezzi bassi e grandi volumi di produzione. Le sue fabbriche rifornirono prima la rete degli empori che sorgevano nelle effimere città minerarie della California; poi i loro prodotti si diffusero tra i taglialegna, ferrovieri, cow boys , e, soprattutto, tra i minatori; insomma lungo la linea geografica e sociale della Frontiera. [5]

Il 20 maggio 1873 l'US Patent and Trademark Office (l'ufficio americano dei brevetti) rilasciò la licenza numero 139.121 «For improvement in fastening pocket openings» (miglioramenti nella chiusura delle tasche). Era l'autorizzazione a produrre in esclusiva pantaloni di cotone robusto tenuti insieme, oltre che dai punti del cucito tradizionale, anche da rivetti metallici. Praticamente si trattava di ampi e pesanti pantaloni, che si chiudevano in vita, con i quali coprire gli altri indumenti, durante il lavoro. Titolari del brevetto erano il commerciante Levi Strauss e il sarto Jacob Davis, trasferitisi in Nevada sempre in cerca di fortuna, il quale aveva cominciato a cucire robusti capi da lavoro (giubbotti, pantaloni, grembiuli, ecc.) impiegando quel particolare tessuto.

L'idea di Davis fu quella di utilizzare i rivetti di rame per rinforzare le cuciture che cedevano in quanto quegli indumenti erano indossati da minatori, mandriani, agricolturi. Caso volle che Davis avrebbe voluto brevettare la sua idea ma non disponeva dei 68 dollari necessari a svolgere la pratica. Così ebbe l'idea di proporre al proprio fornitore di tessuti di mettersi in società. Il merito di Levi Strauss fu di comprendere l'universalità delle destinazioni d'uso di manufatti di tal genere, e quindi l'enorme potenzialità di diffusione a livello popolare di quei capi grezzi quanto funzionali. Pertanto brevettò l'idea, ed i vari prodotti jeans in tessuto Denim, in particolare i pantaloni, divennero la divisa degli operai della ferrovia transamericana, dei "miners", dei cowboy; i pantaloni ebbero un immediato successo: il modello originale aveva cinque tasche.



Saranno i cercatori d'oro (per avere un pantalone che evitasse la perdita d'oro dalle tasche consunte di quelli di lana) ad utilizzare per primi i pantaloni a cinque tasche prodotti a San Francisco da Levi Strass: è l' "overall" sin da allora contrassegnato dal mitico codice 501 (che all'inizio era stata indicata con una doppia XX) da un numero di lotto di tessuto denim da 9 once (un oncia corrisponde a gr. 28,352), e si trattava quindi di un tessuto leggero, peso che, oggi è usato, per i calzoni della stagione primavera-estate. Il nuovo robustissimo pantalone viene presto adottato dagli agricoltori e dai cowboy; è molto alto in vita, senza tasche dietro né passanti, è in tela marrone, presto sostituita dal caratteristico blu indaco. Nel 1886 compare il "patch" per la prima volta l'etichetta con due cavalli ("two horse brand"), in cuoio o spesso in una sua imitazione, posta sul retro dei pantaloni, che riporta le indicazioni della taglia e del modello, oltre a un marchio (è un vecchio disegno pubblicitario raffigurante un elementare "test di qualità") che raffigura due cavalli che cercano di strappare - tirandoli in direzioni opposte - un paio di jeans, con ciò interpretando bene il concetto di resistenza.




La caratteristica impuntura a doppio arco «double arcuate» sulle tasche posteriori è stata creata nel 1873, ma venne registrata (nessuno ci aveva pensato prima) solo nel 1942.







Successivamente vennero introdotti i rivetti di rame per rinforzalo ulteriormente. Il prodotto aveva però bisogno di avere una immagine precisa e di distinguersi dalla concorrenza.

Nacque così un nuovo elemento di distinzione: la red tab, l'etichetta rossa di minuscole dimensioni (1,5 per 0,5 centimetri) cucita a bandiera sul bordo della tasca posteriore destra, con scritto Levi's, tutto in maiuscolo e in verticale, che fu coperta da copyright nel 1936.

Per evitare sprechi e indirizzare le risorse alla produzione militare anche i jeans nel 1942 vennero soggetti a regole emanate dal War Production Board (un ufficio federale che aveva il compito di far applicare le norme) che ne mutarono l'aspetto. I bottoni della patta furono ridotti a tre (e prodotti in metallo scadente), i rivetti di rame scomparvero e fu abolito il taschino dell'orologio. Bisognava risparmiare anche stoffa e filati: così furono abolite le alette sulle tasche dei giubbetti, le martingale e le impunture sulle tasche posteriori dei pantaloni. La double arcuate sui Levi's 501 XX di quel periodo - «Levi's di guerra» era semplicemente disegnata sulla stoffa, invece che cucita a macchina.

Il conflitto creò negli Stati Uniti una eroina in denim. Era chiamata «Rosie the Riveter» (Rosy la Rivettatrice), e divento il simbolo - autentica icona nazionale - dei sei milioni di donne americane che avevano sostituito nelle fabbriche di aerei, carri e cannoni, gli uomini andati in guerra. Il ritratto più famoso lo fece il pittore, illustratore, Norman Rockell, che ritrasse Mary Doyle Keefe (1922-2015, all'epoca del ritratto era un operatore telefonico). Nell'immagine, sullo sfondo di una bandiera a stelle e strisce, una poderosa Rosie, in jeans con i bordi arrotolati e maglietta blu si riposa, mangiando un panino e tenendo un compressore sulle ginocchia, come se fosse un mitra (copertina del Saturday Evening Post, del 29 maggio 1943).

