giovedì

misteri italiani

gli strani accadimenti del 1967 a Sassari. La strategia della tensione e l’Operazione Sirio.



Nel 1967 a Sassari operò una strana banda di malviventi capeggiata da due pregiudicati, pastori. Da qualche tempo deputati, avvocati, commercianti e industriali, ricevevano lettere anonime, ingiunzioni a versare denaro per aver salva la vita. Chi contava qualcosa, a Sassari, riceveva la lettera, anche l'ex presidente della repubblica Antonio Segni. Spesso, i ricattati ricevevano dalla questura l'offerta di una scorta personale prima ancora che la lettera estorsiva arrivasse.
A metà agosto La Nuova Sardegna informò che la pericolosa banda era stata finalmente fermata, o quasi. La Mobile aveva arrestato un autista disoccupato, Mario Pisano, un altro autista, Archelao Demartis, un pastore, un infermiere, Graziano Bitti e suo padre, il vecchio Sisinnio Bitti, di anni 65, noto alle carceri locali, e uno studente in giurisprudenza, incensurato, Antonio Setzi. Fuori della rete però erano rimasti i due “pezzi grossi”, Pasquale Coccone, pastore, e soprattutto Umberto Cossa, anch’egli pastore, entrambi pregiudicati. Fu il vice questore in persona, Giovanni Grappone, a dare la notizia dell'operazione di polizia ai giornalisti convocati in questura, raccontando come si era svolta. All'alba del 14 agosto gli uomini della Mobile sassarese, comandati dallo stesso dottor Grappone, avevano circondato l'ovile dove il pregiudicato Cossa stava radunando le sue pecore. Gli fu intimato l'altolà, ma estratta una pistola, il Cossa incominciò a far fuoco sui poliziotti. Per fortuna la pistola al secondo colpo si inceppò, e il bandito la lasciò cadere a terra.  La polizia la esibì davanti ai giornalisti come prova. Il pastore era però riuscito a fuggire “lanciandosi con una folle corsa giù per un impervio costone”. I cronisti si guardarono tra loro stupiti: perché mai i poliziotti non avevano inseguito l’uomo? “A noi quel Cossa serve vivo!” chiarì il dottor Grappone.
Fu letta la fedina penale del Cossa: nel 1958, ancora giovanissimo, era stato sorpreso dai carabinieri nelle campagne di Urì, mentre spingeva avanti a sé un gregge di nove pecore rubate all'allora ministro dell'Agricoltura, on. Antonio Segni. All'intimazione dell’ Alt il Cossa aveva reagito sparando. Catturato, processato e condannato a sette anni e otto mesi di prigione li aveva scontati interamente. Fu poi mostrata ai giornalisti l'armeria dei banditi: mazze di ferro, martelli di gomma, pistole e fucili, piedi di porco, grimaldelli, chiavi false. Dai primi interrogatori si ebbe la sensazione che la banda fosse ancora allo stadio dei progetti. Iniziarono tuttavia le prime confessioni. Il 22 luglio 1967 la banda aveva rapinato a faccia scoperta, pistole in pugno, la gioielleria del signor Salvatore Spanu in via Sorso. Uno dei banditi aveva colpito con il calcio della pistola il vecchio gioielliere, era partito accidentalmente un colpo che si era conficcato nella parete. A questo punto i banditi erano fuggiti via spaventati. Di lì a pochi giorni, verso le tre del mattino, due banditi si erano presentati all’Hotel Lybissonis, alle porte della città, pistola in pugno. Il portiere li aveva avvertiti che di là nel bar, c'era gente. I rapinatori se l’erano data a gambe saltando su una “Giulia” che li aspettava fuori a motore acceso. Il Lybissonis trascurò di fare la denuncia, ma i banditi confessarono l’episodio in questura, in quell’agosto del 1967. La banda confessò anche di aver spedito lettere di ricatto all’industriale, Francesco Nulli. Dai giornali che riportarono la confessione dei malviventi, Nulli apprese che i banditi avevano in animo di rapirgli il figlio quindicenne. Nel calendario dei delitti progettati, la banda confessò due sequestri di persona e l'assalto ad una banca. Nella sede della banca abitava la sorella di quel Cossa, latitante, che per poco non aveva colpito con la sua pistola il dottor Grappone, il commissario Elio Juliano, capo della Mobile, il vice commissario Giuseppe Balsamo, suo collaboratore, andati il 14 agosto ad arrestarlo nell'ovile. Su questo Cossa emersero altri particolari inquietanti: la polizia lo credeva colpevole di due omicidi commessi a Porto Torres nel 1958 e a Osilo nel 1959, rimasti impuniti. Il fascicolo di questi due casi insoluti sarà riaperto, annunciarono i giornali.
E’ la sera dell'8 settembre 1967, quando nella redazione de’ La Nuova Sardegna si presenta un giovane elegante sventolando una carta d'identità: “Sono Umberto Cossa, il pericoloso fuorilegge…”.
L’uomo desidera costituirsi, e prega di avvertire i carabinieri.  I carabinieri, insiste, non la polizia “perché con quella non voglio avere a che fare”.
Il discorso con i giornalisti cade subito sul conflitto a fuoco nel corso del quale il pastore, secondo la questura, avrebbe cercato di uccidere gli uomini della polizia arrivati per arrestarlo. Il Cossa racconta la sua versione: «Quella mattina stavo radunando le pecore per la mungitura quando in lontananza notai delle persone. Le additai al fratello del mio principale, il signor Solinas, che però mi disse di star tranquillo, così proseguii verso una casa campestre diroccata. Giunto ad una quarantina di metri dalla casupola vedo che all'interno ci sono delle persone, altre due sono all'esterno. Da un buco del muro vedo spuntare la canna di un mitra. Sento un ordine secco: “Fuoco!” e cominciano a spararmi addosso. “Ma siete pazzi?” grido io, agitando la mano e avanzando un passo o due verso di loro. Quelli continuano a sparare. Di fronte alla morte, che si fa? Si fugge. E sono fuggito, mentre le pallottole si conficcavano nel terreno intorno a me, sollevando un polverone che mi accecava! Ho corso una sessantina di metri. Poi mi sono gettato a terra, dietro un muretto a secco. Quelli smettono di sparare. Allora, visto che non mi inseguivano, mi sono allontanato dalla zona». Gli spiegano che la polizia aveva mostrato la sua pistola in conferenza stampa. «Ma che arma? Non avevo addosso nemmeno uno spillo! Sfido la polizia a dimostrarmi che su quella pistola ci sono le mie impronte digitali!» E il progettato colpo alla banca? Il pastore Cossa nega che un'idea simile gli sia mai passata per la testa. E gli omicidi irrisolti del 1958 e del 1959? «Per fortuna a quell'epoca ero in prigione!» Il Cossa dice di avere i suoi testimoni, i suoi alibi. Ma quanto valgono le sue parole? Lui ribadisce di essersi presentato proprio perché innocente di tutto. Ora, se davvero conflitto a fuoco non c’era stato quel 14 agosto del 1967, tutto si rovesciava. Era tutto il contrario: se il Cossa non aveva tentato di uccidere gli uomini della polizia, era la polizia che aveva tentato di uccidere il Cossa. Ai giornalisti corre un brivido lungo la schiena. Domandano all’uomo che ne pensa dei complici che in questura, sembra, abbiano confessato. Lui risponde che, tranne uno o due, non li ha mai visti né conosciuti. Al bar Mokador, indicato come sede della banda, dice di non mettere piede da mesi perché ha litigato con la padrona. In conclusione il Cossa dice di essere fuggito «perché mi hanno sparato addosso; se mi avessero detto che erano della polizia mi sarei fermato; che cosa avevo da temere? Non ho commesso né furti, né estorsioni, né rapine! Dovevo sposarmi, mettevo in disparte i miei risparmi: che devo fare, il delinquente? Ditemelo un po' voi!»
Allo scoccare della mezzanotte Umberto Cossa entra nelle carceri di Sassari, scortato da un alto ufficiale dei carabinieri. A questo punto della vicenda succedono cose strane. Uno degli arrestati della “banda di ferragosto”, l'autista Mario Pisano, interrogato dal giudice istruttore, mostra le labbra tumefatte e bruciacchiate. Racconta di essere stato sottoposto ad un interrogatorio in un sotterraneo della questura. Racconta di essere stato legato a pancia in su sopra un pancaccio corto, la testa e le gambe penzoloni. Lo avrebbero costretto a confessare tenendogli le mascelle spalancate e facendogli ingerire acqua salata, cinque o sei litri, versata con un mestolo. Il giudice istruttore Pietro Fiore si consulta con il sostituto procuratore della Repubblica e ordina una perizia medico-legale. Pisano confessa di aver commesso dei furti di automobili in sosta, istigato da due sconosciuti, due strani personaggi mai visti prima d'allora a Sassari, che si facevano chiamare “Gianni” e “Franco” e che parlavano con l'accento partenopeo. Il giudice istruttore ordina ai carabinieri di indagare. E i carabinieri scoprono che i due napoletani esistono e si sono imbarcati dalla Sardegna proprio a ferragosto, accompagnati al molo dall'automobile della questura. La cabina, per uno dei due, è stata prenotata al nome di Gigliotti, e stranamente Gigliotti è il brigadiere della squadra mobile che ha compiuto l'operazione.
Ma chi è Il vice questore Giovanni Grappone che ha coordinato tutta l’operazione del 14 agosto 1967? Viene da Milano dove negli anni che seguono la legge Merlin, si distingue alla guida della squadra della buon costume. Anche il commissario Elio Juliano è un valente e ambizioso investigatore; primo della classe nei concorsi, un fuori classe nel lavoro di ricerca dei criminali. Ha iniziato a Napoli, dove s'è costruito un archivio criminale tutto personale, con centinaia di nomi di pregiudicati, ciascuno con la sua scheda sempre aggiornata: le note caratteristiche, il campo di lavoro, le tendenze, gli amici, i nemici, il soprannome e l'indirizzo.
Il giudice istruttore pensa che proprio Juliano oppure il suo diretto superiore Grappone, oppure l'immediato inferiore Balsamo siano gli uomini più indicati per svelare il mistero dei due napoletani giunti in Sardegna a far comunella con i giovanotti della banda di ferragosto, e poi partiti il giorno in cui la banda era stata arrestata. Ma i tre funzionari, e anche il brigadiere Gigliotti oppongono il segreto d'ufficio: non sono tenuti a rivelare il nome degli informatori della polizia. Il giudice osserva che si tratta di malviventi, ma gli uomini della polizia tacciono. Il magistrato allora spicca tre mandati di cattura per il commissario Juliano, per il vice commissario Balsamo, per il brigadiere Gigliotti. Le accuse sono di lesioni personali, abuso di autorità, violenza privata, falso ideologico in atto pubblico (il verbale di confessione del Pisano), calunnia.
Ai primi d'ottobre il magistrato spicca i mandati di cattura. L'incarico di eseguirli è affidato ad un ufficiale dei carabinieri che però prende tempo, si consulta con i suoi superiori e alla fine gira il malloppo alla questura. Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre un deputato monarchico sassarese, l'avvocato Dino MiIlia, indirizza alla presidenza della Camera un'interrogazione urgente per sapere se il governo conosce il motivo per cui i tre uomini della questura che dovrebbero essere già in prigione si trovano invece ancora in libertà. Un'ondata di interpellanze e di interrogazioni investe palazzo Montecitorio e palazzo Madama.
Nel frattempo Juliano, Balsamo e Gigliotti, si presentano al giudice e passano alle carceri per la registrazione dei nomi. Trascorreranno i pochi giorni di detenzione nell'infermeria dell'ospedale militare di Cagliari.

