giovedì

misteri italiani

gli strani accadimenti del 1967 a Sassari. La strategia della tensione e l’Operazione Sirio.



Nel 1967 a Sassari operò una strana banda di malviventi capeggiata da due pregiudicati, pastori. Da qualche tempo deputati, avvocati, commercianti e industriali, ricevevano lettere anonime, ingiunzioni a versare denaro per aver salva la vita. Chi contava qualcosa, a Sassari, riceveva la lettera, anche l'ex presidente della repubblica Antonio Segni. Spesso, i ricattati ricevevano dalla questura l'offerta di una scorta personale prima ancora che la lettera estorsiva arrivasse.
A metà agosto La Nuova Sardegna informò che la pericolosa banda era stata finalmente fermata, o quasi. La Mobile aveva arrestato un autista disoccupato, Mario Pisano, un altro autista, Archelao Demartis, un pastore, un infermiere, Graziano Bitti e suo padre, il vecchio Sisinnio Bitti, di anni 65, noto alle carceri locali, e uno studente in giurisprudenza, incensurato, Antonio Setzi. Fuori della rete però erano rimasti i due “pezzi grossi”, Pasquale Coccone, pastore, e soprattutto Umberto Cossa, anch’egli pastore, entrambi pregiudicati. Fu il vice questore in persona, Giovanni Grappone, a dare la notizia dell'operazione di polizia ai giornalisti convocati in questura, raccontando come si era svolta. All'alba del 14 agosto gli uomini della Mobile sassarese, comandati dallo stesso dottor Grappone, avevano circondato l'ovile dove il pregiudicato Cossa stava radunando le sue pecore. Gli fu intimato l'altolà, ma estratta una pistola, il Cossa incominciò a far fuoco sui poliziotti. Per fortuna la pistola al secondo colpo si inceppò, e il bandito la lasciò cadere a terra.  La polizia la esibì davanti ai giornalisti come prova. Il pastore era però riuscito a fuggire “lanciandosi con una folle corsa giù per un impervio costone”. I cronisti si guardarono tra loro stupiti: perché mai i poliziotti non avevano inseguito l’uomo? “A noi quel Cossa serve vivo!” chiarì il dottor Grappone.
Fu letta la fedina penale del Cossa: nel 1958, ancora giovanissimo, era stato sorpreso dai carabinieri nelle campagne di Urì, mentre spingeva avanti a sé un gregge di nove pecore rubate all'allora ministro dell'Agricoltura, on. Antonio Segni. All'intimazione dell’ Alt il Cossa aveva reagito sparando. Catturato, processato e condannato a sette anni e otto mesi di prigione li aveva scontati interamente. Fu poi mostrata ai giornalisti l'armeria dei banditi: mazze di ferro, martelli di gomma, pistole e fucili, piedi di porco, grimaldelli, chiavi false. Dai primi interrogatori si ebbe la sensazione che la banda fosse ancora allo stadio dei progetti. Iniziarono tuttavia le prime confessioni. Il 22 luglio 1967 la banda aveva rapinato a faccia scoperta, pistole in pugno, la gioielleria del signor Salvatore Spanu in via Sorso. Uno dei banditi aveva colpito con il calcio della pistola il vecchio gioielliere, era partito accidentalmente un colpo che si era conficcato nella parete. A questo punto i banditi erano fuggiti via spaventati. Di lì a pochi giorni, verso le tre del mattino, due banditi si erano presentati all’Hotel Lybissonis, alle porte della città, pistola in pugno. Il portiere li aveva avvertiti che di là nel bar, c'era gente. I rapinatori se l’erano data a gambe saltando su una “Giulia” che li aspettava fuori a motore acceso. Il Lybissonis trascurò di fare la denuncia, ma i banditi confessarono l’episodio in questura, in quell’agosto del 1967. La banda confessò anche di aver spedito lettere di ricatto all’industriale, Francesco Nulli. Dai giornali che riportarono la confessione dei malviventi, Nulli apprese che i banditi avevano in animo di rapirgli il figlio quindicenne. Nel calendario dei delitti progettati, la banda confessò due sequestri di persona e l'assalto ad una banca. Nella sede della banca abitava la sorella di quel Cossa, latitante, che per poco non aveva colpito con la sua pistola il dottor Grappone, il commissario Elio Juliano, capo della Mobile, il vice commissario Giuseppe Balsamo, suo collaboratore, andati il 14 agosto ad arrestarlo nell'ovile. Su questo Cossa emersero altri particolari inquietanti: la polizia lo credeva colpevole di due omicidi commessi a Porto Torres nel 1958 e a Osilo nel 1959, rimasti impuniti. Il fascicolo di questi due casi insoluti sarà riaperto, annunciarono i giornali.