Nel 1890 il famoso brevetto 139.121 (pantaloni con rivetti) decadde e altri produttori poterono fabbricare calzoni simili. Agli inizi del 1900 altre due aziende, Lee e Wrangler, producono "overall", contendendo a Levi's l'intero mercato.

Nel 1911 Henry David Lee decise di occuparsi anche di abbigliamento. C'era un enorme bisogno di workwear, di abiti da lavoro, che nessuno ancora era in grado di soddisfare. Lee prima creò la salopette, e che allora fu chiamata Bill Overall: era in tessuto denim da 8 once e aveva la pettorina e le bretelle, prima fisse e poi regolabili. Nel 1913 venne invece la Union-All, cioè la tuta da lavoro. Era, di fatto, il capo d'abbigliamento che risultava dall'aver cucito insieme un paio di dungaree e una giacchetta, e che copriva il lavoratore dal collo alle caviglie. Per quell'epoca, una rivoluzione: finalmente operai e contadini potevano fare in modo che, a fine giornata, i propri abiti non fossero sporchi da gettare via. Nel 1917 , per la prima volta una fabbrica d'abbigliamento (la Lee) faceva pubblicità su scala nazionale negli USA: era proprio quella dei Lee Bib Overall e della Union-All, pubblicata da principio sul «Saturday Evening Post», e poi in giro per l'America.

La storia del terzo marchio storico per l'America dei jeans comincia invece nel 1897, quando C.C. Hudson parte da un laboratorio d'abbigliamento per poi creare nel 1919 l'azienda Blue Bell che nel 1926 verrà acquista da un'altra azienda tessile, la Big Ben Manufacturing, del Kentucky. L'azienda continua a crescere. Nel 1943 la Blue Bell acquisisce un altro concorrente, la Casey Jones Company, che deteneva i diritti su diversi marchi, uno dei quali era stato usato raramente. Quando si tratterà di dare il nome ad una nuova linea di jeans per cowboy sarà un referendum fra i dipendenti della Blue Bell a consigliare proprio quello: Wrangler. In inglese quel termine significa «attaccabrighe». Nell'americano del West indicava però anche il cowboy in azione. Wrangler sarebbe diventato il marchio di punta del "western style". Nel 1955 la Blue Bell avrebbe superato ogni concorrente, arrivando a fatturare oltre 53 milioni di dollari.

Nel 1890 fu aggiunto il taschino per l'orologio e le monetine; nel 1905 la seconda tasca posteriore. I passanti per la cintura sarebbero stati applicati solo nel 1922, mentre nel 1926 la «zip» sostituì i tradizionali bottoni (i bottoni per le bretelle vennero definitivamente aboliti solo nel 1937). Negli anni '30 il blue jeans (che finalmente si chiama così) si impone negli Stati Uniti come indumento del tempo libero. Nel 1935 viene lanciato il primo jeans da donna. Nel 1937 appare per la prima volta sulle pagine di Vogue, entrando così nella storia della moda.

I jeans in Europa arrivarono col dopoguerra. I primi Levi's sarebbero stati commercializzati nel 1959. Nel 1962 la Blue Bell aprì la sua prima fabbrica in Belgio, e nel 1964, ancora in Belgio, cominciò a funzionare il primo stabilimento della Lee. In seguito, sempre in Belgio (nelle Fiandre) avrebbe aperto un proprio centro anche la Levi Strauss.

Eppure qualche jeans autenticamente europeo era in circolazione già da tempo. In Francia, la giovane imprenditrice Rica Levy aveva fondato nel 1928 quella che sarebbe diventata poi la Rica Lewis. All'inizio nella sua azienda venivano confezionati capi d'abbigliamento (anche in denim) per le Forze Armate, poi, dal 1945, si fecero anche i jeans. In Germania il marchio Mustang risale al 1932. Adesso il suo logo rappresenta un doppio cavallo al galoppo, ma all'inizio c'era un elefantino [6] In Inghilterra i Lee Cooper sono comparsi invece nel 1937, ma il marchio è nato addiritura nel 1908. A dare un aiuto alla diffusione del jeans fu paradossalmente proprio la penuria di stoffe che si era verificata nel corso della Seconda Guerra Mondiale, e nei tempi immediatamente successivi. Come altri beni, i tessuti erano razionati e potevano essere acquistati grazie a particolari «buoni». Ogni inglese aveva a disposizione 30 coupon all'anno per vestirsi, ma correva il rischio di esaurirli in fretta: per un abito da uomo ci volevano infatti 26 tagliandi, per un vestito da donna 16. Ma gli abiti da lavoro e i jeans si potevano avere in cambio di un solo coupon! Ovvio che questi ultimi andassero a ruba. [7]