 “Si sfascia lo Stato!” titola il Secolo d'Italia del MSI. In effetti la struttura portante del Potere, è sotto accusa. Il mandato di cattura allora è preso in attenta considerazione: è legittimo? Erano stati avvertiti i superiori gerarchici dei presunti imputabili e il capo della polizia? Il prefetto, il procuratore generale, il ministro di Grazia e Giustizia, la Suprema Corte, erano stati informati? E’ possibile che due oscuri magistrati di provincia abbiano potuto spiccare il mandato di cattura per tre servitori dello Stato, senza chiedere il permesso a nessuno? S'invoca il ripristino della vecchia “autorizzazione a procedere” per i funzionari di polizia, oltre che per i deputati e senatori che già ne godono.
La radio e la televisione tacciono, i giornali non informano o informano con mezze notizie. Si sa poi che tutti i delinquenti accusano la polizia di averli maltrattati o picchiati durante gli interrogatori. “Spinte, schiaffi, occhi pesti sono una specie di reato professionale per la polizia” (L'Europeo), e i commissari sono stati incriminati “per qualche cosa che attiene alla lotta contro il banditismo, e non per debolezza o per omissione, si badi, ma per zelo, o per eccesso di zelo?” (Il Tempo). Che cosa sono questi atteggiamenti ultralegalitari dei magistrati? Dovrebbe forse la polizia “prendere per oro colato gli alibi dei ladri di bestiame”? (Il Messaggero).
Forse in Sardegna è scoppiata una specie di rivolta contro i poteri dello Stato?
“La Magistratura ha incriminato alcuni elementi delle forze dell'ordine. Dov'è lo scandalo?”, domanda il vice segretario della DC Flaminio Piccoli. Ma è una voce isolata. Il 23 gennaio 1970 presso il tribunale di Perugia, in sede d'appello, i “fatti di Sassari” saranno così liquidati: Pasqualino Coccone: 5 anni e 3 mesi (12 anni nel primo giudizio);
Mario Pisano: 4 anni e 6 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Umberto Cossa: 4 anni (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Monne: 4 anni e 10 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
ai confidenti della polizia:
Biagio Marullo: 7 anni e 6 mesi (3 anni nel primo giudizio);
Vittorio Rovani: assolto per insufficienza di prove;
ai funzionari di polizia:
vice questore Grappone: assolto perché il fatto non sussiste;
commissario di p.s. Juliano: 1 anno con la condizionale;
brigadiere di p.s. Gigliotti: 6 mesi con la condizionale;
guardia di p.s. Cinellu: 6 mesi con la condizionale.
Ora, è proprio nel 1967 che nasce l'«ossessione separatista», e quella che il centro di controspionaggio di Cagliari chiamerà in codice ‘Azione Sirio’. Tutto nasce da una confidenza raccolta dall'allora controverso capo sei servizi in Sardegna, il maggiore Massimo Pugliese. L'informazione è riportata in un appunto del 1972, nel quale compare la firma del generale Gian Adelio Maletti, diventato un anno prima responsabile del reparto D del Sid. Nel 1967 una gola profonda informa Pugliese che Feltrinelli è sbarcato in Sardegna e ha incontrato i più pericolosi latitanti dell'isola con il proposito di strumentalizzare il banditismo, con lo scopo di sorreggere l'ideologia separatista. Nei servizi il sospetto diventa una certezza.
Inizia una lunga e torbida stagione nella quale i complotti separatisti si materializzano in inchieste e processi, per poi inabissarsi misteriosamente. Storie opache dietro le quali, più di una volta, si intuisce l'ombra di una regia occulta degli 007. Fu Pugliese, monarchico e massone (era iscritto con la tessera numero alla loggia P2 di Licio Gelli, come il suo capo Gian Adelio Maletti) colui che insufflò nel mondo dei servizi segreti l'ossessione dei complotti separatisti. I rapporti di Pugliese su Feltrinelli e il suo viaggio in Sardegna, redatti dal capocentro del Sid di Cagliari, si erano infatti arenati in un primo momento nello scetticismo. Una nota interna del servizio segreto recita: «Il centro Cs (controspionaggio ndr) di Cagliari, prima tramite il capitano Baita e successivamente tramite lo stesso maggiore Coppola ha manifestato il convincimento che non è il caso di riprendere le indagini sulla vicenda, in quanto i piani dell'editore non erano seri». Una posizione condivisa anche dal Sid a Roma. Anche la polizia e i carabinieri accolgono con molta freddezza le informazioni 'passate" da Pugliese, inizialmente.
Poi, qualcosa cambia dopo la misteriosa morte di Feltrinelli, avvenuta a Segrate il 15 marzo del 1972. Pugliese, che ormai non è più responsabile della stazione del servizio segreto militare di Cagliari, torna in Sardegna nascondendosi dietro il nome in codice Polluce. Le indagini su Feltrinelli e il suo viaggio in Sardegna registrano un nuovo impulso.
Affiorano informazioni sempre più dettagliate, come il programma militare del gruppo dei separatisti capeggiati da Feltrinelli: lo sbarco nell'isola di Tavolara per «distruggere impianti militari» (la base di intercettazione della Us Navy). L'attacco al poligono interforze del Salto di Quirra, agli impianti della polizia di Stato di Abbasanta, al centro di addestramento per mezzi corazzati di Teulada. Assalti a caserme, boicottaggi a dighe e a impianti industriali.
.Emergono depositi clandestini di armi e progetti di paracadutare armi di fabbricazione cecoslovacca nel Supramonte di Orgosolo.
Polluce (alias Pugliese) non rivela la fonte di tutte queste notizie. Ma afferma che tra le idee di Feltrinelli c'era quella di affidare le truppe ribelli sarde a Graziano Mesina, allora latitante. Ricordiamo che Graziano Mesina è stato il più famoso bandito sardo del dopoguerra. Conosciuto per le numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro del piccolo Farouk Kassam. Pugliese parla anche di infiltrati nei movimenti indipendentisti, in Lotta Continua e di un giornalista cagliaritano (di cui fa il nome) che collabora col Sid. Il 29 giugno 1974, si materializza finalmente il complotto separatista: la polizia arresta un giovane studente universitario cagliaritano, Luigi Pilia, definito «noto simpatizzante di movimenti della sinistra exatraparlamentare». Nella sua auto trovano quattro candelotti di dinamite, una pistola e un foglio dattiloscritto nel quale sono fissati gli accordi con alcune persone (indicate solo con le iniziali) per organizzare attentati dinamitardi contro le sedi della Dc e del Psdi e il sequestro di due politici e di un industriale. Pilia non tarda a collaborare. Racconta tutti i dettagli della cospirazione facendo i nomi dei suoi complici e viene rimesso, incredibilmente, in libertà. Finiscono in carcere quattordici persone, due si danno alla latitanza. Siamo nel 1974, l’anno delle stragi di Piazza della Loggia e dell'Italicus, in piena strategia della tensione.
Il 19 giugno 1975 arriva la sentenza: solo Pilia e un altro imputato vengono condannati. Gli altri tutti assolti. E' la bocciatura dell'«Azione Sirio» costruita dai servizi segreti.  Il 'caso Pilia" approda in Parlamento con un'interrogazione firmata dai comunisti Cardia, Berlinguer, Marras e Pani. Il sottosegretario alla Giustizia Dell'Andro si degna di rispondere dieci mesi dopo, il 7 ottobre 1975. E’ Umberto Cardia che risponde in aula a Dell'Andro. Cardia che, in una sua nota segreta, Pugliese aveva definito, «ambiguo». Cardia è durissimo con la procura della Repubblica di Cagliari guidata in quegli anni da Giuseppe Villasanta proprio quel Villasanta che aveva autorizzato l'incontro in carcere tra Pugliese e Graziano Mesina.
Banditi, rapinatori, polizia, carabinieri, servizi segreti. Nella storia italiana strani intrecci che si ripetono nel tempo. A presto Igor il Russo……………….