E’ la sera dell'8 settembre 1967, quando nella redazione de’ La Nuova Sardegna si presenta un giovane elegante sventolando una carta d'identità: “Sono Umberto Cossa, il pericoloso fuorilegge…”.
L’uomo desidera costituirsi, e prega di avvertire i carabinieri.  I carabinieri, insiste, non la polizia “perché con quella non voglio avere a che fare”.
Il discorso con i giornalisti cade subito sul conflitto a fuoco nel corso del quale il pastore, secondo la questura, avrebbe cercato di uccidere gli uomini della polizia arrivati per arrestarlo. Il Cossa racconta la sua versione: «Quella mattina stavo radunando le pecore per la mungitura quando in lontananza notai delle persone. Le additai al fratello del mio principale, il signor Solinas, che però mi disse di star tranquillo, così proseguii verso una casa campestre diroccata. Giunto ad una quarantina di metri dalla casupola vedo che all'interno ci sono delle persone, altre due sono all'esterno. Da un buco del muro vedo spuntare la canna di un mitra. Sento un ordine secco: “Fuoco!” e cominciano a spararmi addosso. “Ma siete pazzi?” grido io, agitando la mano e avanzando un passo o due verso di loro. Quelli continuano a sparare. Di fronte alla morte, che si fa? Si fugge. E sono fuggito, mentre le pallottole si conficcavano nel terreno intorno a me, sollevando un polverone che mi accecava! Ho corso una sessantina di metri. Poi mi sono gettato a terra, dietro un muretto a secco. Quelli smettono di sparare. Allora, visto che non mi inseguivano, mi sono allontanato dalla zona». Gli spiegano che la polizia aveva mostrato la sua pistola in conferenza stampa. «Ma che arma? Non avevo addosso nemmeno uno spillo! Sfido la polizia a dimostrarmi che su quella pistola ci sono le mie impronte digitali!» E il progettato colpo alla banca? Il pastore Cossa nega che un'idea simile gli sia mai passata per la testa. E gli omicidi irrisolti del 1958 e del 1959? «Per fortuna a quell'epoca ero in prigione!» Il Cossa dice di avere i suoi testimoni, i suoi alibi. Ma quanto valgono le sue parole? Lui ribadisce di essersi presentato proprio perché innocente di tutto. Ora, se davvero conflitto a fuoco non c’era stato quel 14 agosto del 1967, tutto si rovesciava. Era tutto il contrario: se il Cossa non aveva tentato di uccidere gli uomini della polizia, era la polizia che aveva tentato di uccidere il Cossa. Ai giornalisti corre un brivido lungo la schiena. Domandano all’uomo che ne pensa dei complici che in questura, sembra, abbiano confessato. Lui risponde che, tranne uno o due, non li ha mai visti né conosciuti. Al bar Mokador, indicato come sede della banda, dice di non mettere piede da mesi perché ha litigato con la padrona. In conclusione il Cossa dice di essere fuggito «perché mi hanno sparato addosso; se mi avessero detto che erano della polizia mi sarei fermato; che cosa avevo da temere? Non ho commesso né furti, né estorsioni, né rapine! Dovevo sposarmi, mettevo in disparte i miei risparmi: che devo fare, il delinquente? Ditemelo un po' voi!»