[1] Cioè Genova detto alla francese.
[2] A questo pittore, ancora non identificato, è stato dato il nome catalogico «Maestro della Tela Jeans» in quanto tutti i personaggi raffigurati nelle sue opere vestono abiti di tela jeans.
[3] Levi Strauss (nato Löb Strauß; Buttenhein, Baviera, Germania, 26 febbraio 1829 - San Francisco, California, Stati Uniti d'America, 26 settembre 1902)
[4] Per raggiungere l'altra costa dell'America nella baia di San Francisco Levi dovette con la nave fare il giro dell'intero continente americano fino a Capo Horn (allora non esisteva la linea ferroviaria da costa a costa, che unisse l'America dall'Atlantico al Pacifico, ed il Canale di Panama doveva a quella data essere ancora progettato.)
[5] Ugo Volli, Jeans, Ed. Lupetti & Co., 1991, p. 34
[6] Tutta la storia di questo marchio si può leggere visitando il sito internet del Mustang Museum - http://www.mustang-museum.de/
[7] Remo Guerrini, Bleu de Gênes, Ed. Mursia, pp. 110-113.

2. Il Denim

Il tessuto del jeans - il denim, com'è universalmente chiamato con un termine che soprattutto nei paesi anglosassoni è una definizione quasi equivalente al nome dei jeans - ha, oltre alla sua resistenza, altre due caratteristiche che sono più o meno comuni a ogni tessuto tinto: il processo di restingimento, che porta la stoffa a "ritirarsi" nei primi lavaggi, e quello della decolorazione.

2.1. La prima caratteristica, che nel denim attuale si svolge tutto subito coi primissimi lavaggi, è stato sfruttata nella "jeans culture". Ecco che gli attuali teen-agers puntano ad ottenere dai loro pantaloni un aspeto sexy e per questa ragione, anche a scapito della libertà di movimento o di un uso funzionale, desiderano ridurre al minimo la distanza fra l'epidermide e la loro "seconda pelle" di denim, eliminando anche nel limite del possibile ogni strato di biancheria. "Shrink to fit" è stato lo slogan pubblicitario con cui la Levi's ha "venduto" con successo il fenomeno. Questa moda "flesh-squeezing" (stringicarne), particolarmente in uso negli anni Sessanta, comportava anche un processo di vestizione complicato, a tratti doloroso, di incerto successo.
Ecco come lo descrive Lain Finlayson [1]:

«Prima bisognava che ti togliessi le scarpe, tendessi le punte dei piedi come una ballerina e tirassi i jeans come una calzamaglia su per le gambe, fino al sedere. Poi bisognava che ti stendessi sul pavimento a pancia in su, che inspirassi profondamente e che afferrassi con forza la lampo con una mano, mentre con l'altra stringevi la cintura. Contorcersi e dare strattoni al cavallo dei pantaloni era opzionale, ma normalmente bisognava sollevare il sedere da terra, e l'intera procedura faceva pensare a qualche tecnica avanzata di Kama Sutra da praticarsi in solitudine per riuscirci. Per una aderenza più liscia e per un miglior ingresso nei pantaloni, non bisognava interferire con mutande, che in ogni caso avrebbero provocato orribili bernoccoli sotto i jeans, sicché era un'impresa non prender dentro tormentosamente del pelo pubico quando si tirava su la lampo in un unico movimento veloce ed energico. L'effetto del rozzo denim sui teneri organi sessuali degli adolescenti era talvolta imbarazzante. Ma il risultato erotizzante sul corpo nudo era altrettanto carino.»

In seguito però molti di questi riti sparirono, per le alternanze della moda, che volle via via i jeans larghi al polpaccio e stretti in alto "a zampa d'elefante", o al contrario larghi in alto e stretti sul polpaccio "alla cavallerizza", tutti larghi o "giusti"; in seguito alla comparsa della fibra elastan (o lastex) si ottennero gli stessi effetti di esibizione sessuale con più naturalezza e minori sacrifici. E i jeans furono riportati alla loro immagine originaria, in cui il restringimento sul corpo "shrink to fit" era importante sì, ma senza eccessi.

Rafael Nadal - testimonial 2011 Armani


2.2. La seconda caratteristica è che il tessuto jeans si stinge progressivamente con i lavaggi e con l'uso, schiarendosi di più dove è maggiore l'attrito. Come scrive Daniel Friedman [2]:

«Il jean invecchia integrando in sé il cambiamento dell'età, impregnandosi di avventura, della vita di chi li indossa. ogni lavaggio è una pagina girata, il tempo vi scrive la sua memoria su uno sfondo sempre più pallido. La decolorazione dovuta al lavaggio traduce l'avvenimento vissuto fino alla saturazione finale.» 

Il processo di invecchiamento è diventato, a partire dagli anni Sessanta, un puro requisito estetico, da ottenere artificialmente. In un primo momento fu realizzato con ripetuti lavaggi domestici più o meno integrati con varie alchimie fisico-chimiche (sale, candeggina, pietruzze, acqua calda, ecc.). Va detto che parlare di "invecchiamento artificiale" è una contraddizioni in termini. Poi una volta che l'industria ebbe compreso questa strana nicchia di mercato, fu offerto industrialmente dai produttori con varie qualità di trattamenti: marmorizzazioni, sbiancamento alla candeggina, "stone-wash". Una variante particolarmente significativa di questo fenomeno di apprezzamento estetico dell'usura nei jeans la si ritrova nel costume di provocare artificialmente quelle zone di differente consumo che sono l'effetto normale della vita "naturale" dei pantaloni. Vennero così artigianalmente schiarite, di solito grattando con la pietra pomice o la carta vetrata, le parti di tessuto corrispondenti al fondo schiena e alle ginocchia, che effettivamente si consumano più del resto per un effetto di attrito; ma spesso anche del pube, come a simulare un "gran traffico in zona". Poi l'industria si impadronì anche di questa tecnica dell'uso simulato.