sabato

l'incendio della fabbrica Triangle di New York


La fabbrica della Triangle Waist Company occupava l’ottavo, il nono ed il decimo piano dell’Asch Building di New York nell’area del Greenwich Village. L’azienda, di proprietà di Max Blanck ed Isaac Harris, produceva camicette da donna. Normalmente la fabbrica impiegava circa 500 dipendenti, in maggioranza giovani donne immigrate, che lavoravano 9 ore al giorno, nei giorni feriali, e 7 ore il sabato, guadagnando, per le 52 ore di lavoro settimanali, tra 7 e 12 $, l’equivalente di una cifra compresa tra i 171$ ed i 293$ del 2016. 


Verso le ore 16 e 40 di sabato 25 marzo 1911, mentre la giornata lavorativa stava terminando, un fuoco improvvisò divampò in un cestino di rottami di sotto ad uno dei tavoli dell’angolo nord-est dell’ottavo piano. Le condizioni della fabbrica erano quelle tipiche del tempo: i tessuti infiammabili erano immagazzinati per tutto l’edificio, gli scarti di tessuto erano sparsi sul pavimento e gli operai che lavoravano come tagliatori a volte fumavano durante il turno di lavoro. Inoltre l’illuminazione era fornita da luci a gas e c’erano pochi secchi d’acqua per spegnere gli incendi. Il primo allarme antincendio fu lanciato da un passante alle ore 16 e 45. In tre minuti le scale divennero inutilizzabili, in entrambe le direzioni, e gli impiegati terrorizzati si affollarono sull'unica scala antincendio esterna. La via di fuga era una struttura di ferro fragile e ben presto si contorse e crollò a causa del calore e del sovraccarico, provocando la morte di circa 20 persone che caddero da un’altezza di 30 metri sul pavimento di cemento sottostante. Gli operatori degli ascensori, J. Zito e G. Mortillalo, salvarono molte vite viaggiando tre volte sino al nono piano per caricare i lavoratori. Purtroppo dopo questi tre viaggi furono costretti a rinunciare poiché le rotaie dell’ascensore si piegarono a causa del calore sprigionato dal fuoco. Alcune persone dei piani interessati dall'incendio riuscirono ad aprire le porte dell’ascensore e saltarono nel vuoto cercando di aggrapparsi ai cavi. W. G. Shepard, reporter della tragedia, disse: “Quel giorno imparai un nuovo suono, un suono più orribile di quanto possa narrare la descrizione ovvero il tonfo di un corpo vivente che sbatte su un pavimento di pietra”.


Una grande folla si radunò per strada, giusto il tempo di assistere alla morte di oltre 60 persone che si lanciarono dall'edificio in fiamme. Il resto dei lavoratori attese l’arrivo dei pompieri, ma fu sopraffatta da fuoco e fumo. I vigili del fioco giunsero rapidamente, ma non furono in grado di fermare le fiamme poiché non vi erano scale disponibili in grado di raggiungere il sesto piano. Inoltre i corpi delle vittime cadute, o gettatesi nel vuoto, resero complesso l’intervento di spegnimento dell’incendio. 
L’incendio uccise 146 operai di entrambi i sessi. 
La maggioranza delle vittime era composta da giovani donne italiane o ebree dell’Europa Orientale. 


I proprietari della fabbrica, che al momento dell’incendio si trovavano al decimo piano, si misero in salvo lasciando morire donne ed uomini rimasti intrappolati.
Perché loro si salvarono ed i lavoratori perirono nell’incendio?
Blanck ed Harris, proprietari dell’azienda, tenevano chiusi a chiave gli operai per paura che rubassero o facessero troppo pause durante i massacranti turni di lavoro. 
Il processo che seguì li assolse e l’assicurazione pagò loro 60.000 $ per i danni subiti, corrispondenti a circa 400 $ per ogni defunto. 
Il risarcimento alle famiglie fu di 75 dollari.
Ai funerali assistettero diverse migliaia di persone. 