Allo scoccare della mezzanotte Umberto Cossa entra nelle carceri di Sassari, scortato da un alto ufficiale dei carabinieri. A questo punto della vicenda succedono cose strane. Uno degli arrestati della “banda di ferragosto”, l'autista Mario Pisano, interrogato dal giudice istruttore, mostra le labbra tumefatte e bruciacchiate. Racconta di essere stato sottoposto ad un interrogatorio in un sotterraneo della questura. Racconta di essere stato legato a pancia in su sopra un pancaccio corto, la testa e le gambe penzoloni. Lo avrebbero costretto a confessare tenendogli le mascelle spalancate e facendogli ingerire acqua salata, cinque o sei litri, versata con un mestolo. Il giudice istruttore Pietro Fiore si consulta con il sostituto procuratore della Repubblica e ordina una perizia medico-legale. Pisano confessa di aver commesso dei furti di automobili in sosta, istigato da due sconosciuti, due strani personaggi mai visti prima d'allora a Sassari, che si facevano chiamare “Gianni” e “Franco” e che parlavano con l'accento partenopeo. Il giudice istruttore ordina ai carabinieri di indagare. E i carabinieri scoprono che i due napoletani esistono e si sono imbarcati dalla Sardegna proprio a ferragosto, accompagnati al molo dall'automobile della questura. La cabina, per uno dei due, è stata prenotata al nome di Gigliotti, e stranamente Gigliotti è il brigadiere della squadra mobile che ha compiuto l'operazione.
Ma chi è Il vice questore Giovanni Grappone che ha coordinato tutta l’operazione del 14 agosto 1967? Viene da Milano dove negli anni che seguono la legge Merlin, si distingue alla guida della squadra della buon costume. Anche il commissario Elio Juliano è un valente e ambizioso investigatore; primo della classe nei concorsi, un fuori classe nel lavoro di ricerca dei criminali. Ha iniziato a Napoli, dove s'è costruito un archivio criminale tutto personale, con centinaia di nomi di pregiudicati, ciascuno con la sua scheda sempre aggiornata: le note caratteristiche, il campo di lavoro, le tendenze, gli amici, i nemici, il soprannome e l'indirizzo.
Il giudice istruttore pensa che proprio Juliano oppure il suo diretto superiore Grappone, oppure l'immediato inferiore Balsamo siano gli uomini più indicati per svelare il mistero dei due napoletani giunti in Sardegna a far comunella con i giovanotti della banda di ferragosto, e poi partiti il giorno in cui la banda era stata arrestata. Ma i tre funzionari, e anche il brigadiere Gigliotti oppongono il segreto d'ufficio: non sono tenuti a rivelare il nome degli informatori della polizia. Il giudice osserva che si tratta di malviventi, ma gli uomini della polizia tacciono. Il magistrato allora spicca tre mandati di cattura per il commissario Juliano, per il vice commissario Balsamo, per il brigadiere Gigliotti. Le accuse sono di lesioni personali, abuso di autorità, violenza privata, falso ideologico in atto pubblico (il verbale di confessione del Pisano), calunnia.
Ai primi d'ottobre il magistrato spicca i mandati di cattura. L'incarico di eseguirli è affidato ad un ufficiale dei carabinieri che però prende tempo, si consulta con i suoi superiori e alla fine gira il malloppo alla questura. Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre un deputato monarchico sassarese, l'avvocato Dino MiIlia, indirizza alla presidenza della Camera un'interrogazione urgente per sapere se il governo conosce il motivo per cui i tre uomini della questura che dovrebbero essere già in prigione si trovano invece ancora in libertà. Un'ondata di interpellanze e di interrogazioni investe palazzo Montecitorio e palazzo Madama.
Nel frattempo Juliano, Balsamo e Gigliotti, si presentano al giudice e passano alle carceri per la registrazione dei nomi. Trascorreranno i pochi giorni di detenzione nell'infermeria dell'ospedale militare di Cagliari.