«Autentico o simulato che sia, resta il fatto piuttosto bizzarro rispetto all'estetica "naturale" del consumo, che per i jeans il nuovo vale meno dell'usato, il consumo aggiunge valore (estetico, affettivo, di prestigio sociale, perfino economico) all'oggetto», come scrive il prof. Volli (vedi opera citata nella bibliografia).

[1] "Denim - An American Legend", Fireside, Simon & Shuster, New York
[2] "Histoire du blue jeans" Paris, 1987


3. Tingere di blu: dal guado all'indaco

Il blu, prima del XII secolo non aveva mai avuto una grande fortuna. [1] Il blu greco è glaukòs o kyaneos [2], che è per consuetudine il colore della sofferenza. La stessa difficoltà a dare un nome al blu si ritrova nel latino classico (e in seguito nel latino medioevale). Certo i termini abbondano [3], a cominciare dal più ricorrente caeruleus, che etimologicamente evoca il colore della cera (fra il bianco, il bruno e il giallo), e poi designa certe sfumature di verde e di nero, prima di specializzarsi nella gamma dei blu [4]. E infatti il termine «blu» viene dall'antico tedesco blau (passando per l'inglese medioevale blwe), e «azzurro» addirittura dal persiano lazaward, che indicava la tinta degli zafferi.

Nell'Occitania (area geografica che separa i Pirenei dal Massiccio Centrale, nella Francia meridionale) compreso fra Tolosa, Albi e Carcassonne si produceva una materia prima richiestissima in tutto il mondo di allora: il blu pastel, cioè una tintura blu derivante dalla pianta chiamata guado (che in francese si dice appunto guède o pastel). Guado (Isatis tinctoria) è il nome comune di una pianta (crocifera) biennale a fioritura primaverile, che cresce soprattutto lungo i fiumi, di cui si usano le foglie (fino a cinque raccolti per anno) per estrarne un pigmento blu di varie sfumature, fino a raggiungere quasi il nero. La sua coltivazione su vasta scala coincise proprio con la "riabilitazione del blu" nel XIII secolo. Soprattutto in Germania, in Francia e in Italia il guado (e ovviamente la sua trasformazione in tintura) fu un essenziale elemento di sviluppo per l'economia agricola. Erfurt, il maggiore centro della Turingia, che fra il Duecento e il Seicento diventò una delle città più ricche della Germania sarebbe stato, per un paio di secoli, il più grande mercato di guado in Europa. In Italia il guado era coltivato e trasformato principalmente in Toscana e nelle Marche. Importante era anche la tintura realizzata in Piemonte, a Chieri. Da qui i pesanti «pani» blu erano avviati al porto di Genova, diretti soprattutto verso l'Inghilterra.


BLU DI GENOVA - Una Passione in 14 teli dipinti del XVI secolo

Nella storia di Genova la presenza della tintura blu abbinata alle stoffe è consuetudinaria. Qui due dei grandi Teli della Passione, risalenti alla prima metà del Cinquecento e raffiguranti gli ultimi giorni di Gesù, con straordinarie immagini in biacca su stoffa blu indaco. Ovviamente non è un tessuto jeans: i Teli sono in lino mentre il jeans è in cotone, e poi i Teli sono, appunto, una tela mentre il jeans è una saia.

Più esotico era invece il secondo pigmento vegetale da cui si estraeva (e almeno fino alla fine dell'Ottocento si sarebbe estratto) il blu. 

La pianta era l'indigofera tinctoria, un arbusto di cui esistono numerose varietà, nessuna delle quali, però, cresce in Europa, dalle cui foglie (quelle più alte e più giovani) si otteneva l'indicum, oggi indaco (indigo in inglese). 
Quella dell'India, che era il maggior produttore, e delle regioni tropicali del Medio Oriente o dell'Africa cresce in cespugli che non superano i due metri di altezza. 

La sostanza attiva contenuta nell'indaco è l'indigotina che viene estratta dopo aver posto le foglie a macerare e quindi a fermentare. Il liquido che si ottiene è fatto ossidare in grandi vasche e il deposito - cioè i fiocchi di indigotina - sarà poi raccolto, riscaldato e asciugato, per essere messo in commercio sotto forma di «pani». L'indaco è infatti una tintura insolubile in acqua (ciò vuol dire che se lo si mischia con acqua e vi si immerge una fibra tessile, non succede nulla: si estrae dal bagno un filo o un tessuto imbrattato di polvere azzurra, ma assolutamente non tinto), richiede procedimenti chimici per essere reso più stabile (un tempo lo si sceglieva nell'urina e più tardi, nell'Ottocento, nell'urea sintetica), inoltre l'indigotina non si lega bene comunque alle fibre e il tessuto tende a stingere. 