L’incendio della fabbrica Triangle, fu il più grave incidente industriale della storia di New York. L’evento ebbe un forte eco sociale e politico tanto che, in seguito alla disgrazia, furono varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro. Inoltre crebbero notevolmente le adesioni all’International Ladies Garment Workers Union, oggi uno dei più importanti sindacati degli Stati Uniti. 


L’incendio avvenuto il 25 marzo del 1911 è, spesso, uno degli eventi ricordati per la nascita della Giornata internazionale della donna. Non è da questo, come erroneamente riportato da diverse fonti, che trae origine la commemorazione. La connotazione politica della Giornata della Donna, l’isolamento politico della Russia e le vicende della Seconda guerra mondiale contribuirono alla perdita della memoria storica delle reali origini della manifestazione e, nel dopoguerra, iniziarono a circolari fantasiose versioni secondo le quali la commemorazione dell’otto marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia d’operaie di un’inesistente fabbrica di camicie Cotton avvenuto nel 1908 a New York, creando confusione con l’orribile disgrazia della fabbrica di camicie.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Argersinger, Jo Ann E. ed. The Triangle Fire: A Brief History with Documents (Macmillan, 2009)

Stein, Leon (1962). The Triangle Fire. Cornell University Press

von Drehle, David (2003). Triangle: The Fire That Changed America. New York: Atlantic Monthly Press


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

giovedì

chi ha ucciso Anna Mae?


“Gli anziani Sioux dicono che il vento ulula sempre quando viene spostato il corpo della vittima di un omicidio. Durante la veglia e i funerali tradizionali tenutisi per Anna Mae Aquash – violentata, uccisa e il suo cadavere privato delle mani - i venti di tempesta raggiunsero i 60 kilometri all’ora, battendo i campi desolati” 

(Johanna Brand – Vita e morte di Anna Mae Aquash)


Il 24 febbraio 1976, appena fuori dal villaggio di Wamblee, nel Sud Dakota, Roger Amiotte, approfittando del clima relativamente mite in quel periodo dell’anno, costruisce una cinta di delimitazione su una parte scoscesa del terreno del proprio ranch, all’interno della riserva indiana di Pine Ridge. Siamo sul confine nord orientale delle Badlands, le terre cattive dei Sioux Lakota, a due ore di auto dalle Black Hills le sacre colline dei nativi, a meno di un’ora di marcia da Wounded Knee dove nel 1890 centinaia di uomini, donne e bambini Sioux di Piede Grosso vennero massacrati dall’Esercito degli Stati Uniti. Sono le 14.00, il contadino a bordo del proprio pick-up percorre il letto di un torrente in secca in fondo ad un pendio, sul lato sinistro della striscia d’asfalto che collega la Highway 73, quando alla base dell’arido dirupo corroso dal vento scorge un corpo umano rannicchiato. Non lo tocca e corre ad avvertire le autorità a Pine Ridge, circa 160 km a sud. Nel giro di due ore sul posto accorrono vice sceriffi dalla vicina cittadina di Kadoka, poliziotti tribali indiani della riserva, nonché alcuni agenti dell’FBI. Si tratta di una giovane donna nativa semi congelata e semi decomposta, dall’apparente età di 25-30 anni, alta meno di un metro e sessanta, unghie lunghe, camicia di colore chiaro, giacca a vento rossa ed un braccialetto turchese al polso destro. Nessun documento di identità. L’autopsia sommaria e frettolosa del dottor Brown, volato apposta da Scottsbluff in Nebraska, referta la causa di morte da congelamento. Il medico, con una prassi del tutto inusuale, recide le due mani della ragazza consegnandole agli agenti dell’FBI, perché sul posto non si è in grado di rilevare le impronte digitali. Passato qualche giorno, non riuscendo ad accertarne l’identità, il cadavere viene seppellito nel cimitero dietro la chiesa cattolica del Santo Rosario, nei pressi di Pine Ridge. Una umile tomba senza nome. Il 6 marzo successivo l’FBI di Washington annuncia che le impronte digitali appartengono a Anna Mae Pictou Aquash, appartenente alla tribù MicMac della Nuova Scozia (Canada), nota attivista dell’AIM (American Indian Movement), amica intima dei leader latitanti del movimento Dennis Banks e Leonard Peltier, veterana dell’occupazione di Wounded Knee del 1973 e di molte delle successive azioni dell’AIM. La riesumazione del cadavere ed una nuova autopsia fissata per l’11 marzo, eseguita dal patologo Gary Peterson nominato dai parenti della ragazza e pagato da Candy Hamilton legale di un gruppo di sostegno dell’AIM, stabilisce che la giovane indiana non è morta assiderata, bensì uccisa con un colpo di pistola cal. 32 alla nuca sparato da distanza ravvicinata, dopo aver subito uno stupro e probabili percosse, verosimilmente 3-4 settimane prima del ritrovamento. Un vero e proprio giallo. La macchina della giustizia a questo punto si mette in moto davvero, emergono inefficienze e superficialità da parte di tutti i pubblici ufficiali protagonisti del ritrovamento e della prima autopsia. I mass media si interessano al caso e in quella parte di opinione pubblica un po’ più attenta ai fatti di cronaca nera e più sensibile agli accadimenti nelle riserve indiane si pongono diverse domande: chi è quella bella ragazza indiana e perché le è stata riservata una fine tanto orribile?


Anna Mae Pictou nasce il 27 marzo 1945 nella riserva degli indiani MicMac nella Nuova Scozia, appena fuori dal villaggio di Shubenacadie, in una delle tante comunità native squallide e devastate dalla povertà, dalla disoccupazione, dove la fame e le pessime condizioni sanitarie rappresentano la norma. Ultima di tre figli, Anna Mae cresce e studia in una scuola cattolica, dove l’unico contatto con il mondo tradizionale della tribù MicMac resta un vecchio libro di preghiere, nel quale i canti e le liturgie sono tradotte nell’antica lingua degli antenati. All’età di 11 anni è costretta a trasferirsi in una scuola residenziale fuori dalla riserva, vicino a New Glasgow, dove impara il sarcasmo e gli sbeffeggiamenti razzisti dei suoi compagni bianchi che la considerano appartenente ad un popolo pigro ed ubriacone. Lei d’altra parte, crescendo, impara il silenzio e l’indifferenza verso chi la insulta chiamandola Squaw, evitando ogni sorta di coinvolgimento, ben sapendo che agli occhi degli insegnanti la colpa di ogni contrasto viene attribuito ai ragazzi nativi, tra le risa degli altri scolari bianchi. Nell’estate del 1962, all’età di 17 anni, Anna Mae dice basta e se ne va, unendosi alla famiglia della sua amica Doris Paul nella migrazione di massa verso lo Stato americano del Maine, in cerca di lavoro stagionale. Dopo alcuni mesi come raccoglitrice di more nei quali lavora 15 ore per un dollaro al giorno, alloggiando in un letto di paglia senza acqua corrente e nell’assenza di servizi igienici di qualsiasi tipo, Anna Mae si trasferisce quindi a Boston trovando impiego come imballatrice in uno stabilimento. Stordita dalle attrazioni della metropoli americana, la ragazza sogna una vita migliore ma si ritrova presto incinta per ben due volte dell’amico MicMac Jake Maloney. La giovane coppia si impegna e riesce a stabilirsi in un appartamento, quasi una vita da bianchi, ma l’idillio dura poco e Anna Mae si ritrova sola, picchiata e tradita dal marito, con due bambine piccole in una grande città americana. La ragazza però non si dispera e si inserisce in una comunità di recupero per indiani colpiti da alcool e droga: il Boston Indian Council. Diventa parte attiva dello staff del progetto “Bicultural education school” (Tribes) e riscopre la bellezza delle proprie tradizioni, diventa insegnante di materie scolastiche nelle varie iniziative per i bambini indiani: arte, artigianato, musica e danza. Finalmente è parte di qualche cosa, finalmente si sente orgogliosa della propria cultura. Le sue bambine Denise e Deborah la seguono ovunque. Il 26 novembre 1970 la 25enne Anna Mae incontra per la prima volta i militanti dell’AIM, l’American Indian Movement, uno dei movimenti più radicali del momento al quale aderiscono anche i nativi della costa orientale come i Wampanoag, i Narraganset e i Passamaquoddy. In quell’occasione intravede Russel Means, uno dei leader del movimento, mentre con altri 200 militanti seppellisce simbolicamente la roccia di Plymouth sotto una tonnellata di sabbia, “una sepoltura simbolica della conquista dell’uomo bianco”. L’AIM è stata fondata da poco, a Minneapolis nel 1968, un periodo difficile per la storia americana: c’è la guerra fredda e impazzano le proteste studentesche, viene ucciso il senatore Robert Kennedy e le pantere nere tendono un’imboscata alla polizia di Oakland, i Vietcong lanciano l’offensiva del Tet su Saigon e giornalisti come Peter Arnett denunciano i metodi dell’establishment Yankee nel Vietnam. L’FBI, che fronteggia il dissenso su vari fronti e con molti mezzi spesso poco ortodossi, è particolarmente attenta a questi movimenti rivoluzionari, temendo che il diffondersi dei disordini minino ulteriormente la sicurezza nazionale. 