 “Si sfascia lo Stato!” titola il Secolo d'Italia del MSI. In effetti la struttura portante del Potere, è sotto accusa. Il mandato di cattura allora è preso in attenta considerazione: è legittimo? Erano stati avvertiti i superiori gerarchici dei presunti imputabili e il capo della polizia? Il prefetto, il procuratore generale, il ministro di Grazia e Giustizia, la Suprema Corte, erano stati informati? E’ possibile che due oscuri magistrati di provincia abbiano potuto spiccare il mandato di cattura per tre servitori dello Stato, senza chiedere il permesso a nessuno? S'invoca il ripristino della vecchia “autorizzazione a procedere” per i funzionari di polizia, oltre che per i deputati e senatori che già ne godono.
La radio e la televisione tacciono, i giornali non informano o informano con mezze notizie. Si sa poi che tutti i delinquenti accusano la polizia di averli maltrattati o picchiati durante gli interrogatori. “Spinte, schiaffi, occhi pesti sono una specie di reato professionale per la polizia” (L'Europeo), e i commissari sono stati incriminati “per qualche cosa che attiene alla lotta contro il banditismo, e non per debolezza o per omissione, si badi, ma per zelo, o per eccesso di zelo?” (Il Tempo). Che cosa sono questi atteggiamenti ultralegalitari dei magistrati? Dovrebbe forse la polizia “prendere per oro colato gli alibi dei ladri di bestiame”? (Il Messaggero).
Forse in Sardegna è scoppiata una specie di rivolta contro i poteri dello Stato?
“La Magistratura ha incriminato alcuni elementi delle forze dell'ordine. Dov'è lo scandalo?”, domanda il vice segretario della DC Flaminio Piccoli. Ma è una voce isolata. Il 23 gennaio 1970 presso il tribunale di Perugia, in sede d'appello, i “fatti di Sassari” saranno così liquidati: Pasqualino Coccone: 5 anni e 3 mesi (12 anni nel primo giudizio);
Mario Pisano: 4 anni e 6 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Umberto Cossa: 4 anni (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Monne: 4 anni e 10 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
ai confidenti della polizia:
Biagio Marullo: 7 anni e 6 mesi (3 anni nel primo giudizio);
Vittorio Rovani: assolto per insufficienza di prove;
ai funzionari di polizia:
vice questore Grappone: assolto perché il fatto non sussiste;
commissario di p.s. Juliano: 1 anno con la condizionale;
brigadiere di p.s. Gigliotti: 6 mesi con la condizionale;
guardia di p.s. Cinellu: 6 mesi con la condizionale.
Ora, è proprio nel 1967 che nasce l'«ossessione separatista», e quella che il centro di controspionaggio di Cagliari chiamerà in codice ‘Azione Sirio’. Tutto nasce da una confidenza raccolta dall'allora controverso capo sei servizi in Sardegna, il maggiore Massimo Pugliese. L'informazione è riportata in un appunto del 1972, nel quale compare la firma del generale Gian Adelio Maletti, diventato un anno prima responsabile del reparto D del Sid. Nel 1967 una gola profonda informa Pugliese che Feltrinelli è sbarcato in Sardegna e ha incontrato i più pericolosi latitanti dell'isola con il proposito di strumentalizzare il banditismo, con lo scopo di sorreggere l'ideologia separatista. Nei servizi il sospetto diventa una certezza.
Inizia una lunga e torbida stagione nella quale i complotti separatisti si materializzano in inchieste e processi, per poi inabissarsi misteriosamente. Storie opache dietro le quali, più di una volta, si intuisce l'ombra di una regia occulta degli 007. Fu Pugliese, monarchico e massone (era iscritto con la tessera numero alla loggia P2 di Licio Gelli, come il suo capo Gian Adelio Maletti) colui che insufflò nel mondo dei servizi segreti l'ossessione dei complotti separatisti. I rapporti di Pugliese su Feltrinelli e il suo viaggio in Sardegna, redatti dal capocentro del Sid di Cagliari, si erano infatti arenati in un primo momento nello scetticismo. Una nota interna del servizio segreto recita: «Il centro Cs (controspionaggio ndr) di Cagliari, prima tramite il capitano Baita e successivamente tramite lo stesso maggiore Coppola ha manifestato il convincimento che non è il caso di riprendere le indagini sulla vicenda, in quanto i piani dell'editore non erano seri». Una posizione condivisa anche dal Sid a Roma. Anche la polizia e i carabinieri accolgono con molta freddezza le informazioni 'passate" da Pugliese, inizialmente.