A partire dalla seconda metà del Cinquecento l'indaco cominciò a sostituire il guado, ma non per qualità intrinseca. Le autorità di parecchie città o paesi frenavano l'importazione e l'utilizzo per non nuocere alla produzione indigena di guado e al ricco commercio del pastello che ne derivava. Era soprattutto il caso della Francia e di una parte della Germania, che proibirono a lungo l'uso dell'indaco in tintoria. Ma nel corso dei decenni, essendosi rivelato meno costoso e più potentemente tintorio del pastello, il colorante esotico soppiantò il colorante indigeno, e poi finì con l'eliminarlo quasi totalmente. 

Nel 1905 Johann Friedrich Wilhelm Adolf von Bayer ricevette il premio Nobel per la chimica con questa motivazione: «Per i suoi studi sulle sostanze coloranti e sui composti aromatici». 

Fra le sue molte ricerche c'era stata la definizione, nel 1880, della struttura molecolare dell'indaco. Il passaggio dalla scoperta della molecola dell'indaco alla sua sintesi non fu facile, e ci si impegnò soprattutto la Badische Anilin und Soda Fabrik, oggi più nota come BASF. Fu necessario investire un milione di marchi di allora. Si dovettero sperimentare molte reazioni chimiche e, come spesso avviene, la soluzione fu trovata per caso, in seguito a un provvidenziale incidente di laboratorio (la rottura di un termometro) che consentì di scoprire il catalizzatore giusto per accelerare le reazioni. 

Così nel 1887 l'indaco di sintesi - molto più economico di quello naturale - fu messo in commercio: sarebbe stato uno dei maggiori successi imprenditoriali di fine Ottocento.

[1] Per quasi un millennio (dai mosaici delle basiliche di Ravenna a Giotto) la nostra cultura pittorica ha dipinto il cielo col giallo dell'oro, senza che nessuno si scandalizzasse per una convenzione che a noi pare "ovviamente" così stravagante. Il XIII secolo europeo è il grande secolo del blu. Per la prima volta dalla preistoria, questo colore che diventa quello della Vergine e della funzione reale, comuncia a fare concorrenza al rosso. [Ugo Volli, Jeans, Ed. Lupetti & Co., pp. 66-70]

[2] Quest'ultimo probabilmente designava in origine un minerale o un metallo; la sua radice non è greca e il suo significato è rimasto a lungo impreciso. In epoca omerica qualifica sia il blu chiaro degli occhi, sia il nero di un abito da lutto, ma mai il blu del cielo né quello del mare. Del resto, si è potuto osservare che in Omero, su sessanta aggettivi qualificanti gli elementi e il paesaggio nell'Iliade e nell'Odissea, soltanto tre erano aggettivi di colore, i termini che si riferiscono alla luce sono in compenso estremamente numerosi. In epoca classica, kyaneos indica un colore cupo: il blu scuro, certo, ma anche il viola, il neo, il bruno. In realtà, la parola dà la «sensazione» del colore più che indicarne la tinta. quanto a glaukòs, che esiste già in epoca arcaica e di cui Omero fa ampio uso, denota sia il verde, sia il grigio, sia il blu, talvolta persino il giallo o il bruno, e trasmette più un'idea di pallore o di debole concentrazione del colore che una tinta veramente definita; ecco perché si usa ugualmente per definire il colore dell'acqua, degli occhi, delle foglie o del miele. [Michel Pastoureau, Blu - Cap. I Greci e i Romani vedevano il blu?, Ed. Ponte alle Grazie, pp. 25-26].

[3] Caeruleus, caesius, glaucus, cyaneus, lividus, venetus, aerius, ma sono tutti polisemi (cioè con più significati), cromaticamente imprecisi se non addirittura contradditori.[Michel Pastoureau, Blu - Cap. I Greci e i Romani vedevano il blu?, Ed. Ponte alle Grazie, p. 28].
[4] Questa imprecisione e questa instabilità del lessico dei blu sono in realtà il riflesso dello scarso interesse che gli autori romani e poi quelli del primo Medio Evo cristiano nutrano per tale colore. Il che favorirà, in seguito, l'introduzione di due parole nuove nel lessico latino per designare il blu, l'una venuta dalle lingue germaniche (blavus), l'altra dall'arabo (azureus). [Michel Pastoureau, Blu - Cap. I Greci e i Romani vedevano il blu?, Ed. Ponte alle Grazie, p. 28]. 

LEVI'S TUXEDO
Notice: to hotel men everywhere. This label entitles the wearer to be duly received and registered with cordial hospitality at any time and under any conditions.
Presented to BING CROSBY

Signed American Hotel Association 


Ovvero: «Smoking Levi's. Attenzione: al personale di tutti gli hotel. Questa etichetta garantisce al suo portatore di essere convenientemente ricevuto e registrato, con cordialità e ospitalità, in ogni momento e in qualsiasi condizione. 
Rilasciato a Bing Crosby. Firmato: l'Associazione degli albergatori americani». Oggi quello smoking è esposto al Northeastern Nevada Museum, di Elko. [1]

4. Lo stile «jeans»

Nella primavera del 1951, un involontario testimonial del jeans fu anche il cantante e attore Bing Crosby, che amava jeans e denim e se ne vestiva nel tempo libero. Così al termine di una battuta di caccia nei boschi della British Columbia, in Canada, gli capitò di presentarsi con un amico in un hotel di Vancouver, e di chiedere una camera. Niente da fare: il portiere li squadrò da capo a piedi e obiettò che, presentandosi in jeans, non si poteva pretendere di alloggiare in quell'albergo.