All’epoca il Presidente dell’AIM è John Trudell, cantante e poeta, tra i leaders storici figurano i telegenici Dennis Banks e Russell Means: trecce tradizionali, frange di camoscio e stivali da cowboy, poi divenuti anche attori in alcuni film di Hollywood (l’ultimo dei Mohicani) ritratti in un’occasione da Andy Warhol, personaggi carismatici e pressoché onnipresenti all’interno del movimento. Il Los Angeles Times all’epoca li definisce come "i due indiani più famosi dai tempi di Toro Seduto e Cavallo Pazzo". Diversi personaggi famosi simpatizzano per il movimento, tra loro Marlon Brando e Jane Fonda. Al di là dell’immagine, l’obiettivo dichiarato del Movimento è molto importante: tutelare gli indiani nei ghetti urbani dove da decenni sono sfollati dai programmi governativi, diventare il baluardo di salvaguardia della sovranità dei nativi americani, denunciare i numerosi episodi di molestie e di razzismo da parte della polizia ma soprattutto, almeno inizialmente, trattare temi come la spiritualità. Bisogna comprendere infatti che con il movimento l’antica religione indiana viene vissuta come segno di riscatto dalla cristianizzazione forzata, torna a vivere dopo essere stata vietata sin dai tempi di Franklin D. Roosvelt. Ancora negli anni ’60 i bambini vengono puniti se pregano alla maniera indiana, gli uomini incarcerati se praticano i bagni di sudore, le sacre pipe distrutte e i fardelli di medicina bruciati o consegnati ai musei. Grazie al movimento i missionari vengono allontanati da alcune comunità native, si torna all’uomo-medicina e si ripercorre la strada del peyote. La radicalizzazione ben presto si allarga alle riserve dell’Ovest, la stampa bianca riscopre il problema indiano ed il “red power”, anche grazie ad azioni dimostrative di vasta portata, come l’occupazione di Alcatraz del 1971. Nel novembre 1972 Anna Mae, il suo nuovo compagno Nogeeshik Aquash, un artista Chippewa originario dell’Ontario ed altri membri del Boston Indian Council partecipano all’occupazione dell’edificio del Bureau of Indian Affairs di Washington al termine della “Marcia dei Trattati Infranti” organizzata dall’AIM. Ma la svolta avviene nel febbraio del 1973, Anna Mae e Nogeeshik, lasciano le due bambine a Boston dalla sorella di lei e partono per unirsi al movimento nell’occupazione del minuscolo villaggio di Wounded Knee – simbolico luogo degli indiani Sioux, triste ricordo del massacro del 1890 – ad opera di circa 200 giovani militanti nativi i quali, dopo aver fatto irruzione nel trading post di Gildersleeve gestito da bianchi e aver preso in ostaggio per poco tempo 11 persone, si barricano attorno alla chiesetta cattolica del sacro cuore ed al museo, con lo scopo di attirare l’attenzione del mondo sulla situazione disperata della loro gente e protestare contro il regime oppressivo e corrotto del presidente tribale Wilson di Pine Ridge, che ha dalla sua parte una milizia indiana, i “goons”, vera e propria squadraccia armata che spadroneggia liberamente nella riserva. Appena Dennis Banks vede la nuova arrivata Anna Mae le dice di andare in cucina, a lavare i piatti. "Sig. Banks, " risponde Anna Mae " non sono venuta qui per lavare i piatti. Sono venuta qui per combattere. " Se è vero che Wounded Knee è il luogo ideale per i rivoltosi, viste anche le condizioni di Pine Ridge che registrano una disoccupazione del 54%, alcoolismo cronico e povertà diffusa, è anche vero che per il Governo i tempi ed i modi sono perfetti per giustificare una controffensiva assolutamente sproporzionata. Tutta l’area viene circondata da ingenti forze dell’ordine in assetto di guerra, vengono perfino schierati reparti dell’Esercito (nonostante le Leggi interne lo vietino). Si crea un assedio che dura 71 giorni nei quali le parti si scaricano addosso migliaia di proiettili, o meglio i rivoltosi reagiscono con i pochi proiettili che hanno all’immensa azione di fuoco, spesso solo dimostrativa, delle truppe assedianti: alla fine lo stallo si conclude grazie all’intervento del capo spirituale della riserva Lakota, Frank Fools Crow, che media la resa tra l’FBI, i Goons e Dennis Banks.


Nelle settimane di lotta si contano 2 indiani uccisi e diverse persone ferite, compresi alcuni agenti di polizia, 185 militanti sono trattenuti in stato di fermo. In questi 71 giorni Anna Mae sposa nel rito indiano il suo compagno e diventa una delle pochissime donne di spicco del movimento, si guadagna la stima e l’affetto di tutti, uomini e donne, ma soprattutto donne. Infatti mentre la parte femminile costituisce circa metà dei ranghi del movimento, Banks, Means e una manciata di uomini ricevono tutta l'attenzione. "Stavamo facendo quello che le donne indiane hanno fatto per migliaia di anni, stare dietro ai propri uomini e sostenerli" dice Mary Brave Bird, amica di Anna Mae e scrittrice dei discorsi per i leader dell’AIM. "Volevamo presentare un'immagine al mondo e l'uomo indiano arrabbiato era meglio della donna indiana arrabbiata. I guerrieri davano spettacolo." La fine dell’occupazione lascia però un clima avvelenato, il movimento non è più lo stesso: alcuni giovani piangono quando sanno che un altro trattato è stato firmato. “Soltanto un altro trattato da violare”. Disordini, aggressioni contro il movimento e omicidi spesso impuniti si susseguono a Pine Ridge (23 morti solo nel 1973) le indagini latitano quindi non si sa quanti crimini siano maturati all’interno del Movimento, quanti perpetrati dalle squadre di Wilson, o quanti addirittura provocati dagli agenti dell’FBI. La riserva diventa un vero e proprio regno del terrore. William Janklow, candidato per la carica di procuratore generale dello Stato del Sud Dakota, dichiara: "L'unico modo per affrontare il problema indiano nel South Dakota è quello di mettere una pistola alle teste dei leader AIM e premere il grilletto". La paura di infiltrati serpeggia per anni, fino al 1975 quando il responsabile della Sicurezza dell’AIM, Douglass Durnham, confessa di essere un agente provocatore inviato dall’FBI, una vera e propria spia operativa, incaricata di infangare il movimento costruendo ad hoc presunti contatti dello stesso con la CIA, in modo da disinnescarlo e screditarlo agli occhi della popolazione nativa. Il 12 marzo Durnham getta la maschera durante una conferenza stampa a Chicago. E’ il caos, i dirigenti dell’AIM si accusano a vicenda, il movimento è scosso dalle fondamenta. I mariti sospettano delle mogli, le sorelle dei fratelli. I vecchi amici che hanno combattuto insieme molte battaglie per i diritti civili cominciano a temersi a vicenda. Quelli incarcerati sospettano di chi viene rimesso in libertà. La strategia dell’Fbi si rivela vincente, i sospetti e le paranoie si acutizzano e coinvolgono anche Anna Mae. La ragazza, già dal 1974 viene lasciata dal marito ed inizia una relazione con Dennis Banks, divenendo (stranamente per gli osservatori) anche grande amica della giovanissima moglie del leader Darlene (Ka-mook). I sussurri, l’invidia ed il sospetto si sprecano: lei, un’indiana canadese, un’estranea a tutti gli effetti al popolo Sioux, come ha fatto a salire così in alto nel movimento? Ma Anna Mae tira dritto, va dalla sua amica Mary Brave Bird a Rosebud, studia la lingua Sioux e comincia a produrre artigianato nativo. Sa essere dura quando c’è da lottare, sensibile e ben disposta verso chiunque sia malato o disperato. Intanto le fazioni si fronteggiano, lo stesso Dennis Banks, Chippewa originario del Minnesota, viene contrapposto a Russell Means Lakota sangue puro.