Poi, qualcosa cambia dopo la misteriosa morte di Feltrinelli, avvenuta a Segrate il 15 marzo del 1972. Pugliese, che ormai non è più responsabile della stazione del servizio segreto militare di Cagliari, torna in Sardegna nascondendosi dietro il nome in codice Polluce. Le indagini su Feltrinelli e il suo viaggio in Sardegna registrano un nuovo impulso.
Affiorano informazioni sempre più dettagliate, come il programma militare del gruppo dei separatisti capeggiati da Feltrinelli: lo sbarco nell'isola di Tavolara per «distruggere impianti militari» (la base di intercettazione della Us Navy). L'attacco al poligono interforze del Salto di Quirra, agli impianti della polizia di Stato di Abbasanta, al centro di addestramento per mezzi corazzati di Teulada. Assalti a caserme, boicottaggi a dighe e a impianti industriali.
.Emergono depositi clandestini di armi e progetti di paracadutare armi di fabbricazione cecoslovacca nel Supramonte di Orgosolo.
Polluce (alias Pugliese) non rivela la fonte di tutte queste notizie. Ma afferma che tra le idee di Feltrinelli c'era quella di affidare le truppe ribelli sarde a Graziano Mesina, allora latitante. Ricordiamo che Graziano Mesina è stato il più famoso bandito sardo del dopoguerra. Conosciuto per le numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro del piccolo Farouk Kassam. Pugliese parla anche di infiltrati nei movimenti indipendentisti, in Lotta Continua e di un giornalista cagliaritano (di cui fa il nome) che collabora col Sid. Il 29 giugno 1974, si materializza finalmente il complotto separatista: la polizia arresta un giovane studente universitario cagliaritano, Luigi Pilia, definito «noto simpatizzante di movimenti della sinistra exatraparlamentare». Nella sua auto trovano quattro candelotti di dinamite, una pistola e un foglio dattiloscritto nel quale sono fissati gli accordi con alcune persone (indicate solo con le iniziali) per organizzare attentati dinamitardi contro le sedi della Dc e del Psdi e il sequestro di due politici e di un industriale. Pilia non tarda a collaborare. Racconta tutti i dettagli della cospirazione facendo i nomi dei suoi complici e viene rimesso, incredibilmente, in libertà. Finiscono in carcere quattordici persone, due si danno alla latitanza. Siamo nel 1974, l’anno delle stragi di Piazza della Loggia e dell'Italicus, in piena strategia della tensione.
Il 19 giugno 1975 arriva la sentenza: solo Pilia e un altro imputato vengono condannati. Gli altri tutti assolti. E' la bocciatura dell'«Azione Sirio» costruita dai servizi segreti.  Il 'caso Pilia" approda in Parlamento con un'interrogazione firmata dai comunisti Cardia, Berlinguer, Marras e Pani. Il sottosegretario alla Giustizia Dell'Andro si degna di rispondere dieci mesi dopo, il 7 ottobre 1975. E’ Umberto Cardia che risponde in aula a Dell'Andro. Cardia che, in una sua nota segreta, Pugliese aveva definito, «ambiguo». Cardia è durissimo con la procura della Repubblica di Cagliari guidata in quegli anni da Giuseppe Villasanta proprio quel Villasanta che aveva autorizzato l'incontro in carcere tra Pugliese e Graziano Mesina.
Banditi, rapinatori, polizia, carabinieri, servizi segreti. Nella storia italiana strani intrecci che si ripetono nel tempo. A presto Igor il Russo……………….

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