domenica

il grande Torino: una lezione di vita


Non sono un tifoso del calcio, non l’ho mai seguito e non mi ha mai particolarmente attirato probabilmente un po’ in controtendenza rispetto a buona parte degli italiani. A onore del vero, unica eccezione per me era quella di seguire la trasmissione “90° minuto” di Paolo Valenti che, poco dopo il termine degli incontri quando ancora si giocava solo di domenica, trasmetteva una breve sintesi delle partite del campionato di calcio di serie A. I miei amici, in fasce di età tra loro molto eterogenee, tifano squadre diverse: mi sono però reso conto che ce n’è una parte piuttosto corposa che, da una vita, è affezionata al Torino. Mi è capitato recentemente di imbattermi in alcuni articoli e trasmissioni che ricordano il Grande Torino degli anni 40 in occasione della 70° commemorazione della strage di Superga che mi hanno profondamente toccato e fatto riflettere. Se chiedete a un torinese dove fosse e cosa stesse facendo il 4 maggio 1949, difficilmente quel giorno lo avrà dimenticato. Probabilmente in molti direbbero che il cielo plumbeo era solcato da nuvole gonfie di pioggia e l’aria era cupa quasi come volesse anticipare cattivi presagi. Alle 17:03 l’aereo, che riportava a casa la squadra da Lisbona dove avevano disputato un’amichevole contro il Benfica, per un guasto meccanico all’altimetro e il pessimo tempo si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica di Superga. Dallo schianto non si salvò nessuno delle 31 persone a bordo: in un battito di ciglia tutti i 18 giovanissimi giocatori della squadra del Torino, 3 allenatori, altrettanti dirigenti e giornalisti e 4 uomini dell’equipaggio persero la vita. Quello fu il giorno che avvolse in una fiabesca malinconia il mondo del calcio e i tifosi del Grande Torino ma anche quello che consacrò la squadra alla leggenda.


Durante la 2° Guerra Mondiale la vita civile sociale subì dei contraccolpi molto forti e anche il periodo post-bellico immediatamente successivo alla fine del conflitto vedeva l’Italia in estrema difficoltà nel tentativo di riprendersi. Di fronte a un paese sfibrato da anni di guerra non si spegne la voglia di divertirsi per provare a ricominciare: i ragazzi del Torino vanno a giocare al Filadelfia nonostante quando suona il preallarme per i bombardamenti, debbano abbandonare tutto per rifugiarsi nei sotterranei dei Grandi Magazzini nella vicina Piazza Galimberti. 
Torino, nel 1945, è una delle prime città ad insorgere e la liberazione restituisce al paese un po’ di normalità: il pallone comincia a rotolare nuovamente negli stadi che si gremiscono sempre più di persone. Dal '43 in poi incominciano gli anni d’oro del Grande Torino che spesso vinceva con dei punteggi degni di una partita di tennis più che una di calcio: il Torino incarnava il simbolo della rinascita del paese e la voglia di riscatto del suo popolo. 
Nel 1946 gli italiani scelgono la democrazia: sono ancora anni difficili dominati da stenti e povertà, tuttavia timidamente ottimismo e leggerezza prendono piede e il paese ritorna a sorridere. In anni di difficile situazione politica che crea divergenze e spaccature lo sport sembra riunire e mettere d’accordo molti: campioni come Coppi e Bartali e imprese come quelle del Grande Torino aiutano a riacquistare fiducia e speranza in un paese messo in ginocchio. 


Eccoli i giocatori del Torino: la meglio gioventù dell’austera città Sabauda dai volti segnati dalle difficoltà di una vita dura che nessuno avrebbe meritato. Non si sentono dei supereroi, sono uomini veri e semplici che vivono una vita normale e che è possibile incontrare per le vie, in un caffè o nella poltrona accanto al cinema. Tre di loro, single e guasconi, condividono un appartamento in affitto in Via Nizza a Torino, due amici gestiscono in comune un bar che avevano messo a disposizione come quartier generale della squadra, uno - timido e introverso - aveva paura di tuoni e fulmini, un altro in campo imprecava da fare paura ma in fondo in fondo aveva un cuore grande per tutti, c’era chi era disposto a farsi spaccare le caviglie pur di portare avanti un’azione a favore del Torino. Persone semplici e straordinarie che, insieme, rappresentavano l’emblema della forza del Torino ed erano in grado di emozionare le persone. A caricare la squadra – ove ce ne fosse bisogno – c’è Oreste Bolmida, classe 1893, di mestiere capostazione a Torino Porta Nuova. Quasi per scherzo una volta suona la sua tromba d’ordinanza, come invito a “dare di più” sul campo: tale sprono viene colto dai giocatori che escono dal campo vittoriosi. Da allora la carica fu un’arma infallibile che veniva suonata all’abbisogna ma anche nei momenti in cui il pubblico desiderava divertirsi anche se il Torino stava già vincendo come in quella storica partita del 2 Maggio del 1948 quando l’Alessandria ne paga le spese con un incredibile 10-0.