Nel bel mezzo di tale situazione il 26 giugno succede l’irreparabile: i due agenti dell’FBI Ray Williams e Jack Coler entrano nella riserva cercando un certo Jimmi Eagle, responsabile di rissa e rapina avvenuta nei pressi di Oglala qualche sera prima. Nella proprietà di Jumping Bull si verifica uno scontro a fuoco, i particolari sono ancora oggi poco chiari, l’unica prova è data dall’allarme dato via radio dai due poliziotti che urlano di essere stati attaccati da alcuni uomini all’interno di un furgone rosso. L’allarme tuttavia, come prassi dell’epoca, non viene registrato su nastro. La versione è però confermata da un terzo agente Gary Adams, sopraggiunto nei minuti successivi alle fasi concitate dell’allarme. Quando le armi cessano di sparare i due agenti e un nativo di 24 anni, Joe Stunz, giacciono a terra morti. L’ira della polizia federale si scatena subito dopo, il ranch viene circondato e crivellato dai colpi di M16 delle squadre speciali, i lacrimogeni sommergono l’intera proprietà. Le indagini, sulle quali a tutt’oggi gravano diversi dubbi, incastrano tra gli altri Leonard Peltier (quest’ultimo membro dell’AIM e già ricercato dal 1972 per tentato omicidio, in possesso di un furgone simile a quello ricercato nonché di armi ritenute compatibili ai colpi rinvenuti) come uno dei 4 o 5 nativi che si trovavano verosimilmente a bordo del furgone incriminato. Lo stesso verrà arrestato mesi dopo in Canada e condannato a 2 ergastoli. Per la riserva di Pine Ridge ha inizio la lunga estate calda del 1975, per Anna Mae Pictou Aquash gli ultimi mesi di vita. La polizia rastrella tutta la zona alla ricerca degli assassini, anche Anna Mae, grande amica del latitante Peltier, viene fermata parecchie volte dall’FBI, interrogata e sempre rilasciata sotto minaccia di essere espulsa dagli Stati Uniti in quanto cittadina canadese. Questo suo entrare ed uscire dai posti di polizia fa si che i sospetti su di lei si acuiscano. La ragazza, d’altra parte, cerca di evitare ogni contatto al di fuori della riserva ben sapendo il clima che regna. Alla fine di luglio Anna Mae si reca con Dennis Banks ed alcune donne Oglala al Crow dog’s Paradise, nella vicina riserva di Rosebud, per presenziare all’annuale danza del sole. Là viene avvicinata da Leonard Crow Dog, presente forse anche il ricercato Leonard Peltier ed altri che l’accusano apertamente di essere una spia dell’FBI. Dennis Banks si affretta a precisare che la loro relazione sentimentale deve finire. Anna Mae, scossa ed in lacrime torna da sola a Pine Ridge e teme sempre più per la propria vita. Il suo proverbiale ottimismo crolla, è delusa e teme tutti: l’FBI, i Goons di Wilson, ma soprattutto l’ostilità crescente da parte del suo movimento, che per lei rappresenta la casa per cui ha dedicato la vita, rinunciando a crescere due figlie. Si confida con l’amica Mary, piange e pensa alle bambine lontane. Temendo che le sue figlie crescendo possano ritenerla una poco di buono, istruisce la sorella Rebecca, che ospita le bambine, a conservare le sue lettere “in modo che quando le mie figlie avranno l’età giusta potranno leggerle e sapere la verità … non smetterò di combattere per il mio Paese finché non morirò. E allora saranno le mie figlie a prendere il mio posto. Mi fa male il cuore ogni volta che penso alle mie bambine”. Il 18 luglio, ad un raduno nel Montana il leader AIM Vernon Bellecourt accusa apertamente sul palco l’amico Bernie Morning Gun di essere un informatore della polizia. Il sospetto reciproco tra i membri dell’AIM ha raggiunto l’apice. Nei primi di agosto Dennis Banks, condannato per alcuni fatti violenti accaduti nel ’72 nella cittadina di Custer, si dà alla latitanza. Alla fine di ottobre l’FBI di Portland (Oregon) diffonde le ricerche di un Camper Dodge Explorer con targa New Mexico di proprietà dell’attore Marlon Brando (amico e sostenitore dell’AIM) sospettando che a bordo ci possano essere i latitanti Dennis Banks e Leonard Peltier. Il mezzo viene fermato sulla Highway 80 nei pressi della cittadina di Ontario, a bordo ci sono un uomo con due ragazze: Anna Mae Aquash e Darlene Ka-mook Nichols Banks (incinta di 8 mesi) le quali scendono dal camper con le mani in alto. Il veicolo, con a bordo probabilmente Leonard Peltier, schizza via esplodendo un colpo di pistola verso la polizia prima di scomparire. Le due ragazze vengono nuovamente arrestate e rilasciate pochi giorni dopo su cauzione.


Per l’AIM è tutto chiaro, qualcuno ha dato la soffiata all’FBI circa gli spostamenti del camper. Ai primi di dicembre Anna Mae viene portata a Rapid City per essere interrogata dai membri dell’AIM sui fatti di ottobre. Ogni volta che le rivolgono domande lei scoppia a piangere. Non ci sono prove a suo carico e quindi viene ufficialmente rilasciata. Da quel momento la ragazza scompare. Solo una telefonata verso metà dicembre alla sua amica Paula Giese per dirle che a gennaio l’avrebbe raggiunta a Minneapolis. Non la raggiungerà mai. Il suo corpo verrà trovato, violentato e giustiziato sulle badlands il 24 febbraio 1976. Al suo funerale presenzia qualche famiglia della riserva, molte ragazze Oglala, due uomini-medicina che pregano ai quattro venti alla maniera Sioux, nonché le sorelle di Anna Mae: Mary Lafford e Rebecca Julian arrivate dal Canada. Le due bambine sono state lasciate a Halifax dal padre. Nessun leader dell’AIM è presente! La risposta paralizzata dell’AIM al funerale di Anna Mae dimostra quanto fosse stata efficace la campagna denigratoria che ha legato la giovane MicMac all’FBI. Molte donne, amiche di Anna Mae, si allontanano dal movimento, alcune di loro neanche provano a difenderla, temendo di essere a loro volta etichettate come informatrici della polizia. Le indagini non vengono archiviate ma proseguono in maniera blanda: le Autorità canadesi, sollecitate dai parenti, chiedono agli Stati Uniti notizie sugli sviluppi dei procedimenti, ma accettano distrattamente le comunicazioni formali che non portano a nulla. Gli anni passano, le udienze del 1976, 1982, 1994, sollecitate dai legali della famiglia, non evidenziano passi avanti, nell’indifferenza della comunità bianca e nell’omertà di quella nativa. Nell’opinione pubblica resta un solo ricordo di Anna Mae Pictou Aquash: “un’altra indiana uccisa”. Anni dopo, nel 1997, Paul DeMain un indiano Objiwa redattore del quotidiano indipendente “News from Indian Country” comincia a pubblicare articoli sul caso di Anna Mae, sostenendo di avere nuove testimonianze che possono dare una svolta al caso. Gli investigatori hanno infatti ripreso le indagini con nuovi elementi. Nel 2002 DeMain dichiara che Anna Mae e Darlene (Ka-mook) Nichols, le due ragazze mentre erano a bordo del camper di Marlon Brando in quell’ottobre del 1975, udirono Leonard Peltier confessare l’omicidio di uno dei due agenti dell’FBI: “implorava per la sua vita ma io l’ho giustiziato” avrebbe detto il latitante dell’AIM alle due giovani. Peltier dal carcere denuncia DeMain per diffamazione ma ormai il dado è tratto e le nuove informazioni, vere o false che siano, diventano di dominio pubblico. Il caso passa al procuratore Rod Oswald: la gola profonda è Darlene Ka-mook, la ex moglie bambina di Dennis Banks dal quale ha avuto 4 figli (all’epoca della relazione aveva 15 anni) che conferma le dichiarazioni del giornalista e confessa che, dopo l’omicidio dell’amica Anna Mae, si è allontanata da Banks e dal movimento accettando di collaborare con l’FBI e di indossare un microfono. 