L'equivoco fu presto superato grazie all'intervento di un fattorino, che aveva riconosciuto il croner (cioè il cantante che oggi definiremmo «confidenziale») più celebre d'America, e Crosby poté farsi la doccia. L'episodio diventò però di pubblico dominio e il 30 giugno dello stesso anno il cantante ricevette nel proprio ranch di Elko (un paese di ventimila abitanti, nel Nevada) in occasione di un rodeo, un singolare omaggio da parte della Levi Strauss: un tuxedo (cioè uno smoking, come è chiamato in America) doppiopetto confezionato su misura in tessuto denim, blu scuro, con risvolti in azzurro. L'etichetta, più grande, cucita all'interno della giacca, diceva invece:

Nell' Europa occidentale i blue jeans giungono per la prima volta agli inizii degli anni '50 indossati dai turisti americani, e, in particolare, si affermò nelle subculture giovanili fortemente influenzate dal mito americano e dai suoi prodotti (i jeans come immagine dell'american style).

In questo periodo non potevano ancora essere considerati quel prodotto di massa. L'abbigliamento realizzato in tessuto jeans è stato per circa un secolo un tipico capo da indosso proletario, in quanto robusto, economico, resistente ai lavaggi; insomma ideale per quanti avevano poco da spendere all'acquisto, e l'esigenza di un uso prolungato in condizioni d'impiego spesso critiche per un materiale tessile.

Marlon Brando in una foto promozionale per il film "Il selvaggio", [2] del 1954 vestito di giubbotto e jeans in sella ad una potente motocicletta. 
Il film ebbe un grande successo, e definì il modello estetico del "bad boy": giubbino di pelle nera (quello di Brando era uno Schott NYC Perfecto 618), T-shirt, jeans Levi's 501 button fly (cioè con i bottoni e non con la cerniera lampo) neri anch'essi.

E ciò fino (all'incirca) al periodo storico a cavallo tra gli anni '60 e '70, allorché alcuni miti del cinema d'allora (James Dean, Marlon Brando, ed il musicista Bob Dylan), ed in seguito la gioventù "hippy" californiana del tempo ("i figli dei fiori"), ne fecero essi pure una divisa per gli spiriti anticonformisti, stimolando folle di ammiratori.

I blue-jeans iniziano una nuova fase che li portò ad essere un indumento associato con il tempo libero e come tale impiegato da un gran numero di persone, soprattutto, ma non solo giovani. "Le industrie produttrici dei blue-jeans che nel frattempo si erano moltiplicate (oltre ai Levi's si possono ricordare altre marche molto famose di blue-jeans: i Lee, i Wrangler, i Rifle, ecc.) si impegnano a publicizzare il prodotto e a rimuovere in qualche modo quell'associazione negativa tra blue-jeans e il mondo eversivo delle subculture giovanili che li rendevano non accettabili agli occhi delle fasce medie, borghesi dei consumatori. Tuttavia la valenza politica dei blue-jeans non si estinse del tutto, ma si ripresentò, come una sorta di valore aggiunto, in determinate occasioni.

Negli anni della «contestazione globale» - dalle rivolte studentesche del 1968, cioè, in poi - i blue-jeans, anche per la semplicità e l'essenzialità delle loro forme, espressero in maniera concreta il rifiuto, da parte soprattutto del mondo giovanile, delle convenzioni sociali, dell'abbigliamento formale e alla moda che rispecchiava le differenze esistenti fra le diverse classi sociali e i differenti ruoli sociali: i blue-jeans si trasformarono quasi in un un'uniforme del mondo giovanile e divennero il simbolo per eccellenza dell''«antimoda», della spinta egualitaria presente nelle nuove generazioni e che univa in un progetto ideale comune tanto gli studenti che gli operai.[...]

Tuttavia i blue-jeans non rappresentarono mai, neanche nei momenti in cui fu più viva la contestazione studentesca, una vera e propria uniforme, tipo quella delle guardie rosse cinesi che avevano dato vita alla rivoluzione culturale; man mano, infatti, che i blue-jeans divennero un indumento di massa persero in parte le originarie caratteristiche di comodi capi di abbigliamento da usare durante faticosi lavori manuali e seguirono, pur essendo simboli dell'«antimoda», i dettami della moda che, come è noto, non sempre coincidono con le esigenze di praticità e comodità dell'abbigliamento." [3]

Alla fine degli anni '60 i blue-jeans divennero attillati, molto aderenti al corpo, quasi una seconda pelle tesa ad evidenziare i contorni degli organi sessuali mentre negli anni '70 assunsero la caratteristica forma «a zampa di elefante» che era allora preferita nel campo dell'abbigliamento. Vi è stato poi un periodo di relativo oblio negli anni dal 1975 al 1985, coincidenti al crollo dei valori e dell'ideologia che avevano accompagnato le rivolte studentesche dalla fine degli anni '60 alla metà degli anni '70. Tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 i blue-jeans vengono riscoperti ed assumono sempre più le caratteristiche di un prodotto, o meglio di un materiale, il denim, che riveste concretamente in tutte le sue sfumature il tempo libero individuale e che può essere interpretato in maniera personalizzata, con l'aggiunta di decorazioni, materiale di vario tipo (perline, brillantini, spille, ecc.).