Al tempo il presidente della squadra è Ferruccio Novo che sceglie di affiancare Luigi Ferrero a Ernst-Egri-Erbstein per dirigere la panchina del Grande Torino. Dopo due anni di fila di successi, Ferrero si dimette perché ritiene che i ragazzi siano così bravi da non aver bisogno di un allenatore quindi la sua presenza è superflua: rimanere gli sembrava quasi di rubare lo stipendio. In effetti i giocatori del Grande Torino sono così in gamba che ben 10 di loro sono convocati come titolari per comporre la nazionale italiana: un record, pare, ancora imbattuto.
I ragazzi sono incredibilmente affiatati in campo e fuori, hanno voglia di combattere e fame di vincere sono capaci di buttare il cuore oltre l’ostacolo per ripartire da zero quando tutto sembra perduto ribaltando risultati apparentemente impossibili da recuperare. Sono l’esempio per la squadra giovanile con la quale disputano regolarmente partite di allenamento, mediamente una alla settimana, che si dice siano sempre molto combattute. Valentino Mazzola capitano del gruppo è un condottiero altruista, un giocatore unico e irripetibile, capace di spendersi in campo e nella vita sacrificandosi per gli altri e per la squadra spronando e rendendo migliori anche i propri compagni.


Nel campionato 48/49 il Grande Torino risulta ancora la squadra da battere e i bambini conoscono la formazione a memoria, cuciono lo scudetto sulle maglie granata e godono di questo gioco raffinato accanto a padri e nonni. I quotidiani sportivi e la radio raccontano ogni settimana le imprese dei granata sia in Italia che fuori dai confini nazionali, purtroppo però si avvicina sempre più la data in cui il Grande Torino è destinato ad abbandonare la cronaca per entrare nella leggenda.
Per non venir meno alla parola data da Valentino Mazzola a Ferreira, capitano del Benfica ormai prossimo al ritiro, di disputare un’amichevole in suo onore, il Torino parte alla volta di Lisbona. Purtroppo da quel viaggio non tornarono vivi. Avrebbero potuto non partire, anche perché alcuni non erano nemmeno in perfette condizioni: ma la parola e l’onore venivano prima di tutto! 
Torino offrì il più illustre dei propri palazzi per ospitare e rendere onore a questi ragazzi, troppo presto portati via da un destino ingiusto. Una folla interminabile e silenziosa fluì nella camera ardente fino alla mezzanotte, quando furono chiuse le porte, per rendere l’ultimo omaggio ai loro beniamini. Il giorno successivo, in una città livida e ammutolita, sfilarono le bare su camion aperti attraversando Piazza Castello. A chiudere il corteo il pullman rosso del Torino, che aveva portato in giro per Italia ed Europa questi valorosi ragazzi, oramai tristemente vuoto.
Lo scudetto venne assegnato al Torino, che lo aveva già vinto con alcune settimane di anticipo, ma le ultime 4 partite furono giocate dalla squadra primavera che cercava di raccogliere un testimone troppo grande da portare e un’eredità troppo pesante da accogliere. Quando scesero in campo e venne annunciata la formazione lo stadio era gremito all’inverosimile, a ogni nome scandito della primavera ciascun tifoso associava il nome occupato nel medesimo ruolo dai giocatori scomparsi del Grande Torino. La squadra proverà a ricostruire quello che era stato, ma ormai i giocatori a cui ispirarsi, motore di quella squadra, non c'erano più. 
Ho pensato molto a questi protagonisti che, nonostante avessero poco e nulla e fossero sfiancati da una vita così dura, sono riusciti a creare un gruppo affiatato e coeso. Nessuno cercava gloria personale ma occasioni per dimostrarsi solidali, la squadra e il pubblico venivano prima di loro stessi: erano amati prima per quello che erano che per quello che facevano. Penso anche all’allenatore che si giudicava superfluo riconoscendo il valore dei ragazzi che dirigeva e ritenendo così di non meritarsi lo stipendio che gli veniva dato in quanto il suo valore aggiunto era praticamente ininfluente. Probabilmente impensabile al giorno d’oggi salvo qualche caso troppo raro e comunque evidentemente non degno di nota come meriterebbe. 


Spesso si accosta lo sport al business o al management, ma questa storia, che coinvolge tutto l’ecosistema aziendale, ci insegna che anche nelle difficoltà è possibile, molto spesso con poco, trovare la volontà per farcela e diventare persino migliori.
Penso a come sarebbe stato bello poter affiancare e imparare da persone così, magari con livelli di studio modesti ma con carattere e capacità umane di uno spessore che oggi difficilmente è possibile trovare. Avere fonti di ispirazione ed esserlo allo stesso tempo per gli altri in una macchina bel oliata dove tutti gli ingranaggi girano per un unico scopo comune senza rivalità e meritando il giusto rispetto per il lavoro svolto anche se apparentemente marginale. 
Dunque onore al Grande Torino nel 70° anniversario della terribile tragedia e grazie per aver contribuito a una piccola lezione di vita.

Marco Boldini

fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI


MARCO BOLDINI
Nato nel 1969 sposato, 3 figli e il gatto Balthazar, 47 anni ma in realtà ventisettenne con vent’anni di esperienza, cittadino del mondo e milanese di nascita ma miazzinese e, più recentemente, tainese di adozione. Volubile e curioso cerco quando posso di fuggire dalla noia e dalla routine, ho potenzialmente sempre la valigia aperta, pronto a passare da un aeroporto all'altro, a conoscere lingue, persone, culture e paesi diversi che ritraggo in maniera dilettantistica con la macchina fotografica. Amo in uguale maniera la montagna, che ti parla con i suoi silenzi e ti regala indimenticabili albe e romantici tramonti; da qui forse l’interesse per questo blog.

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