Per anni Darlene frequenta e interroga sotto mentite spoglie almeno 10 testimoni degli ultimi giorni di vita di Anna Mae, registrando di nascosto dozzine di ore di conversazione. Vengono quindi sentiti nuovi testi. Darlene – che in quegli anni si sposa con un poliziotto indiano che segue il caso - parla anche con Arlo Looking Cloud, il fratello nullafacente di un membro dell’AIM. Questo è il riassunto dei fatti che emergono dall’infiltrazione di Darlene: il 10 dicembre 1975 Anna Mae viene portata in più luoghi dagli indiani membri dell’AIM Arlo Looking Cloud, John Graham e dalla nativa attivista Theda Nelson Clarke. Diverse persone tra le quali alcune donne proprietarie delle case sono testimoni di questi giorni di spostamenti della ragazza (una di queste donne è Candy Hamilton, giornalista nativa e attivista, che si rivelerà molto importante per il prosieguo delle indagini). Dopo un crudo interrogatorio Anna Mae viene caricata nel bagagliaio di un pick-up e portata per una nuova seduta inquisitoria a casa di Thelma Conroy Rios (altra attivista incriminata per responsabilità nell’omicidio) a Rapid City. Qui Anna Mae resta qualche giorno e viene violentata da Graham. Infine, in una gelida alba, la ragazza viene legata e trascinata da Arlo Looking Cloud e da John Graham nelle badlands, dove sarà giustiziata con un colpo cal. 32 alla testa. Durante l’udienza del 2004 Arlo Looking Cloud dichiara “la ragazza era in ginocchio, smise di piangere e pregò per le sue figlie. Poi Graham le sparò alla nuca”. Graham nega ma viene condannato all’ergastolo, per il reo confesso Arlo Lokking Cloud la pena viene ridotta a 20 anni. Il Pubblico Ministero non si accontenta, convinto che i due uomini siano solo le pedine e che i mandanti siano proprio i leaders dell’AIM. Impossibile che un membro importante come Anna Mae, la ex donna di Dennis Banks, venga uccisa in quel modo senza un ordine dall’alto. Le indagini sfiorano John Trudell che testimonia ammettendo che Arlo Looking Cloud gli aveva confessato l’omicidio di Anna Mae da parte di John Graham. Trudell getta ombre anche su Dennis Banks, sostenendo che questi nei giorni di febbraio 1976 gli avrebbe confermato che la ragazza morta era Anna Mae, ancora prima che il cadavere venisse identificato. Dennis Banks in tribunale rimanda al mittente le accuse sostenendo l’esatto opposto e incolpando Trudell. Restano i sospetti ma nessuna prova viene comunque formalizzata contro eventuali mandanti. Le due donne incriminate muoiono di malattia e gli unici incarcerati restano i due esecutori materiali del delitto. In un’intervista al New York Times Dennis Banks (deceduto nel 2017) alla domanda se fosse a conoscenza o meno dell’omicidio della sua ex ragazza, dichiara: “il Governo ha fatto di tutto per far credere a chiunque nel movimento che Anna Mae fosse un’informatrice dell’FBI … non ci sono segreti ne domande sospese. Se c’è una casa in fiamme, nessuno dà necessariamente l’ordine di spegnere il fuoco. Qualcuno và e lo fa.” Dal maggio 2012 per gli Stati Uniti d’America il caso Anna Mae Pictou Aquash è chiuso. Solamente le figlie Denise e Debbie – che hanno fatto traslare la salma di Anna Mae nella terra nativa in Nuova Scozia - continuano la loro battaglia dal Canada, convinte che i mandanti dell’omicidio della loro madre si celino tra i leaders dell’AIM. Negli ultimi anni hanno costituito l’associazione “Indigenous Women for Justice” fondata per sostenere giustizia per Anna Mae e per le altre donne native canadesi, oltraggiate e abusate all’interno delle proprie comunità. Tra le loro battaglie figura la ferma opposizione alla grazia per Leonard Peltier, pur essendo la stessa invocata invece da molte parti, compresa Amnesty International. Per Denise e Debbie egli era un grande amico di Anna Mae, deve per forza sapere e deve dire quello che sa sull’omicidio della loro madre. 


Nel 1992 il regista inglese Michael Apted gira il film Thunderheart – cuore di tuono, con l’attore protagonista Val Kilmer, inserendo liberamente la figura di Anna Mae Aquash nei panni cinematografici dell’insegnante attivista Maggie Eagle Bear. Nel lungometraggio recita anche John Trudell, ex presidente dell’AIM. 

“Una Nazione non è morta finché i cuori delle sue donne resistono” (antico proverbio Cheyenne) 

Sergio Amendolia 

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Johanna Brand – Vita e morte di Anna Mae Aquash – Xenia; 

Mary Crow Dog – Donna Lakota – Est; 

Thomas E. Mails – Fools Crow capo cerimoniale dei Sioux Teton – Xenia; 

Philippe Jacquin – Storia degli indiani d’America – Mondadori. 

Sitografia






SERGIO AMENDOLIA

Nato 55 anni fa a Genova, sposato con 2 figli, 2 gatti e un cane, ho sempre guardato con stupore l'orizzonte e tutto ciò che quella linea rappresenta e contiene, convinto che dove il cielo finisce si celano sempre spazi e tempi lontani, spesso inesplorati o conosciuti poco e male. Forse per questo mi attira l'impostazione di questo blog ed i veli della Storia che gli articolisti provano spesso a sollevare, perché conoscere è importante e aiuta a capire ciò che siamo e come lo siamo diventati. Oltre alla nostra bella Italia ed alla sua impareggiabile ricchezza di arte e storia, mi affascinano molto gli scenari mozzafiato dell'Ovest Americano. In questi ultimi anni ne ho percorsi alcuni, ancora una volta cercando di varcare orizzonti i cui contorni sfuggono in continuazione, dimensioni che ho provato a malapena ad intuire nei volti dei nativi che ancora oggi si incontrano nelle riserve: a volte duri, scolpiti e aridi come i monoliti di arenaria rossa, probabilmente gli unici in grado di metabolizzare la sensazione di infinito che pervade quelle terre lontane. Per questo mi piace, quando il tempo libero me lo permette, collaborare con riviste e pagine web, tentando di approfondire le vicende che hanno caratterizzato la storia di quei popoli d'oltreoceano, in particolare l'epopea del West, con un occhio particolare agli uomini e alle donne che la vissero davvero, fuori dai luoghi comuni e dai grandi miti costruiti da Hollywood.

venerdì

i persuasori occulti, ieri e oggi

di Flavia Corso

Sono passati circa sessant’anni dalla pubblicazione del libro I persuasori occulti di Vance Packard. Era il 1957, e il giornalista e sociologo statunitense aveva deciso di prendere in esame i meccanismi che regolavano i consumi del popolo americano. 