I «jeans», tuttavia, in un certo senso sono già nati «personalizzati» o «firmati» (con il marchio di un noto stilista): il consumatore era abituato (si pensi ai pantaloni) all'etichetta cucita sulla tasca posteriore destra dei blue-jeans di produzione Levi-Strauss. Con il passare degli anni l'etichetta è diventata un elemento caratteristico, imprescindibile, di quel capo; applicare un'etichetta firmata di uno stilista ai blue-jeans, quindi, può essere considerato, un uso coerente con l'immagine tradizionale di questi pantaloni.




Campagna pubblicitaria della Levi's

I jeans non sono rappresentati come indumento, per il loro valore d'uso. Né vi si associa, come é consuetudine nella pubblicità, una paricolare atmosfera, un modo di vivere che contraddistinguerebbe i consumatori di questo prodotto. E neppure è attribuita lro tradizionalmente qualche speciale virtù o qualità. Tutto ciò è dato per scontato. Quel che c'è in queste immagini è solo l'oggetto, jeans con la loro intensa e riconoscibile vibrazione di blu, utilizzati però in maniera sorprendente, come briglia o perizoma o velo tuareg. Si tratta di un'associazione di atmosfera con mondi avventurosi e possibilità impreviste: alla fantasia del consumatore fare il resto. 


Più che di blue-jeans oggi bisogna parlare di «stile» oppure di «abbigliamento jeans»; non solo i pantaloni sono «jeans»: il tessuto denim ora è impiegato per camicie, gonne, giacche, cappelli, borse, scarpe, ecc., ed ormai lo possiamo pensare anche per oggetti non di abbigliamento (esiste persino una versione di automobile «jeans»). Il suo colore blue indaco (anche se oggi l'abbigliamento jeans può essere coniugato con altri colori) e il tessuto denim (un binomio inscindibile) sono diventati un marchio caratteristico ed esclusivo che al pari delle «griffes» o dei nomi commerciali famosi conferisce un significato speciale, quasi mitico ad oggetti normalmente presenti nella comune vita quotidiana.

Dal 1989, con la crisi del sistema sovietico, il mercato dei paesi dell'est si è apero in maniera ufficiale e non solo clandestina all'influenza dello stile «jeans» e così è stato anche per i mercati asiatici ed africani. Oggi è il primo capo globalizzato (e non solo in senso geografico ma totale), con un graduale eppur costante declinazione del Denim in forme stilistiche accettabili. All'abbigliamento differenziato per classi sociali, per età e per sesso, il jeans ha sostituito un capo unico assolutamente indifferenziato e omogeneo, cioè uguale per tutti. Trasversalmente è valido per tutte le classi sociali e tutte le età, è utilizzato con la stessa disinvoltura dalla star del cinema o dello spettacolo, dal dirigente della multinazionale, e dall'operaio, dal professore e dallo studente. Si è sostituito all'abbigliamento differenziato per sesso, quale capo sicuramente unisex. Ha infine superato la diversificazione dell'abbigliamento per culture nazionali per diventare l'abbigliamento trans-nazionale per eccellenza.

Esiste una analogia, un rapporto complementare, tra blue-jeans e T-shirts: queste ultime rappresentono la parte superiore, dalla vita in su, dell'abbigliamento casual, mentre i blue-jeans vestono di solito, la parte inferiore del corpo. Le T-shirts (magliette di cotone) possono anche loro essere personalizzate attraverso la stampa o l'iscrizione sul tessuto di slogans, disegni, logos e firme di noti stilisti. Questa è però un altra storia che, in un altro post, varrà la pena raccontare.

[1] Remo Guerrini, Bleu de Gênes, Ed. Mursia, pp. 90-91. Bing Crosby vinse un Oscar nel 1944 per la sua interpretazione di "Going My Way", e come cantante la sua versione di "White Christmas" era già un best seller. 

[2] Titolo originale "The wild one", proiettato il 30 dicembre 1953, nei cinema di New York. Il film diretto da László Benedek (ma prodotto da Stanley Kramer)ispirato alla battaglia di Hollister. Marlon Brando, che allora aveva 29 anni, impersona il capo del Black Rebels Motorcycle Club, e andava a sbattere contro Lee Marvin, che sullo schermo interpretava proprio Wino Willie, il capo dei Boozefighters. Unica differenza, ma non da poco per gli appasionati, Brando non stava in sella a una Harley, ma a una Triumph Thunderbird 6T. L'episodio destinato a passare alla storia avrebbe avuto luogo a Hollister, California, nel 1947. Qui - nel corso del weekend del 4-6 luglio, festa nazionale - si radunarono per un Gypsy Tour ben quattromila motociclisti di club diversi. Erano quasi tutti reduci della Seconda Guerra Mondiale: c'erano i Top Hatters, i Pobobs (dai quali sarebbero derivati i famosi Hell's Angels), i 13 Rebels, e soprattutto i membri del Boozefighters Motorcycle Club (con sede principale all'All American Bar di Los Angels). Boozefighters si può tradurre in «combattenti della sbornia ». Quel giorno i bikers cominciarono a sfidarsi in gare di corsa e di abilità, poi di capacità di reggere l'alcol (con grandi bevute di birra). Ne venne fuori una rissa colossale, con le mote che entravano ed uscivano dai bar di San Benito Street, la via principale. Alla fine ci sarebbero stati una sessantina di feriti, e la cittadina si sarebbe ritrovata in balia dei nuovi venuti. 