A pochi anni dalla fine della guerra, ci si preparava infatti al boom economico che avrebbe caratterizzato gli anni ‘50. Il mutamento radicale della società aveva però messo in crisi gli esperti di comunicazione dell’epoca. Con l’avvento della produzione di massa, le aziende sentivano il bisogno di incrementare le vendite al fine di raggiungere un numero sempre maggiore di potenziali consumatori. La pubblicità, insomma, doveva trasformarsi. 

Il problema a cui dovevano principalmente far fronte i “persuasori occulti” (o, se vogliamo, i manipolatori sociali) era l’apparente irrazionalità del consumatore di fronte alla scelta di un prodotto. Questi persuasori si erano infatti accorti che non vi erano spiegazioni razionali alla base della decisione d’acquisto, ma le vere ragioni che portavano i consumatori a scegliere un prodotto piuttosto che un altro risiedevano nell’inconscio. 

Non era sufficiente fare un elenco delle caratteristiche di qualità che, razionalmente, avrebbero dovuto suscitare il bisogno di acquisto nel popolo americano. Spesso, anzi, questa tattica si era dimostrata controproducente, se non addirittura fallimentare, per moltissime aziende. Nemmeno i sondaggi riuscivano a far luce sui desideri inconsci dei consumatori: si era scoperto infatti che, nella maggior parte dei casi, le persone mentivano nel momento in cui veniva chiesto loro di esprimere un parere sincero su un qualsiasi tipo di merce ...


Per queste ragioni, le agenzie pubblicitarie si erano presto rese conto che, per vendere i loro prodotti, era necessario “attaccare l’inconscio” delle persone, facendo cinicamente leva sui bisogni segreti di ciascun individuo. Identificato questo intimo bisogno, “si prometteva al pubblico che l’unico modo di soddisfarlo era di acquistare questo o quel prodotto, dai condizionatori d’aria, alle miscele per dolci, ai motoscafi“.

Packard aveva individuato otto bisogni inconsci fondamentali che gli esperti di comunicazione utilizzavano per manipolare le scelte dei consumatori: la sicurezza emotiva (“il frigorifero rappresenta per molti la garanzia che in casa c’è sempre del cibo”), la stima e considerazione (“molte donne si sentono impegnate in una faticaccia per la quale non otterranno né compenso né riconoscimento morale.

Occorre quindi […] impostare la «pubblicità sulla nobiltà e l’importanza dei lavori domestici […]”), le esigenze dell’ego (“i manovratori si sentivano offesi e diminuiti dalle fotografie messe in circolazione dalla ditta, le quali davano il massimo risalto alla macchina a danno del manovratore, minuscola figura appena visibile nella cabina di comando”), gli impulsi creativi (“il giardinaggio è una «attività simile alla gravidanza», «cuocere una torta è un’azione sostitutiva del parto»), la speculazione sull’affetto (“gli agenti pubblicitari di Liberace, il celebre cantante-pianista della televisione, hanno giocato […] sul complesso edipico per «vendere» il loro divo alle donne che hanno oltrepassato l’età della maternità”), il senso di potenza (“questo bisogno di potenza, diffuso in special modo tra gli uomini, è stato individuato e sfruttato a fondo dalle industrie interessate al mercato delle imbarcazioni in America”), i legami familiari (“gli investigatori incaricati dell’inchiesta notarono che la gente, quando parla del vino, lo nomina spesso in relazione a riunioni di famiglia o altre occasioni festive”), e il bisogno di immortalità (“ciò che veramente attrae un uomo, nell’assicurazione a vita, accertarono gli psicologi, è l’implicita «prospettiva di immortalità attraverso il perpetuarsi della sua influenza”).


Gli sviluppi delle scienze sociali e della psicanalisi avevano fornito un terreno fertile per i manipolatori della mente: attraverso l’uso intrusivo di simboli, si denudava il consumatore delle sue barriere coscienti, quelle barriere che si frapponevano tra l’imperativo assoluto della vendita ad ogni costo e l’intima vulnerabilità delle persone, fatta di infantile narcisismo, senso di colpa e bisogno di prestigio. Si notava quindi che i riferimenti sessuali attraevano fortemente l’attenzione del pubblico (in particolare quello femminile), che la scelta dei colori giusti era indispensabile per raggiungere un determinato target di consumatori, che la grande automobile affascinava così tanto gli uomini perché donava loro un senso di virilità, e che anche le più radicate avversioni nei confronti di merci di un certo tipo potevano essere “curate”.

Ma il versante forse più inquietante di questo tipo di realtà riguardava la “psicoseduzione” dei bambini. Le grandi aziende davano una grandissima importanza alle nuove leve di consumatori, e avevano compreso che influenzare i bambini fin dalla più tenera età era una delle strategie più feconde per registrare un incremento delle vendite. Packard chiamava il reclutamento dei nuovi consumatori “allevamento di uomini”.

All’epoca, il libro di Packard veniva considerato fin troppo allarmista. 

Tuttavia, l’autore sapeva bene che il marketing occulto si sarebbe sviluppato nel corso dei decenni fino a raggiungere scenari impensabili per l’epoca in cui viveva. 

Nonostante in quegli anni molte aziende avessero annunciato di porre fine a questo tipo sleale di pubblicità, non è cessata l’intrusione nel nostro inconscio dei persuasori occulti; questi, nel nuovo Millennio, si chiamano “neuroscienziati”, e i loro metodi di persuasione “neuromarketing”. Non si tratta solamente di inserire messaggi subliminali dal contenuto inquietante nei cartoni animati destinati ai bambini, ma di creare un numero sempre maggiore di tecnologie in grado di far vacillare la nostre antiche certezze sul libero arbitrio. 

Oggi, molte grandi aziende fanno ricorso alla tecnologia di monitoraggio oculare (“eye tracking”): studiando il movimento delle pupille del consumatore, è possibile, ad esempio, sviluppare il confezionamento che attrae maggiormente l’attenzione del pubblico. Facebook, a giugno di quest’anno, ha sviluppato un brevetto per profilare gli utenti utilizzando messaggi subliminali nelle pubblicità, suoni non udibili dall’orecchio umano, che vengono prodotti dalla TV attivando così una registrazione audio ambientale. I neuroscienziati hanno voluto esprimere il loro parere anche in merito all’idea di un reddito di cittadinanza, passando così dalla persuasione del consumatore a quella del cittadino. In altre parole, le neuroscienze si stanno progressivamente avvicinando alla questione pubblica, non limitandosi solamente alla sfera dei consumi. Dal momento che, tramite queste suggestive tecniche, è infatti possibile rendere più attraente un prodotto agli occhi del pubblico, per quale motivo non mettere la “scienza” anche al servizio della politica? Ogni cosa, infondo, può diventare potenziale merce per gli esperti delle tecniche di persuasione subliminale, persino un’ideologia. È il trionfo del totalitarismo economico a scapito dell’etica politica, il rifiuto di rispondere alla domanda “perché no, se è possibile?”, o addirittura di porsela. Packard, tuttavia, questa domanda se l’era già posta molto tempo fa, e ad essa aveva anche dato una coraggiosa risposta.


“Il sopruso più grave che molti manipolatori commettono è, a mio avviso, il tentativo di insinuarsi nell’intimità della mente umana. È questo diritto alla intimità della mente – il diritto di essere, a piacere, razionali o irrazionali – che, io, credo, abbiamo il dovere di difendere” 
(Vance Packard).

Fonte: www.ereticamente.net

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