[3] R. Caterina, "I blue-jeans: storia e vicissitudini di un mito collettivo", pp. 116-117

5. La carta di identità del denim 

La filatura - Il denim del jeans è un tessuto soprattutto in cotone [1], che può (una innovazione degli ultimi decenni) avere una piccola percentuale di lycra (elastan) per dargli elasticità. La fibra di cotone una volta districata (dalle balle) viene pulita e mescolata. Si passa poi alla cardatura che serve (macchina che utilizza aghi metallici) per aprire eventuali grumi di fibre, separa queste ultime e forma dei grossi cordoni che vengono tirati e ritorti per aumentare la coesione. Le singole fibre sono poi separate in una centrifuga, e quindi ritorte in modo da formare un filo continuo. Al termine della filatura il filo viene raccolto su bobine.

La tintura - Il denim viene tinto quando è ancora filo, prima della tessitura. In particolare solo l'ordito è colorato (blu indaco, marrone, o altri colori), mentre la trama resta in filato greggio cardato che porta al caratteristico biancheggiamento (effetto bicolore). Per ottenere la tintura blu è usato l'indaco [2], che oggi viene prodotto sinteticamente. Il colore si depone solo all'esterno dei fili, con un processo di bagno e ossidazione che lascia bianco (naturale) l'interno dei fili. Per questa ragione il denim scolora col tempo.

La tessitura - I tessuti si formano su un telaio, su cui sono stesi i fili dell'ordito (insieme di fili tesi, nel senso della lunghezza del telaio, teoricamente, lunghezza illimitata). Ogni filo passa attraverso un anello, detto liccio, che può essere sollevato e abbassato meccanicamente. Alzando alcuni licci si crea un'apertura della trama in modo da accostarlo a quelli precedenti e formare il tessuto. Nel denim che è una stoffa ad armatura saia 2X1 o 3X1 (trama diagonale) l'effetto è prodotto da telai con più gruppi di licci, dove se ne possono perciò a ogni passaggio della navetta alzare 2 o tre e abbassare uno. E' curioso come i grandi marchi storici negli USA del settore abbiano tradizionalmente utilizzato l'andamento della diagonale per distinguersi uno dall'altro. Così la «saia destra» è tipica della Levi's, la «saia sinistra» dei Lee, mentre i Wrangler hano una specie di «saia spezzata», che sale cioè a zig zag. Un classico tipo di jeans può essere un Ne 8-8 = 28-18 dal peso di 350 g/mq. Ne esistono, comunque, versioni più leggere o pesanti (Ne 7,5 o 7 e allora si arriva fino a 475 g/mq.).

Lavaggi e scoloriture - Il jeans appena confeziona è molto rigido, perché il sul tessuto non è mai stato lavato e conserva l'appretto utilizzato durante la tintura. Inoltre esso reagisce al primo lavaggio stringendosi del 10-12%. Da molti anni le industrie usano vendere i jeans, più morbidi e già ristretti, che hanno già subito un primo lavaggio con ammorbidente: sono i rinsed. Di recente a questo lavaggio si sono aggiunti vari agenti che modificano il colore o l'apparenza dei jeans. Per prima si cercarono tonalità più chiare, aggiungendo cloro al primo lavaggio. Sono i jeans bleached e super-bleached (resi quasi bianchi), o a chiazze irregolari ottenute legandoli durante il lavaggio (tie-blanched).

Per ottenere industrialmente l'effetto di invecchiamento e usura che valorizza i vecchi jeans, si aggiunsero, attorno al 1990, il lavaggio con pietre pomici (stone-washed), magari usando anche il cloro (stone-bleached) o altre sostanze sbiancanti (marmorizzato o Klondyke). Oggi questi effetti si ottengono con l'uso di enzimi meno inquinanti. Per simulare meglio l'invecchiamento dei jeans in certe zone, si è prodotto infine l'effetto used, usando carta vetrata o prodotti chimici sbiancanti solo su alcune parti dei pantaloni. Con l'aggiunta dei processi precedenti, sono nati i jeans used-stone o used-bleached.

[1] Ce ne vuole almeno una libbra e mezza (poco meno di 7 etti) per mettere insieme un pantalone standard.
[2] Ogni anno si producono circa 17 mila tonnellate di indaco sintetico: non tutto, ma certamente quasi tutto, serve a tingere la stoffa per i jeans.

Continua qui: trama-e-ordito.blogspot.com

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.com/

Ecco com'è realizzato l'effetto di invecchiamento sui jeans ...


Abbastanza assurdo no?... ^_^

E ora vogliamo esagerare: diamo uno sguardo alle nuove tendenze..


... e meditiamo su come vanno a finire le grandi scoperte!
^_^